Pègaso - anno I - n. 8 - agosto 1929

250 D.ANTE, Episodes Jrom the Div-ine Comedy coltà sulle quali amano indugiarsi apologeticamente i traduttori fiacchi, possano esser superate, e bene, quando l'ispirazione assista. Per numerose che siano le versioni inglesi di Da,nte, di poeti che si sian cimentati con l'arduo testo non ce n'era forse che uno, il Long– fello-yv, se pure a noi moderni riesca di riconoscergli il titolo di poeta. Non ,è qui il ca,so d'indagare per qual dirizzone del gusto l'opera poetica dell'americano formi parte integrante dell'ammobiliamento delle pen– sioni di campagna anglosassoni; la sua versione dantesca, che cerca di. diminuire le difficoltà rinunziando alla rima, di poco s'avvantaggia per questo. Il Saintsbury giudicò la terzina non rimata del Longfellow « uno dei metri più abbominevoli che mai siano stati inventati. » D'al– tronde la vecchia versione del Cary, in uno stile alla Milton quale poteva concepirlo un classicheggiante del principio dell'Ottocento, è oggi più annosa del testo dantesco, a quel modo che certe statue del Thorwaldsen son più lontane dalla nostra sensibilità che non le antiche statue greche. Ohe tracce del gusto d'oggi debbano esser presenti pure nella ver– sione del Binyon è conseguenza necessaria del fatto stesso di tradurre, che, come sappiamo, è un ravvioinare a noi un autore lontano da noi nel tempo o nello spazio. È possibile che ai nostri nipoti certi passi del . Dante del Binyon sembrino caratteristici dell'età in cui viviamo: a noi, oggi almeno, non riesce di accorgercene. Ci pare invece che la nobiltà d'invenzione e di ritmo della Cornmedia sia cosi fedelmente ri– creata dal moderno poeta, come meglio non si potrebbe. E, del resto, la cultura del Binyon abbraccia un campo così vasto, che va dal Blake all'arte dell'Estremo Oriente, che un certo distacco dalle idiosincrasie d'oggigiorno non poteva non aver luogo. Chi, come lui, ogni mattina per recarsi all'ufficio (egli è direttore della collezione di stampe e disegni del « British Museum »), deve traversare sale oye son custoditi i tesori di disparate civiltà - ì'occhio, che un minuto fa scorreva sulle miniature medievali d'Europa, si posa ora sulle pitture murali cinesi, e da un con– torsionato rilievo di divinità indù passa alla rigida statuetta di legno egizia -, chi ha un occhio così esercitato difficilmente commetterà er– rori di prospettiva nel tradurre. In un brevissimo prembolo il Binyon richiama l' attenzione sulle due difficoltà principali: il metro, che egli ha accettato di rendere senza compromessi, e la maggior brevità delle parole inglesi, che lasciano vuoti ove un traduttore, che non sia poeta lui stesso, può facilmente ingolfarsi. La terzina, - come nota il Binyon, - è un tutto inscindibile; perciò ci sembra poco felice il compromesso escogitato da un altro recente e notevole traduttore, un universitario americano, J. B. Fletcher che dando nella Romanic Review del luglio-settembre 1927 un suo saggio di versione della Commedia, dichiarava per due ragioni non doversi man– tenere la terza rima quale si trova in Dante: in primo luogo per la, difficoltà di riprodurre quel metro in una lingua come l'inglese non ricca di rime; in secondo luogo perché l'abbondanza delle rime grava di troppa sonorità il verso inglese, le cui percussioni son più risentite: « L'orecchio ne è stancato. È come un continuo suonar di timballi.>> Che ha pensato allora il Fletcher ? Di non allacciare le terzine tra loro, facendo rimare il primo verso col terzo in ogni strofa, e lasciando BibliotecaGino Bianco

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