Pattuglia - anno I - n. 5-6 - marzo-aprile 1942

- SCAFFALE - I DELVAGABONDO I Andò così. L'altro giorno ri• tornando, stanco, nella mia vec• chia casa, che da più di dieci an· ni non abitavo, mentre ne facevo la pulizia, passando leggero lo stTaccio sulle pareti e sui mobili, fui colpito dall'indicibile Juciclotà della tendina cli raso verde che L I I I copriva lo scaffale dei miei Ji. bri: per jnvito naturale, mi avvicinai. La polvere non l'aveva minimamente intaècata: tersa era, come la notte in cui abbandonai la casa, e benché fosse ancora pomeriggio, aveva gli stessi ri• flessi che allora la luna su. cli lei provocava. Feci scorrere il raso in modo che mi permettesse d'osservare i libri che erano dispo• sti con ordine estremo nello scaffale: per un timido gusto di riscope~·ta, tremandomi quasi le I I I I I 11••• 1 • ~011111 ~ mani, presi a levarne il primo volumetto: ~•fortini « Cootemplazio· ni ». Ventiquattro anni pesano su queste cinquanta, leggere, pagi• nette, pure si direbbero cli oggi, tanto sono fresche e nuove. Una :freschezza e una novità, a cui è affidata la loro avventura e il loro valore. on c.'è nulla di cerebrale, di ostentato qui dentro: nemmeno si potrebbero dire nate per una tensione lirica, o per l'esasperazione cli essa: sono se• gni grafiti in estasi, senza altra ragione che l'incantamento nato dal loro ritmo. Martfoi s'è scor· dato cli migHaia di anni cli civiltà, dei travagli e dei dolori cli essa, è ritornato al punto cli partenza, al primo giorno dell'uomo sulla terra: sono, i disegni che Adamo ha !atto sulla pietTa servendosi della linfa che le foglie emettono quando, premute fra le dita, sono strofinate. Attorno la beata atm'o· sfera ciel Paradiso terrestre. Gli uccelli si fern1ano a mezz'aria per guardarli: cantano. Gli occhi mansueti del leone e della tigre li fissano: l'aria leggera li lievita, vi suona sopra come un flauto. S'aprono così queste pagine: Se tutte le cose diventassero verdi ancora gli uomini le chiamerebbero: alberi. A questo punto il mio compito potrebbe essere, finito: e se non ne foste ancora convinti guarda• te queste due contemplazioni, che per voi ho strap9ato dalle cin• quanta, leggere, paginette. GIANNT 1'ESTOII/ PARAVENTO L'ultimo libro di Zavattini ( « lo sono iJ diavolo> Bompiani editore, Milano) ci he. in un certo senso sorpresi. Il desiderio di dare al proprio scritto una ragiono simbolica ccl allusiva, di di• sciplinnre letterariamente il proprio linguaggio, di evitare certi candori evidenti e sentiti e l'istintivo cordiale entusiasmo creativo notato in « Parliamo tartt di me• cd « I poveri sono matti», è evident<" in tutto il libro in cui l'autore moJte volte soUoca la propria fresca e vergine fantasia inventiva in nome cli una dignità naì-rativa imposta. Parlando. del nostro autore abbiamo cercato sempre di evitare un preciso riferimento dell'arte di ZavatUni al surrealismo; e a ,proposito dei due precedenti libri di Zavattini c'eravamo, se pure a fatica, riusciti; ma alcuni raccontini di « Io sono il diavolo » ci richiamano ad una Incile evidenza surrcnlistica. Però quello che ci piace notare è come in questo nuovo libro oel più significativo umorista italiano si interessi da vicino e più matcria.lmente al fatto umano, e cerchi di scopriT'- ne le ragioni. E questa ricerca rende interessnnte e segnala a.lla nostra attenzione uno ZavaUini insolito, sconcertante nella ricerca precisa e nelh, scoperta Fantastica dei fotti che giustificano la quotidiana esistenza degli uomini. Zavattini, al di .Cuori di ogni fumisteria, ha scoperto l'uomo, il personaggio e si è quindi sotrermato a riscoprirne le c1uali.tà più stupefacenti. *** P. ~I. Pasinetti con questo suo libro (P. M. Pasinetti: « L'ira di Dio »; Mondadori, Milano) si aUerma decisamente come uno dei più rappresentativi scritt.ori del giovane mondo letterario italiano. Un'ansia indicibile di sfuggire ugli allettamenti di un genere lette• rario ora di moda, senza però ricadere nelle opposte deficienze, anima e segnala alla nostra attenzione i tre racconti. Con questo non vogliruno dire che Pasinetti non risenta e non dimostri influenze diverse: prima Ira tutte <1uella del naturalismo americano e poi q_uella, meno evidente ma più sorfcrta, di Joyce. La reazione uJ vizio bozz.cttistisco, il desiderio di dare alla vicenda delle proprjc creature una· continuità morale, mai moralislica, un linguaggio fortunatamente disadorno di ogni fronzolo letterario ed 'àderente nell'intimo ai personaggi vivi di una umanità semplice e nello stesso tempo complessa: ecco i pregi pinggiori dell'c fra cli Dio». A volte però lo scritto si perde in una indecisione ed in unn. indeterminatezza sociale e morale: e l'autore vi reagisce e vuo1e che la parola, la frase, il linguaggio inSol)lrna siano strettamente aderenti al proprio pensiero ccl allo propriu concezione. La prosa alloro. diventa opaca e coniusu, la