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Gino BiancoChiaromonte-Caffi, lettere e altroTratto da Settanta, III (1972), 23, p. 38-46
Pubblicato in Gino Bianco, Socialismo libertario. Scritti dal 1960 al 1972. Prefazione di Alan J. Day, quaderni dell'altra tradizione, 5, Una città, 2011
(Una versione estesa di questo contributo in GINO BIANCO, Chiaromonte and Caffi. The story of a friendship, in «Survey», vol. 26, n. 2 (115), spring 1982, p. 8-17)
L’amicizia tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, i loro rapporti di maestro-discepolo sorretti da una reale affinità di idee, di valori e da una profonda solidarietà, sono un esempio eloquente del modo in cui cultura e vita interagiscono l’una con l’altra.
Si erano conosciuti a Parigi nel 1932 e già quel primo incontro ha il tratto saliente degli eventi memorabili. Da Roma dov’era rientrato verso la fine dell’anno, Chiaromonte gli scriveva: "Mi manca del tutto il sentimento di una società di spiriti, se non con lei. Sento che vicino a lei, tutto andrebbe meglio per me: o almeno avrei un maestro nel senso piu concreto, un uomo vicino al quale mi sarebbe piu facile vincere la sfiducia e la desolazione”.
Caffi, d’altra parte, riconobbe subito in Chiaromonte uno spirito affine giacché nell’irrequietudine intellettuale di quel giovane c’era l’affermazione della qualità in qualche modo morale dell’intelligenza e la conferma -per diria con Charles Peguy- che anche per un intellettuale "niente è più importante di una vita che rigorosamente si giuoca una volta sola”. All’origine della rivolta di Chiaromonte contro la dittatura mussoliniana c’era qualcosa di più e di diverso rispetto alle motivazioni ideologiche dell’antifascismo ufficiale: il disgusto per la costrizione e per la brutalità meccanica, un’insofferenza di tipo esistenziale che lo rendeva fisicamente incapace di adattarsi a un mondo (e quindi non già soltanto al regime fascista) che gli dispiaceva profondamente per la "sua assenza di valori d’ordine, di forma, di razionalità", la convinzione ragionata, infine, che ogni idea per essere vera, in ultima analisi, deve essere coerentemente vissuta.
E anche in questo aspetto della sensibilita di Nicola, Caffi riconobbe subito un’affinità elettiva.
Nelle interminabili discussioni che negli anni trenta agitavano gli ambienti dell’emigrazione antifascista a Parigi sulle forme di azione di un movimento rivoluzionario, le opinioni di Caffi e Chiaromonte erano evidentemente eterodosse: "per riconoscere un rivoluzionario -scrivono - vogliamo sapere come agisce non colle ‘posizioni’ ma con gli Uomini”.
Di fronte alla crisi che scuoteva la società europea e si estendeva anche ai "valori culturali”, alla degenerazione della rivoluzione russa, all’avvento dei totalitarismi, alla meccanizzazione brutale della società, cominciare "a pensare fuori dalla politica” divenne il programma di questi neo-illuministi. Caffi pensava socraticamente con gli altri e per gli altri, non scriveva saggi o articoli per pubblicarli ma lettere e note agli amici per chiarire od approfondire qualche punto che era stato sollevato nella conversazione (e soltanto per la grande insistenza degli amici alcune di queste lettere o note apparvero sul settimanale e nei Quaderni di Giustizia e Libertà). "Il discorso” che Caffi pianamente faceva era quello di un filosofo antico intento a ricostruire l’immagine di un mondo scisso e frantumato. Il ritorno a Proudhon voleva essere un ritorno "alla filosofia religiosa del popolo”, a un’idea della Giustizia intesa come facoltà che ci permette di "sentire il nostro essere negli altri”. Alla credenza di un progresso lineare indefinito Caffi e Chiaromonte contrappongono la tradizione del socialismo cosiddetto utopistico e la convinzione che "la società umana costituisce un problema sempre presente e sempre risorgente, il quale potrà o non potrà avere una soluzione finale, ma esige ad ogni modo di essere tenuto aperto attraverso tutte le vicende della storia”. Bisognava mettersi fuori dalla politica giacché ritenevano futile "organizzare la Repubblica quando il problema era organizzare la società”.
