Pègaso - anno I - n. 9 - settembre 1929

M. CROISET, Eschyle 355 -------------- episodio, dell' Agamennone di Eschilo; un beau détail, disse il La Harpe, e tutti ripeterono : anche il Croiset, che insomma la scena di Cassandra, pur esaminandola e giudicandola con finezza, la considera relativamente alla crisi, che ella ritarda e inasprisce. E non si accorge che il colmo della visione fantastica di Eschilo in quella scena si aduna: quivi rie– cheggiano, come, in piena orchestra, dopo t6cchi e accenni innumerevoli già uditi; quindi si riespandono, con riprese variate, con più o meno di accento o di smorzo, tutti i motivi della poesia. La poesia dell' Agamen– none di Eschilo con gli occhi della vergine vaticinatrice bisbgna guar– dar la, se qualche cosa ne vogliamo vedere. Può sembrare un paradosso dire che tutta questa poesia antica, la quale per nove decimi è disegnata su trame mitiche, se la vogliamo intendere come poesia, dobbiamo guar– darla fuori di queste trame, al di là del mito, 'o dentro il mito, che è lo stesso: il mito è comune a tutti i poeti; l'accento della poesia è personale è singolare è unico, di questo o di quel poeta, di questa o di quella poesia. Quest'accento importa ascoltare: perché il mito è morto; l'accento della poesia è immortale. Della seconda parte dell'Od is.qea, come dico altrove, il colmo della poesia non è, come credono, nella eri.si del ventiduesimo libro; bensì è nel gran finale pauroso del vent esimo e in tutto il meraviglioso canto dell'arco, fino alle prime battute del canto seguente; subito dopo, nella mnesterofonia, la poesia si i,morza, cede al racconto, si impaluda in una enumerazione piatta. Tutta la seconda parte dell'Odissea, poeticamente, va guardata dal canto ven– tunesimo; come tutta la prima dal canto sesto. L'argomento, il fatto, il mito, la crisi, non hanno valore di poesia. Del resto i primi a non dar valore a queste cose· furono i poeti stessi; i quali riprendevano conti– nuamente miti già narrati o rappresentati. Ed era naturale, trattan– dosi di un patrimonio di cultura religiosa comune. A che cosa si ri– durrebbe la nostra pittura religiosa se noi vi ricercassimo novità, di argomenti e di situazioni? E invece, quante Deposizioni, quante Re– surrezioni, quante Madonne col Bambino e coi Santi, quante Pietà! Io guardo la Deposizione _della Croce di Pietro Lorenzetti: la solita. croce, il solito Cristo sorretto dai fedeli, le solite Marie; ma il quadro è tutto in quel groviglio doloroso e spasmodico di linee spezzate, clrn si appuntano perfino negli angoli dei volti, che si prolungano nello scavo delle occhiaie: tutto qui; niente altro. Il pittore, in quanto tale, il poeta in quanto tale, non hanno precedenti; ognuno è sempre e solo unicamente se stesso, nella sua unica espressione e creazione. Ora il Croiset, proprio sul principio del suo libro scrive cosi: « Ar- . gomento di questo libro è studiare specialmente la invenzione dram– matica in Eschilo. Di avere insegnato, e in maniera definitiva, come le leggende eroiche potevano essere accomodate alla scena e tramutate in tragedie, il merito .spetta a lui; come già riconobbero gli antichi. Tale accomodamento deve essere essenzialmente invenzione e creazione. » L'equivoco è evidente. Invenzione non è creazione: questa è la. espressione immediata del poeta, quella il suo sforzo intellettuale. Oso dire che dove più c'è questo sforzo, minore è la espressione. Euripide non è certo più gran poeta di Eschilo perché più «inventore» : negli sforzi intellettuali per rinnovare certi atteggiamenti dei miti è il suo BibliotecaGino Bianco

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