l’ordine civile - anno I - n. 4 - 10 agosto 1959

Duplicità della den1ocrazia Democrazia, a sentire anche i vocabolari, significa go– verno di popolo, autorità di governo fondata sul suffragio e sul consenso del popolo. Spetta al popolo la sovranità, ossia il titolo all'esercizio dell'autocrazia, intesa questa come po– tere radicale in cui risiede l'atto primo di ogni volontà poli– ticamente qualificata. L'ideale democratico impegna dunque il popolo a intervenire nel governo della cosa pubblica con il massimo di presenza attiva e determinante. Gli antichi co– struirono come palestra naturale di quest'intervento la polis: dove il governato di oggi, secondo l'incisiva formula d'Aristo– tele, po.ssedeva tutti i requisiti per essere considerato in fieri il governante di domani. Tuttavia questo popolo che in Atene fungeva da promotore diretto dell'azione di governo era pas– sato attraverso selezioni e qualificazioni culturali, politiche ed economiche tali e tante che la sua attitudine al governo presupponeva la degradazione allo stato servile di quello che noi oggi chiameremmo il vero popolo. A questo prezzo il cittadino ateniese poteva occuparsi normalmente degli affari politici rappresentando se stesso con una partecipazione e con una influenza dirette. La rappresentanza, nelle volte in cui vi si rico~reva, confinava per molti aspetti con l'isti– tuto della delegazione tecnica, a sfondo dittatoriale, del po– tere, mentre il popolo sovrastava in permanenza come unica e suprema magistratura. D'altro canto, a voler 1·iprendere la nota tesi di B. Con– stant, poiché il sentimento delle libertà civili coincideva negli antichi con quello delle libertà politiche, la distinzione ap– pena abbozzata o addirittura mancata tra sfera dell'individuo e sfera della società sminuiva l'ufficio della rappresentanza •sino a renderlo·istituzionalmente poco funzionale. La rappresentanza politica dunque, in quanto esperienza di un rapporto organicamente articolato tra il popolo e lo stato, si rivela un istituto. tipicamente moderno, al cui per– fezionamento presiede la lenta crescita dell'individuo in di– gnità e in autorità spirituali. Parte infatti dal cristianesimo il moto faticoso di assorbimento e di risoluzione dell'ordine politico-statuale nella coscienza dell'uomo, e il suo defini– tivo assoggettamento - senza demiurgie e aberrazioni idola– triche - al decreto sovrano della volontà d'ogni persona capace d'intendere e di volere. Sul piano strettamente politico questo moto si trasforma in « crisi )J appena da un paio di secoli, sotto l'influenza de– terminante della predicazione << naturalistica J> ( e non più o non -solamente soprannaturalistica) dell'uguaglianza ,dello uomo con l'uomo. Il popolo assume una figura politica pre– cisa man mano che perdono terreno le formazioni privati– stiche della sovranità (familiari, dinastiche, castali), durate così lungamente a fondamento dell'aristocrazia. La proposta rivoluzionaria consiste in questo, che, poli– ticamente parlando, s'ha da prendere il più « basso >> tra gli uomini come << uguale al superiore e inferiore a nessuno » (Locke): e su questa pietra angolare si costruisce la demo– crazia, riscattando il popolo da ogni soggezione, e valutan– dolo, agli effetti del ·potere, in ragione delle persone che lo compongono, e della loro uguaglianza. Ne deriva un allar– gamento della base dello stato, ampliata sino a comprendere tutti i presenti in una determinata ambiance sociale-nazio– nale, e a comprenderli come centri di autorità uguali, non subordinabili l'uno all'altro, epperò còorctinabili in un tutto dotato dell'omogeneità politica più intensa e perfetta. Quando il popolo ha dimensioni demografiche « impe– riali ))' rispetto a quelle della città-stato antica, è costretto a ricorrere, per l'esercizio dell'autogoverno, a suoi rappre– sentanti. Questo affidamento, per molti teorici