L’esempio di Platone suggerisce che "con le città corrotte non c’è nulla da fare” e che ci sono momenti nella storia "in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci”. Ma mettersi fuori della politica non implicava anche mettersi in un punto in cui si rifiutano tutti i principi di corruzione, possibile soltanto con un "ascetismo” senza riguardi per una quantità di cose che in un’altra prospettiva appartengono alla "civiltà” e alla "cultura”? Su un piano astratto e intellettualistico poteva esserci contraddizione, ma su un piano esistenziale no "giacché non si tratta affatto di ‘valori’ ma di moeurs, di influenza diretta e di scoperta di modi di essere”.
C’è un aspetto ulteriore e più vasto nella loro "descrizione della crisi”: la crescente frantumazione della sensibilità e della conoscenza artistica e culturale della nostra epoca aveva creato una situazione in cui l’arte e la cultura non sono più sentite come qualcosa a cui si possa ricorrere per trasmettere le verità comuni e fondamentali dell’amore, della fede e del dolore.
All’origine di quel cenacolo di discepoli e ammiratori che nella Parigi tra le due guerre si era formato attorno a Caffi c’erano un’esperienza comunitaria e una solidarietà d’affetti. Nelle conversazioni o nelle lettere che questi amici si scrivono si parla di idee, si discutono teorie filosofiche e artistiche, si fanno progetti culturali, ma dominante e ricorrente c’è l’aspirazione a formare una comunità di amici, "a vivere insieme per le nostre idee”. In quegli anni la Comune avrebbe dovuto, almeno per cominciare, riunire i componenti di quella che scherzosamente veniva chiamata la "gang” e cioè oltre a Caffi e Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giuà.
Ma chi era questo Andrea Caffi, l’"eremita socievole” intorno a cui si era stretta la gang? Cospiratore nella Russia zarista (era nato a Pietroburgo nel 1886), studente universitario a Berlino e parteci-pe dell’avanguardia artistica nella Parigi dell’inizio del secolo, fuoruscito sovversivo tra le due guerre, il viaggio interiore di Caffi conduce in zone profonde della coscienza, "au bout du possible”. Chiunque l’abbia conosciuto ha sentito di trovarsi di fronte ad un grande uomo dotato di qualità intellettuali eccezionali. La sua memoria era prodigiosa, le sue argomentazioni sempre profonde ed acute. E tuttavia i suoi scritti, non meno della sua vita, hanno il tratto del non concluso. Saggi sorprendentemente geniali che sembrano promettere libri che avrebbero rivaleggiato con quelli dei piu grandi storici e filosofi. Ma questi libri non sono stati scritti. La sua biografia potrebbe forse aiutarci a capire il perché. Dietro quella personalita geniale c’è un uomo tormentato, a tratti ossessivo, dominato da un profondo senso di colpa. "Saranno le misere e meschine condizioni dell’esistenza -scriveva a Levi nell’estate del 1935- sarà l’avvilimento per avere vissuto senza aver fatto nulla di buono (l’assicuro che questa volta almeno la storia di Bisanzio non c’entra per nulla). Fatto è che in mezzo a qualunque faccenda mi vince una fiacchezza fatta di tedio e di sorda disperazione, e le ultime energie servono a ‘mantenere un calmo contegno’ a ‘fare come se nulla fosse’ mentre irrimediabilmente mi sento scivolare in giù verso il buio, il regno delle ombre (o delle menzogne pietose)”. Nell’intimo della sua coscienza non gli resterà che la risorsa dell’ironia, dell’orrore per la meschinità e il compromesso, la nobiltà dei sentimenti. Non ha la-sciato