Nord e Sud - anno XX - n. 161 - maggio 1973

NORD E SUD Ri.vista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, La rivincita di Croce - Pasquale Saraceno, Il momento giuridico nell'azione meridionalista - Autori varj, Le vicende della lira - Tarcisio Amato, Il filo del nzazzinianesimo P scritti di \littorio Barbati, Autilio Bournique, Giulio Caterina, Alessandro Dal Piaz, Annamaria Damiani, Giuseppe Giampaglia, Elio .Manzi, Mauri-- zio Mistri, Paolo Orefice, Cecilia Scrocca, Italo Talia. ANNO XX - NUOVA SERIE - MAGGIO 1973 - N. r6r (222) ED I z I o N I se I ENTI F I e H E I T·A LI AN E - N A po LI

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XX - MAGGIO 19ì3 - N. 161 (222) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200 - Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scie:i:itifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli

SOMMARIO Girolamo Cotroneo Pasquale Saraceno Maurizio MistTi Autilio Bournique Giulio Caterina Editoriale [3] La rivincita di Croce [ 6] Il momento giuridico nell'azione meridionalista [ 14] Giornale a più voci Dall'equilibrio economico all'equilibrio ecologico [21] Le imprese commerciali al 1ninuto [27] Il processo di localizzazione delle industrie manifatturiere [29] Argomenti Autori vari Le vicende della lira [34] Saggi Tarcisio Amato Il filo del mazzinianesimo [51] Paolo Orefice G. Gian1paglia e C. Scrocca Alessandro Dal Piaz I. Talia e A. Damiani Paesi e città Miano: problemi di sviluppo di un comune del Napoletano Il significato del Seminario [60] Fisionomia socioculturale di Miano [ 64] La condizione urbana di Miano [81] Sottosviluppo e lavoro a Miano [87] Cronache e memorie Vittorio Barbati La politica dell'Italia fra le due guerre (II) [96] Geografia Elio Manzi La nuova ricerca geografica internazionale [ 120]

Editoriale Nei giorni scorsi, Leo Valiani ha ricordato una lettera scritta da Matteotti a Turati nel 1923. È la stessa lettera che noi ricordavamo nel n1.aggio scorso e nella quale Matteotti afferma che il fascismo poteva avere buon gioco « perché il movimento operaio si era screditato con l'eccesso degli scioperi che aveva promosso specialmente nei servizi pubblici »; e ricordavamo altresì che proprio il destinatario di quella lettera, Filippo Turati, aveva detto fin dal 1910 che « l'orgia» degli scioperi generali riattizza « le sopite velleità reazionarie ». Se Matteotti esprinieva a Turati nel 1923 la preoccupazione per il dilagare degli scioperi nei servizi pubblici e per lo sbandai-nento a destra della pubblica opinione in conseguenza dei disagi provocati fra gli utenti da quegli scioperi, non c'è da stupirsi che oggi le coscienze democratiche più vigilanti esprimano la stessa preoccupazione. Tutti sappiamo, infatti, come allora andò a finire e quanto abbiamo pagato gli « errori di massimalis.'mo » che furono commessi da quanti non seppero avvertire il peso di preoccupazioni come quelle che avevano avvertito Matteotti e Turati. E tutti ci rendiamo conto oggi che « l'eccesso degli scioperi, specialmente nPi pubblici servizi », provoca reazioni non meno allarmanti di quelle che avevano indotto Matteotti a scrivere nel 1923 la sua lettera a Turati. Se ne rendono conto, per la ·verità, anche le confederazioni sindacali. Nella recente riunione del direttivo della federazione unitaria, Lama ha presentato una « relazione-docurnento » nella quale si afferma perentoriamente: « siamo contrari agli scioperi' improvvisi, non preparati, non propagandati; siamo contrari ag'li scioperi ad oltranza o a quelli a tempo indeterminato che sostanzialmente si tramutano in scioperi ad oltranza, in particolare nei servizi pubblici, statali.. ospedalieri o di altre categorie ». Ed è vero che, come ha osservato Sergio Devecchi, su « La Stan1pa », non mancano i segni di una « disponibilità all'autoregolamentazione » da parte degli stati nzaggiori sindacali. Intanto non si sente più vaneggiare di salario come « variabile indipendente»; e si sente parlare invece di « gestione politica » della contrattazione aziendale da parte d'el sindacato: come a voler dire che, dopo aver opposto un reciso rifiuto alle richieste della Federmeccanica per una regolamentazione della contrattazione articolata, i sindacati garantiscono di volerla autoregolamentare, onde rion abbia a provocare dopo il contratto del '72 danni paragonabili a quelli che ha provocati dopo il contratto del '69. D'altra parte, 3