della demo– crazia, presenta il ri·schio di una vera e propria abdicazione, di Francesco Mercadante ma il loro pessimismo non è giovato che a « porre l'incon– veniente >J. Cinquanta,· cento milioni di cittadini, per di più attenti a curare borghesemente i propri interessi, debbono rinunciare necessariamente, se vogliono esercitare un potere, all'esercizio diretto del medesimo. Il popolo si trasforma automaticamente in consesso di rappresentanti del popolo, e la sovranità popolare in sovranità di un parlamento che sia il vero palladio della democrazia. Ma questa trasformazione non avviene così semplicemente. Anzi, è proprio questo il Capo delle tempeste che ogni de– mocrazia deve doppiare nell'affrontare la traversata dal po– polo al parlamento. Che cos'è infatti il popolo? una riserva inesauribile di uguaglianza, e di autorità sovrana fondata su questa ugua– glianza. Per bocca del popolo parla la persona, la quale è il voto, un voto, tra un'infinità di voti uguali. Il suo suf– fragio è di natura essenzialmente monologica, non dialogica, perché si proietta al di sopra di ogni contrattabilità, come un absolutum. Non può esistere cioè in democrazia nessun contraltare del popolo, il quale popolo dirige la sua volontà per -effetto e sotto l'impulso di una determinazione cti puro imperio. L'aratro che scava il solco della città, e ne segna autoritativamente il limes, il perimetro morale prima che materiale, è mosso da questa suprema tensione monologica– mente creatrice. Se concorrenza c'è, essa è data da un con– venire di più persone tra loro che presenta schiette analogie col conventus di due persone che si sposano: un sì e un sì pronunciati nella libertà per la verità, un dialogo diventato subito la stessa parola, una sola parola. La sovranità è un tutto che non si scompone e non si decompone per somma o per divisione: e il v9to, in quanto dia figura politica al popolo, cioè a un certo numero di per– sone uguali in dignità e autorità, deve reali~zare questo tutto nella sua sfericità; e l'eletto del popolo, in quanto ne pun– tualizzi quasi con nome e cognome questa figura politica, o contiene e risolve esemplarmente in sé questo tutto, o lo consuma e ,dilapida senza riparo, perchè lo ricondiziona • attraverso il limite, qualunque esso sia. Si è accusata la de– mocrazia di essere iÌ regno del numero, perché non si è messo _ sufficientemente in risalto che il numero è puramente acces– sorio, un accidente, come è puramente accidentale che Tizio, nell'essere uomo, sia un uomo; o che un popolo, nell'essere fatto di persone, consti di un certo loro numero maggiore o minore. Guardiamo ora ai parlamenti. Esiste tra i deputati la stessa omogeneità di valore che. si riscontra nel voto popolare da cui essi sono espressi? Formalisticamente, non c'è dubbio che un deputato vale l'altro. Hanno tutti in comune la stessa medaglietta, lo stesso scranno, la stessa suppellettile di im– munità e appannaggi, e innumerevoli altri titoli di equipa– rante colleganza. Ma il guaio è che tutti questi titoli sono appunto formalismo. Fuori di questa cornice, ogni deputato è un mondo a sé, con un'orbita tutta sua propria da per– correre. Visto in trasparenza attraverso -il parlamento, il popolo diventa tutto rifrangenze dai colori più vari, come se gli si sovrapponesse un prisma. L'unicità e l'assolutezza sovrana del voto di ogni eletto1·e, anziché da principio di unificazione del corpo politico, funziona contraddittoria– mente come principio della sua polverizzazione in parti e partiti, in strati, sostrati e parastrati i più contrastanti tra loro. Il deputato rappresenta sì la totalità popolare, ma su– bito filtrata attraverso reattivi che, teoricamente, dovrebbero aggiungerle qualche cosa come se essa non fosse già tutto; meIÌtre in pratica la vizii:ino, la deformano, e la .snaturano.

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