che dei frammenti tanto la sua vita obbediva all’impazienza di essere smisurato. Ma a questa incapacità di limitarsi, di darsi una misura si accompagnava il bisogno profondo di essere accettato almeno da un gruppo di amici per quello che era, un declasse magari, o un maudit. Aveva cercato la verità sul cammino volta a volta del nichilismo, della rivolta, del misticismo e come Apollon Grigorev ripeterà tutta la vita: "comunque inizi, arrivo sempre allo stesso risultato, un profondo e doloroso bisogno di credere ad un ideale”. L’idea del sacrificio e di una reale comunione, presente in tutta la tradizione rivoluzionaria russa, influenzò Caffi fin da ragazzo. Diceva di aver sperimentato da adolescente "momenti unici, ineffabili d’amore e d’amicizia e di aver vissuto fin dall’infanzia nell’aspettativa della grande catastrofe”. I racconti delle rivolte, dei processi, della cospirazione lo colpirono profondamente. Caffi ragazzo sentiva che qualcosa di straordinariamente importante stava accadendo nella Russia di fine secolo. Più tardi scriverà di "aver vissuto fin dall’infanzia, nell’aspettativa della grande catastrofe rinnovatrice e di aver sempre considerato l’andazzo sociale e morale del mondo in cui viveva da un punto di vista patologico”. Ma due erano state, fin dall’adolescenza, le esperienze fondamentali della sua vita: il culto della Bellezza e la solidarietà umana.
Certo, c’erano momenti di "caduta” nella vita di Caffi, di quasi allucinazione angosciosa, desolata e a tratti terribile. Ma paradossalmente, quello che più colpiva di lui in chi lo avvicinava, non meno delle sue eccezionali doti di intellettuale, erano una squi-sita gentilezza, una sottile raffinatezza che gli facevano trovare la bellezza, il senso vivo della solidarietà e l’eleganza anche nella circostanze più semplici e banali della vita. Poiché detestava la tetraggine, cogli amici si mostrava gioioso, qualche volta perfino frivolo, pieno di attenzioni delicate per coloro che amava e che aveva ammesso nella sua intimità. Il suo vivere alla ventura non curante di ogni esigenza pratica; la sua irriducibile irrequietezza dello spirito che si manifestava anche in una totale incapacità di ac-cettare il benché minimo compromesso che offendesse la sua sensibilità, e infine la "gratuità" delle sue reazioni e comportamenti accrescevano le difficoltà e l’imbarazzo anche in chi cercava di aiutarlo. Era difficile sottrarsi all’impressione che la sua esistenza fosse una specie di testimonianza dell’assurdo, in ogni caso, una testimonianza di quel che può capitare ad un uomo. "Non avevo mai avuto -scriveva Mario Levi ai genitori- un gruppo di amici così simpatici. Specialmente Andrea Caffi che è una persona straordinaria. Disgraziatamente è in uno stato di delabrement fisico e materiale veramente impressionante. Quest’inverno mangiava una volta al giorno e certi giorni neanche. Credo di avervi già scritto che è stato messo in prigione prima dallo Czar e poi dai bolscevichi”.
Ci vollero anni per convincerlo ad accettare una collaborazione retribuita con Angelo Tasca in una specie di impresa politico-culturale organizzata dai socialisti italiani in esilio e una non minore fatica per fargli accettare nel secondo dopoguerra un incarico di "lettore” presso Gallimard. Ma qualche tempo dopo, Chiaromonte e Albert Camus che lo avevano introdotto presso la Casa Editrice si accorsero che rifiutava deliberatamente ogni compenso, e ci vollero molte affettuose insistenze per fargli cambiare opinione.
