Pègaso - anno I - n. 8 - agosto 1929

M. GIANNAN'.1.'0NI, La medicina nell'opera di G. D'Annunzio 255 davvero da sorprendere, la esperienza dell'uomo è quella che può essere. La troppa giovinezza del Moravia, si accusa soprattutto nella sua sco– perta amoralità, nella sua ostentata indifferenza; dove c'è una sorta di pedanteria, un rigorismo astratto, diciamo tutto?, un tantino di posa. Quel tanto, anzi quel molto di moralmente soffocante e di artisticamente non vero che grava su questo verissimo libro, viene di li. Ma è un difetto che gli anni guariscono. PIETRO PANCRAZI. MARIO GIANNANTONJ, La medicina nell'opera di Gabriele D'Annunzio. Le Monnier, Firenze, 1929. L. 15. Sogna il guerrier le sqitadre, e il medico vede da per tutto casi clinici. Ond'è che potresti anche pensare che il dottor Giannantoni si sia mosso attraverso la, multiforme opera di D' A. come se si trattasse di girar.e per le corsie d'un policlinico o pei porticati d'un lazzaretto: quattro cardiopatici, tre tubercolosi polmonari, due tifosi, due epilet– tici, due idropici, e casi assortiti di lebbra, scorbuto, vaiolo nero, para– lisi, carcinoma, e via diagnosticando .... Tuttavia non si può negare che il Giannantoni, con un'opera come quella presa in esame, (il libro, di duecento grandi pagine fitte, è diviso in vari capitoli, come Anatomia, Fisiologia, Patologia, Chirurgia, Ginecologia, Neuropatologia, Oftal– mologia ecc., e cita oltre cinquecento esempi tratti da ben settantatrè fra opere e scritti vari dannunziani) abbia avuto buon gioco, e non si esclude che la sua esemplare fatica, per l'impressionante quantità del materiale passato in osserva:z,ìone, possa indurre alla fine il lettore in tentazione di giudizi d'un valore più essenziale e d'un carattere più rivelatore di! quetl che, cominciando a leggere, poteva supporre. Con– clusioni, in ogni modo, assai differenti da quelle, putacaso, alle quali si sarebbe giunti se uno studioso ci avesse rimesso sotto gli occhi gl'idropici e gli scabbiosi di Dante o gli appestati del Manzoni. Dante, a parte la considerazione che netl suo Inferno piaghe e difformità ci stan di casa, è altrettanto imperterrito nel fissare gli aspetti del male quanto poi pronto e deciso nel distaccarne gli occhi. Se insiste nella descrizione di certi orrori è che la ragione ultima del- 1' opera ve lo costninge, ma quell'insistere non è mai a vuoto. E per toccar del secondo : don Rodrigo, svegliandosi dopo quella sera di stravizi, si scopre tra il cuore e l'ascella « un sozzo bubbone d'un livido paonazzo»: lo portano via e non se ne parla più, se non verso la fine quando sta per tirar le cuoia. Ora io son sicuro, e dico questo senza ombra d'irriverenza, che a D' A. tutto ciò debba fare veramente l'effetto di cosa tirata troppo via. Resta però il fatto che quell'unica pennellata di livido paonazzo uno se la ricorda fin che campa e che qualunque altra àggiunta avrebbe probabilmente guastato ogni cosa. L'insistere che fa il D' A. su certi tratti d'estrema miseria fisica, di fronte ai quali l'istesso Alighieri avrebbe torto il viso, non è sempre indispensabile per raggiungere certi effetti che lo scrittore si prefiggeva. D'altra parte sarebbe anche ingiusto asserire che a D' A. la vista gli s'in– canti sulle piaghe solo per dargli modo di sfoggiare un crudele virtuo– sismo di scrittore, come accade per esempio a un Marino che impiega cen- BibliotecaGino Bianco

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