l’ordine civile - anno I - n. 4 - 10 agosto 1959

l'ordine civile parole di J ohannes suonano come i pa– radossi di un pazzo: se la fede dei pre- -senti fosse stata maggiore la giovane donna non sarebbe morta. Di fronte ai fa-miliari che ne hanno accettato la scomparsa, al medico scettico, al pasto– re che non ha fiducia ormai nell'op– portunità dei miracoli, solo una bam– bina crede· veramente che sua madre possa risorgere. E per la sua fede J o– hannes, non più a suo nome ma in no– me di Cristo, chiederà a Dio il mira– colo, gli domanderà la Parola. Questa, molto in breve, la vicenda. Narrarla è già parzializzare il film, da– to che esso consiste tutto in una lenta costruzione di personaggi avviati ver– so una conclusione, verso una logica finale, ma per virtù di forza interna, per una completezza interiore che li rende possibili di ogni conclusione, nep• pure in minima parte determinati e co– stretti ad un finale, tanto la penetra– zione psicologica è compiuta, tanto la raffigurazione artistica è perfetta. E' questo il fatto più sconcertante m Dreyer { chiarissimo anche in ccDies irae ») : l'intuizione totale del personag– gio, che è la proposizione piena di una realtà umana, storicamente geografica– mente e socialmente determinata, ma non affogata nel contesto storico geo– grafico sociale, non determinata mec– canicamente in ragione di questo. Prendiamo per esempio il capolavo– ro shakespeariano: di contro all'Amle– to di Shakespeare, intuizione totale di un personaggio, stanno le molte inter– pretazioni parziali, le molte letture che la critica e gli attori-interpreti che han– no dato nel tempo. Ebbene, noi ci ac– corgiamo che ognuna di queste letture non è che ccuna·» lettura parziale, pro– prio perchè unifica esplicitandola, e quindi sempre, in certo senso, sempli– ficandola, la raffigurazione a tutto ton– do data da Shakespeare. Tanto che ab– biamo il nostro metro per giudicarne le interpretazioni non nell'incisività o nella scelta da parte dell'attore di al– cune caratteristiche piuttosto che di al– tre, ma nella riproposizione, quanto più possibile totale, dell'intuizione ini– ziale, con i suoi dilemmi, con le sue incognite, intuizione che esige da noi, spettatori, sforzo di comprensione. E' ciò che accade per i personaggi di Dreyer. Possiamo chiamare il vec– chio Borgen un orgoglioso? Se lo fac– ciamo operiamo già una condanna che nell'autore non c'è. Possiamo chiamarlo un saggio patriarca che sente la sua fe. de vacillare? Anche questa è una sem– plificazione. Chiamarlo un vecchio stan– co, colpito dall'incertezza e dal dulibio? Diciamo sempre qualcosa di parziale. Proprio perchè il personaggio di Dre– yer - questo come tutti gli altri - smentisce continuamente se stesso, pu– re conservando una sua interna logica, come accade per ciascuno di noi, per ogni vivente. Così la semplificazione buoni-cattivi non è operabile in « Or– det ». Perchè la profondità del regista, che è insieme coerenza morale e pietà, rifiuta la colpa fuori della fitta rete delle situazioni e delle giustificazioni, rifiuta l'atto positivo fuori della fitta rete delle limitazioni e delle intenzioni imperfette. Questo conservando la ge– rarchia dei valori morali con un rigo– rismo quasi calvinista. Mettere in rilie– vo in Dreyer l'intuizione intimamente spiritualista del personaggio e della sto– ria, specie oggi che il cinema ci avvez– za a facili determinismi materialistici ( psicologici o sociologici), ci sembrava perciò molto importante. Ma scindere intuizione dei personag– gi, e in uno, del loro libero destino, cioè della vicenda, dai valori dello stile, del– l'espressione ( ottenuta per virtù di im– magini sonore - i dialoghi in Dreyer soIJ,o sempre fondamentali - e di im– magini visive) è parlare in astratto. Co– sì quel suo modo di fare cip.cma ( assur– damente contrario, in apparenza, alle regolette che ci hanno insegnato), quel suo individualissimo stile, composto di lunghissime inquadrature, all'interno delle quali luce, oggetti, personaggi pag. 23 compongono e dissolvono quadri diver– si, di sobrie nature morte, di graduali e non violente contrapposizioni di in– terni ed esterni ( quest'ultimi usati in chiave lirica), di indagine di volti, di– pana lentamente, come in un'analiti– ca pagina scritta, il filo del racconto. Si esce da due ore di proiezione e si ha l'impressione di aver consumato un vo– lume di migliaio di pagine. Eppure le parole che abbiamo letto sono state pochissime, appena quelle di una poesia. In un 'epoca di psicologismi e di film a sensazione, Dreyer, -come i classici di ogni parte, torna ai grandi temi, anzi al più grande, quello del rapporto fra uomo e Dio. Unico forse nella nostra civiltà