Tatiana Osserguine, pronipote di Bakunin, una grande amica di Caffi devota, oltre che alla causa della giustizia e della libertà alla memoria dei due uomini (suo marito Michael, lo scrittore e giornalista libertario, e Caffi) racconta che non fu mai possibile indurre Caffi a prendere la benché minima iniziativa per risolvere qualcosa di pratico (fosse anche il semplice rinnovo di una carta d’identita, delle preziose tessere alimentari negli anni bellici del razionamento, o si trattasse di un documento per usufruire dell’assistenza medica gratuita).
Come mai un "refrattario” così irriducibile, trovava poi abbastanza naturale accettare denaro e aiuti dagli amici? La risposta è Caffi stesso a fornirla: "E’ che in questo caso -scriveva nel 1912 in una lettera a Prezzolini- il motivo, il carattere dei rapporti, la moralità superiore che muove l’amico mi sono chiari: qui c’è veramente la solidarietà del nostro ‘mondo’ che in mille modi ad ogni momento puo manifestarsi ed essere riconosciuta senza equivoci”.
La sua vita povera, il rifiuto non solo di ogni carriera ma semplicemente di ogni minimo accomodamento alle ragioni del mondo, erano la testimonianza di una coerenza eccezionale, un esempio di quel che costasse "vivere come un uomo libero in un mondo, come quello contemporaneo, servo dell’utile, del successo e della forza”. Era questo esempio, non meno del rigore intellettuale e dell’immensa cultura, che colpiva profondamente e al tempo stesso affascinava: "Sarà stata una delle fortune, se non la grande fortuna della mia vita -gli scriveva Chiaromonte nel 1935 - aver potuto discorrere di queste cose con lei [le idee di Proudhon e Herzen] . . . e dietro c’e sempre l’esempio”. E’ da questo esempio che nasceva la leggenda di Andrea, una leggenda che non era limitata al mondo, dopotutto abbastanza chiuso dell’antifascismo italiano (e della quale hanno parlato Aldo Garosci e Natalia Ginzburg in Lessico famigliare) ma si estendeva ai circoli dell’emigrazione russa di Parigi, e dopo la guerra, attraverso l’Atlantico, per proiettarsi sui gruppi radicali e socialisti dell’intellighentia americana di New York.
La "Comune” non si realizzò né allora né dopo, ma restò sempre come un’aspirazione, un sogno irrealizzabile stroncato dagli eventi della vita. Quando scoppiò la guerra civile spagnola Chiaromonte si arruolò nella squadriglia aerea di Malraux; Giua nelle Brigate Internazionali, mentre Caffi a Parigi aiutava, nel laboratorio del grande fisico francese Langevin, a riparare telemetri, cannocchiali, materiale ottico di precisione per l’esercito repubblicano spagnolo.
Renzo Giua pagò con la vita un coraggio che Chiaromonte in una lettera a Levi definiva "spaventoso, giacché non si ha idea di quel che è capace di fare”. Quanto a Nicola, in Spagna aveva visto -come scriveva da Madrid- "tutti gli sforzi dei ‘politici’ convergere verso la separazione della rivoluzione dalla guerra”.
La farsa del non intervento organizzata dai conservatori inglesi e imposta alla Francia del Fronte popolare, i conflitti tra comunisti e anarchici, la tragedia del maggio 1937 a Barcellona in cui la polizia segreta militare controllata dai comunisti attaccò con la forza gli anarchici e i trotzkisti del POUM, gli confermarono -come scriveva a Caffi- "l’assurdità e l’incongruenza di ogni moto politico nell’attuale situazione. L’inanità di ogni partito preso dovrebbe finalmente imporsi alle menti ed è soprattutto questo, credo, lo stato d’animo profondo delle masse popolari spagnole”.
Ma ormai la tragedia della Spagna volgeva verso il suo esito fatale. La "politica” non aveva davvero più alcun senso -anche se in fondo rimaneva la speranza che non fosse così- o per meglio dire, "aveva acquistato quella disumana dissennatezza di cui l’Europa doveva conoscere presto ben altri estremi”.