tecnica imprecisa; ma sono rari momenti, quei momenti in cui l'ira cli Pasinctti, ira causata dal non sapere dire con umana evidenza tutto se stesso, prevale con• l'aspra eco di Calsi toni. Dei tre rncconU, se il soldato Smatch ci presenta con più precisione e con più accuratezza il mondo poetico dell'autore, Storia di famiglia ci dà invece esatta coscienza ciel suo discorso. * ** Il sentimento lirico del tempo, unn sensibilizzazione acuta pur nelle sue vaghe notazioni, un arrendimento alla sug• gestione di una fantasia costretta nei limiti dell'evanescenza e della indeter• minatezzo., uno prosa a volte sforzata• mente lirica: ecco Adolfo Jcnni (Adolfo Jenni: e Annate»; Guancia, Modena). L'autore ha voluto chiamare queste sue evasjoni e queste sue variazioni su un unico tema: prose di romanzo. Ma tali non sono per la deficienza di concretezza e per l'imprecisa de[j. nizionc del personaggio. Infime fantasie piuttosto. Peccato che spesso Jenni per dare alla propria pagina un magicQ sapore ricorra al compromesso di un sentimentalismo inadeguato al concetto ed alla sua intima essenza. Diletta la continuità espressiva; ed il credere che l'unità possa derivare dall'insistenza tecnica su una serie di probabiliti'l rende certe pagine stucchevoli e sazie di formalismi e compromessi indefinibili. Ma i pezzi buoni non mancano: pezzj in cu.i lo Jenni ha saputo imporsi una semplice spontaneità e si è espre-sso .senzn ricorrere e senza persistere in candidezze super[jcia.li. *** D.i un verde chiai·o e sereno è lu copertina di un libretto di poesie che Michele Campana ha voluto gelltilmente inviarci (l\rlichele Campana: «Il grano»; Ga]eati, Imola). Poesie che ci parlano della nostra terra e degli uomini Corti della campagna. Purole semplici e chiare, dette alla buona, ma con tutto l'ardore o la passione di cui sono capaci i romagnoli. Roba di casa nostra insomma. Un discorso piano, una Linda scrittui;a, un ncuto sentimento ccl un pieno amore della terra benedetta: c1ueste le poesie di Campana, serene di una se1•e4 nitù che vogliamo dire patriarcale. Poesie nostrane che ci 1>iacciono al di Cuori cli qualsiasi preferenza estetica. IWGO Fi9ndazione Ruffilli - Forlì Quattro pensieri di 1. de' f/Ji{J;i{J1 Forma e colore sono il corpo dell'arte o gran parte cli esso per essere più esatti, ma questo sa rebbe corpo ·inanilnato, senza l'anima, lo spirito, il soffio; !'in• neffabile, il delirio, il brivido clell'al di là, senza cui non c'è poesia, vale· a dire arte vera. * li vero in arte è tutto o niente. Giovanni Duprè nella sua semplicità un pò ingenua di pretto artefice toscano, dice nei suoi pensieri: « Oh il vero! ... non so· lo è un grande aiuto, ma è il principale fondamento dell'arte». Ed è un detto salutare su cui biso· gnerebbc riflettessero i giovani artisti: però. bisogna intendersi bene sul valore dato a questa e· sprcssione « iJ vero » ! Lo spunto del vero è necessario a un artista, ma questo può trasformarsi e an· zi quasi sempre si trasforma nei modi più impensati attraverso il lavoro della creazione. Il grido cli un povero ragazzetto sperduto, nel livido mattino milanese, «Spazzacamin! ... », come ognuno sa, si trasformò, udito dal Verdi, eia una stanza dell'albergo Mila· no, nel celebre pezzo della « Tra· viata •: • Di quell'amor quel• l'amor che è palpito». Un nesso c'è ma, quanto labile'... e vago. « Il fanciullo mendico » del Pa· scoli, questa delicata e perfetta lirica (virgiliana in altro senso) chi potrebbe dubitare che non sia stata ispirata dal vero? « Ho nel cuore la mesta parola di un bim· bo clic all'uscio mi viene - una lagruna sparsi, una sola per tante sue povere pene - e quella pen· sai che ve.russe fra gli ispidi ric• cioli ignota •. Ma è anche vero che nulla è più piatto e noioso del vero specie in pittura se non v'è un'anfrna che Jo vivifica. A Fattori, gli amici che amavano solo a metà la sua pittura, quando volevano farlo stizzire domandavano: « Cosa fa quel ca· vallo attaccato alla cavezza vicino a quel muro?» « Cosa fa? cosa fa? guardate se è bene dipinto, perdinci! ». È molto raro che un grande disegnatore non sia anche un co• lorista. Impossibile che un vero colorista non sja anche un disegnatore . Si può citare il caso cli Eu· genio Carrière, disegnatore forte, pittore monocl'Omo e freddo, ma personalità cli questo tipo, pure rispettabHi, non si possono cc,n• siderare che di secondo piano nel vasto panorama dell'arte. Dove il "disegno (inteso nel senso più vasto) si sposa al co· lore in una spede cli glorioso an• dante, e fruga nel più riposto se• gTeto delle forme, sicuro e sprcz• zantc insieme, bevendo la luce> indugiando voluttuosamente nelle penombre, è nella gloriosa pittura del seicento, che deriva in parte dal Tintoretto, in parte dal Van Dick e eia Rubens. Fiamme e oro, .sangue e delirio. FILIPPO DI-.'' l'ISIS

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