occidentale ( ma le sue fonti cul– turali sono molteplici e non riducibili alla civiltà europea in senso stretto) Dreyer è capace di sviluppare un gran– de tema religioso a livello d'arte. LEANDRO CASTELLANI LETTURE CARLO LEVI, La doppia notte dei tigli, Ei– naudi, 1959. Una locuzione del Faust, <e La cloppia notte dei tigli», dà il titolo all'ultimo libro di Carlo Levi. Sul verso della copertina, una scritta avverte ohe « Goethe è l'invisibile guida di questo jti– nel'ario d'un Faust straniero, d'un Faust senza illusioni ». Non occorre essere forniti di senso dei limiti e delle proporzioni per accorgersi subito della differenza che separa queste promesse, (le qua. li, se non sono presuntuose, certo mirano alto) da quello che il libro è in realtà. L'autore,, invitato a tenere una conferenza a Stoccarda, e a prendere accordi con editori tedeschi, ha percorso il Wiirttenberg, la Svevia e la Bava– ria, fermandosi nelle città principali; ha visi– tato Berlino (Est ed Ovest) poi, dopo una set– timana circa, è tornato in Italia. Da questa -esperi;nza, consumata in così breve tempo, è nato questo libro di centocinquanta pagine, nelle quali sono narrati gli incontri che lo scrittore ha avuto in Germania. Si tratta, per lo più, di incontri casuali, cari al carattere in– quieto dell'autore, e d'altra parte determinati dal fatto che, conoscendo solo sommariamente il tedesco, egli si è dovuto affidare a interpreti e a guide volenterose ma spesso improvvisate. Ognuno, quando sia distolto dal suo -naturale ambiente, per breve tempo, dalla presenza di uno straniero, prova a dare quasi un concen– trato emblematico della sua persona, delle sue idee o dei suoi sentimenti. In Germania que– to normalmente accade assai più che in altri paesi, per certa capacità di mistificazione e di assolutizzazione' della realtà che nei tedeschi è quasi connaturata e .istintiva. In tutta la nazione, del resto, il nazismo prima, e poi la guerra, hanno prodotto una· tale disgregazione delle famiglie e degli ambienti più vari che l'avventura è diventata esperienza quotidiana ed universale, I'! le innumerevoli fratture spiri– tuali che_ ne sono conseguite hanno portato il loro carico di provvisorietà a pesare su tutto il mondo tedesco. Il paganesimo cli quel popo– lo rinasce in forme nuove, ma non sostanzial– mente differenti da quelle del tempo in cui la Wehrmacht insanguinava l'Europa. Di fronte a questa realtà tanto complessa e difficile, sul– la quale si sono esercitati già tanti scrittori, Carlo Levi si è posto -nell'atteggiamento di chi fin dall'inizio era ben sicuro che qualun– que cosa, se detta con goethiana grazia,.---e intel– ligenza, avrebbe avuto un valore culturale e letterario assicurato, e che una firma come quella legata a cc Cristo si è fermato a Eboli », non si sarebbe potuta smentire. Invece, tutta la prima metà del libro non è altro che un diar.io ( qua e là ben scritto, con uno stile talvolta nobilmente sollevato, secondo la mi– gliore tradizione, da onde retoriche liricheg– gianti) di giornate tedesche uguali a quelle che possono capitare a un qualunque viaggia– tore af.fretlato e nottambulo. Vale anzi la pena sottolineare questo nottambulismo, e la sua chiara origine romanesca: caffè Canova, via del Babuino, via Margutta, via Veneto: un nottambulismo che può anche essere di tipo internazionale, ma che rivela la sua vera mar– ca in certe pagine sulle birrerie di Monaco; « che cosa ci spingeva ancora - scrive Carlo Levi - in quell'ultima sera di Monaco, a quel. l'ora, per le vie percorse dal vento g-elato? Forse, il senso che c'era qualche altra cosa, in quel mondo di •sotto che andavo percorren– do, qualche altra cosa cli ancora più elemen– tare e rivelatore che gli aspetti della interna· solitudine, o che- il viso abbrutito della <:uoca berlinese, o la v,icenda di Frida, la donna che non poteva far sapere alla figlia il nome e la religione del padre, ucciso -nelle persecuzioni ». (pag. 511) Dopo di che, nell'unica birreria aperta alle tre di notte, tra le canzoni di Kurt Weill, mes_se in voga da recenti rappresenta– zioni italian_e del Dreigroschenoper di Brecht, Levi incontra un tale, che sembra uscito appun– to da una di quelle canzoni, e che gli raccon– ta una storia allucinante. Le pagine dell'ultima parte su Berlino, han– no il pregio di non gronda11e di sentimentali– smo come queste. E una certa vivacità è data dalla -cronaca del continuo .andirivieni dell'au– tore fra Berlino est e Berlino ovest, come se fosse preso nel giro di un giuoco. e< Mi pareva che gli uomini e le donne e le ragazze avesse– ro qui ( a Berlino est), in quelle loro vesti rozze, e lontane da ogni moderna finezza, un

RkJQdWJsaXNoZXIy