Per Caffi l’esito della guerra civile spagnola fu un’ulteriore conferma della disgregazione dell’Europa; per Chiaromonte fu anche qualcosa d’altro: "la fine della giovinezza”. L’esperienza spagnola sembra come fornirgli la prova, contro ogni pretesa razionalistica, dell’irrealtà del mondo attuale. Diceva -in una lettera a Caffi- di aver provato, al ritorno dalla Spagna, un sentimento tutto affatto nuovo: "il rifiuto a volte selvaggio di affermare qualcosa oltre i confini di una determinata esperienza ... La coerenza della dialettica come l’armonia delle forme, la ‘perfezione’ insieme ad una specie di conclusività logica, non solo non sembrano ‘valori’ ma il contrario: il terreno vago e sdrucciolevole in cui tutto si perde e stempera. Quello che si è chiamato il ‘razio-nalismo’ è rispetto a questa esperienza quello che la scimmiottatura è rispetto al fatto serio. La verità è che si ha sempre a che fare con casi”.
La guerra mondiale e il crollo della Francia travolsero e dispersero quel gruppo di amici. Durante l’invasione tedesca della Francia, Nicola in pericolo di essere arrestato fuggì da Parigi. Inutilmente cercò di portare con sé la moglie Annie che ormai stremata da una lunga malattia polmonare gli morì fra le braccia. Riuscì avventurosamente a raggiungere l’Africa del Nord e di lì a trasferirsi negli Stati Uniti. Caffi e Levi lasciarono Parigi a piedi quando ormai c‘erano i tedeschi alla periferia della citta e finirono in un villaggio vicino a Tolosa. Mario entrò poi nei Maquis mentre Andrea rimase a Tolosa.
Circondato dappertutto da "precarieta e angoscia”, ammalato, costretto in una solitudine terribile "in cui tutte le cose quotidiane sono motivo di sofferenza” gli anni trascorsi a Tolosa durante la guerra furono tra i più tragici nella vita di Caffi. In una lettera a Tatiana Osserguine confida di sentire un fondo cupo di disperazione, un dolore cocente dentro di se che gli impedisce quasi di "ragionare e comprendere”. In questo clima di distruzione -scrive- si sente qualche cosa di predestinato ed è per questo forse che "la mia solitudine è mille volte piu penosa”. A Tolosa Caffi partecipa all’attività dei gruppi della resistenza francese, spagnola e italiana, e tuttavia confessa di non riuscire a condividere le loro speranze di "rigenerazione”, giacché la sua è anche una crisi di credenze, aggravata dal sentimento di "non essere partecipe di qualche cosa di definite”. Tutto quello che sta accadendo adesso – aggiunge- non si può paragonare a niente di quello che pensavamo noi, non si può inserire nelle concezioni intellettuali e morali della nostra generazione . . . L’unica cosa solida è il mondo dell’amici-zia, un’amicizia attiva come quella che anche a me ha dato la salvezza”.
Perché Nicola non restò vicino all’amico e al maestro anziché lasciare la Francia e raggiungere gli Stati Uniti? Dopo la fine del 1941 Caffi non saprà più niente di Nicola giacché la guerra impedisce anche lo scambio epistolare. Andrea sentì il dolore di questa separazione e un giorno confidò a Levi di considerare quasi come un "oltraggio” il modo in cui Nicola l’aveva abbandonato. Anche Nicola sentiva il rimorso struggente e il desiderio di ricongiungersi all’amico: "Di avervi lasciato, caro Andrea, -gli scriveva- è stato da parte mia un abbandono, una mutilazione, un gesto brutale, la rottura deliberata del legame più forte e più profondo che io avessi giacché la mia amicizia per voi non era un hasard ... Mi ero ripromesso di restare con voi –aggiungeva-, ma se non l’ho fatto è perché voi mi avete scoraggiato e mi avete fatto capire che partire o restare non avrebbe fatto grande differenza. Ciò accade a causa del rifiuto del vostro spirito -quella facoltà malefica e terribile che c’e nel vostro spirito- di rifiutarsi precisamente alle offerte d’amore e di devozione”.
