Nord e Sud - anno XX - n. 167 - novembre 1973

Girolamo Cotroneo delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto con1une di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò che è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone ». Nonostante le aperture sociali che l'affermazione lockiana, soprattutto nella frase finale, contiene, è evidente che si tratta di una difesa del diritto di proprietà. Ma su che cosa si fonda questa difesa? Sul concetto del « lavoro », del lavoro diretto, diremmo fisico o addirittura manuale: è chiaro allora che si tratta di concetti - espressi, si pensi nel 1690 - ricchi di vastissime implicazioni e suscettibili di uno sviluppo progressista enorme: basti inoltre pensare, come prima si diceva, alla frase finale, con la quale si limita l'egoismo individuale e si lascia aperta la porta al vantaggio non soltanto proprio, ma anche degli altri. Per contrasto, si legga una delle definizioni che Hegel, nel 1816-17, dava della proprietà: « Il predicato del mio, che è per sé meramente pratico, e che la cosa ottiene mediante il giudizio del possesso dapprima con l'impadronimento esteriore, ha qui però il significato: che io metto in essa il mio volere personale. Mediante questa determinazione, il possesso è proprietà; la quale, come possesso è mezzo, ma, come esistenza della personalità, è scopo ». La differenza fra le due posizioni è abissale: per l'inglese Locke è il « lavoro » ad attribuire il « predicato del mio » alla cosa; per il tedesco Hegel è il « volere », che non si cura per nulla, come invece avveniva in Locke, degli eventuali diritti e necessità altrui. A questo punto, allora, ogni commento diventa superfluo: la lettura dei due testi (abbiamo citato il meno « liberale » fra gli scrittori inglesi e, .nonostante tutto, uno fra i più « liberali » dei filosofi tedeschi) potrebbe da sola bastare a individuare i motivi di fondo che dividono la tradizione liberale inglese dal pensiero politico della Germania e quindi la genesi remota dell'avvento o non avvento del fascismo. Naturalmente ci guarderemmo bene dall'includere lo Hegel fra i precursori del fascismo europe_o: gli studi di Eric Weil e di 18 BioliotecaGino Bianco

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