Dopo la liberazione della Francia e la fine della guerra i due amici potranno finalmente ristabilire un contatto, avviare un fitto scambio epistolare. Per Caffi era come riprendere l’antico discorso, brutal-mente interrotto, degli anni parigini della "Gang”, mentre Nicola osserva da parte sua che era come "riascoltare, con un accento nuovo delle cose che aveva tante volte sentito dalla sua viva voce … E questo piccolo fatto della nostra corrispondenza diventa frequente, mi dà molto coraggio”. Nicola cerca di rendere partecipe l’amico delle sue esperienze newyorkesi, gli presenta, in rapidi bozzetti, gli amici che frequenta, o gli parla degli intellettuali americani, gli comunica di aver sposato Miriam, "un’affettuosa ed intelligente ragazza”.
Ma c’è un tema dominante al quale torna sempre: il ricordo degli anni parigini "della seconda giovinezza”; il ricordo di Caffi e il dono della sua amicizia erano "le cose piu preziose della sua vita”. Ma cos’era diventato in questi anni in America? "Un provinciale temo - rispondeva Nicola e aggiungeva: del resto Herzen aveva già osservato che quello che si decideva al di là dell’Atlantico era perduto per l’Europa. L’America è ostile per quello che in Francia si chiama intelligence non in teoria o per principio, ma nei fatti”. Quanto allo stato attuale del mondo si sentiva sempre più spinto verso la filosofia come il solo rifugio dell’intelligibile. Giacché "per quanto riguarda la storia contemporanea è diventato il terreno non soltanto dell’assurdo ma della perversità nauseante. Ai tempi di Hitler e di Mussolini sembrava ancora d’avere dei punti di riferimento e delle alternative. Oggi tutto va alla deriva. Il dibattito sulla bomba atomica che ha luogo in America è, a questo riguardo, molto significativo”.
Tra i due amici si torna a parlare di vecchi e nuovi progetti (una piccola casa editrice, una rivista) e, naturalmente riemerge l’idea della "Comune” da impiantarsi questa volta in America, o a Parigi e perche no?, perfino in Italia. C’era molta incertezza però da parte dei nuovi amici newyorkesi sui tempi dell’operazione e, come al solito, molta riluttanza da parte di Caffi. A un certo punto prese corpo l’idea di portare Caffi a New York, almeno per qualche tempo, e con la possibilità infine -gli scriveva Nicola- "di consacrarvi con qualche regolarità a un lavoro intellettuale”. Aldo Bruzzichelli, solidale del gruppo newyorkese di Nicola, un giovane fiorentino di talento che univa nella sua persona la sensibilità di un artista con l’efficienza manageriale viene mandato in Francia per portare a termine la missione, "Andrea in America”. La ritrosia di Caffi sarebbe stata invincibile ancor più per un "manager” che non avesse avuto le delicatezze e la sensibilità di Bruzzichelli. La missione abortì, e il macchinoso progetto del viaggio americano di Caffi, si concluse a Marsiglia dove i due amici erano andati per informarsi circa l’eventuale viaggio a New York.
Le lettere che Caffi continuava a scrivere a Nicola venivano intanto tradotte in inglese e pubblicate su Politics, la rivista di Dwight Mac Donald. Erano descrizioni angosciose della catastrofe che s’era abbattuta sull’Europa, degli effetti prodotti dalle barbarie naziste, della crisi in cui era precipitata la cultura e la sensibilità del mondo contemporaneo. In quei "frammenti” di lettere emerge un’idea del socialismo come difesa del processo di "razionalizzazione” (che Max Weber, fin dall’inizio del secolo, aveva indicato come la caratteristica del mondo contemporaneo) e si delinea una concezione del mito secondo cui una società e tanto più civile quanto più ricca è la sua mitologia.
Nicola, felice di potergli comunicare che finalmente "il discorso di Andrea era compreso in America”, organizza (con il contributo degli amici newyorkesi) l’invio di un regolare aiuto finanziario (cento dollari al mese) quale compenso anticipato di un lavoro che Caffi avrebbe dovuto fare giacché "le vostre considerazioni e più ancora lo stile inimitabile del vostro pensiero e piu che mai prezioso”. Caffi era meno disposto a condividere l’entusiasmo dell’amico-discepolo. La pubblicazione di quelle note in un "anglais assez sterilise” e per un pubblico che "ha tutta l’aria di essere profondamente indifferente” non era stimolo sufficiente a rallegrarlo. Continuava anzi a ripetere che la sua vita era più difficile che mai giacché era ammalato, solo, povero, irrimediabilmente incapace di progettare il futuro; in una parola, sentiva che le circostanze in cui viveva "avevano trasformato anche un’umile vita in qualcosa di terribile e di irreale”.
Nicola d’altra parte, si giustifica di non potere fare di più ("i suoi guadagni erano scarsi ed irregolari”) lamenta la solitudine e la tristezza di New York, confida all’amico di attraversare lunghi periodi di angoscia e di depressione nei quali si sentiva "arido, incapace di dare forma e coerenza alle idee”. Vuole tornare in Europa, ricongiungersi al maestro e all’amico, tentare insieme un’iniziativa culturale, unico modo, forse, "per ridare un senso alla mia esistenza” giacché "credo anche di poter dire, che dopo la mia prima giovinezza non ho cercato niente con altrettanta passione che l’occasione di dedicarmi ad una causa”.
Questa volta anche Albert Camus (che Nicola aveva conosciuto nel Nord Africa e del quale restò amico fino alla morte dello scrittore francese) sembra disposto ad associarsi all’iniziativa. L’idea di Camus è di unire le disperse forze intellettuali ("formare una società nella società”) per una battaglia culturale che salvi "l’Europa e il suo destino” e il suo progetto trova naturalmente un’adesione immediata in Chiaromonte. L’amicizia e l’ammirazione di Nicola per Camus nasce dal fatto -come Nicola scriveva a Caffi- "che questo ritorno su se stesso di uno spirito che colpito dall’orrore e dall’assurdo del nostro mondo si rifiuta all’ambiguità in nome della dirittura, fa risplendere di nuovo -naturalmente su un fondo di disperazione e di nausea- la luce della ragione e la dignità dell’intransigenza morale”.
Nicola tornerà in Europa, a Parigi prima e poi in Italia, rivedrà Caffi, insieme progetteranno ancora di fondare una "Comune” non già "per creare artificialmente dei mistici, ma per continuare a ragionare, esplicitamente, analizzare il più possibile accettandone tutti i rischi”. Da parte sua Caffi lasciò Tolosa per tornare ad abitare a Parigi e la sua vita "rimase quella che era sempre stata: povera e prodiga”. I due amici non vivranno insieme, ma quel mondo di passione, di ragione e di affetti che c’era in loro continuera tenerli legati. Poco prima della morte di Caffi (1955), Nicola gli scriveva da Roma: "Credetemi, nessuna distanza, nello spazio o nel tempo, potrebbe affievolire l’amicizia, la riconoscenza, l’ammirazione infine che io ho per voi. La vostra amicizia, è stata per me un conforto e un lume nella confusione e negli errori del ‘secolo’”. |
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Il socialismo senza Marx Merlino, 1974Una corsa attraverso la cooperazione di consumo inglese Cassau, 1914Le Società cooperative di produzione Rabbeno, 1915La cooperazione ha introdotto un nuovo principio nell'economia? Gide, 1915La fusione delle cooperative in Francia ..., 1915Cooperazione e socialismo Milhaud, 1914Le profezie di Fourier Gide, 1914I magazzini all'ingrosso della cooperazione di consumo inglese ..., 1915Concorrenza e cooperazione Gide, 1914William Morris ed i suoi ideali sociali ..., 1914 Vai all'elenco completo |