Editoriale le confederazioni sindacali subiscono oggi la demagogica concorrenza dei sindacati autonomi che, secondo una ristretta logica di categoria, operano special1nente nei settori del pubblico impiego e che, per certi aspetti, provocano danni economici e reazioni politiche anche più allar•• 1nanti di quanto non lo fossero i danni e le reazioni derivanti dallo scatenamento nelle fabbriche di quei cosiddetti gruppi spontanei che dopo il contratto del 1969 hanno compromesso la produzione e l'occupazione. E sono ora proprio i sindacati autonomi che rendono difficile l'azione di freno e di correzione nella quale pare che siano disposte ad impegnarsi le confederazioni sindacali; o, meglio, i sindacati autonomi prendono alle spalle le confederazioni nel momento in cui esse cercano di regolare i comportan1enti delle federazioni di categoria. Il segretario confederale della UIL, Ruggiero Ravenna, ha dichiarato a « La Stampa », che si deve modificare « una tradizione sindacale 1nolto radicata ». È la tradizione dello sciopero che, colpendo duramente gli utenti, dovrebbe provocare una pressione degli stessi utenti su.i pubblici poteri per indurli a scelte conforini alle rivendicazioni degU scioperanti. Senonché, avverte Ravenna, « si è constatato che una parte dell'opinione pubblica, invece di esercitare questa pressione, diventa "preda dei movimenti reazionari"»: che è proprio quanto avevano constatato Turati nel 1910 e Matteotti nel 1923. Ma, per quanto riguarda gli scioperi nei pubblici servizi, si può constatare altresì che i lavoratori del settore direttamente produttivo soffrono anche essi, ed essi soprattutto, le conseguenze degli scioperi nei servizi pubblici; e rischiano di più, perché rischiano di perdere il posto di lavoro, che alcuni hanno già perduto, n1entre altri, i più giovani, non riescono a trovare, proprio perché il reddito nazionale non aumenta quanto dovrebbe e su di esso incide negativamente il costo degli scioperi, che incide pure sull'aumento dei prezzi. D'altra parte 1 è motivo di allarn1e molto fondato pure la constatazione che l'azione di freno e di correzione degli stati maggiori sindacati non sia riuscita ad impedire lo sciopero dei doganieri; non sia riuscita a limitare la durata e la durezza dell'agitazione dei sindacati dei postelegrafonici; non si presume che possa evitare o attenuare l'urto delle agitazioni che i sindacati autonomi ( in maggioranza fra il personale docente della scuola secondaria) vanno già preannunciando e proprio secondo la« tradiz.ione sindacale molto radicata » di cui ha criticamente parlato Ravenna r alla vigilia degli scrutini e degli esan1i e quindi in modo da « colpire dura1nente gli utenti»). E per di più capita sempre più frequentemente che dalla sponda delle forze politiche, e non soltanto da sinistra, parta qualcuno a scavalcare le rappresentanze confederali: per lenocinio irresponsabile nei confronti dei sindacati autonomi e per proselitismo altret4

Editoriale tanto irresponsabile nelle sue motivazioni corporativistiche. Comunque sia, i-sindacati autonomi dei « colletti bianchi» assumono cornportamenti che espongono i « colletti blu » al deprezzan1ento delle loro retribuzioni e anche al pericolo di una disoccupazione dalla quale i « colletti bianchi » sono protetti. Non solo: i sindacati autonomi hanno un potere di interdizione nei confronti della programmazione, anche quando questa fosse concordata, come la si vuole concordare, tra forze politiche, organizzazioni imprenditoriali, confederazioni sindacali. Infatti, come dice La Malfa, una volta esaminate e decise le linee di politica econornica da seguire per cogliere gli obiettivi della programmazione, queste linee dovrebbero essere vincolanti « non soltanto per il governo, ma anche per i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali e le forze politiche ». Quindi, se i sindacati autonomi volessero imporre le loro rivendicazioni settoriali come « variabili indipendenti», ricadremmo nella « falsa programmazione » degli anni scorsi; e piomberemmo più che mai fra le conseguenze negative, econon1iche e politiche, delle « tradizioni sindacali molto radicate » che le confederazioni sindacali, come ha detto Ravenna, sentono di dover criticamente sradicare proprio per evitare tali conseguenze negative. A questo punto è necessario che la logica delle categorie sia ricondotta alla logica della programmazione; e che perciò siano rapidamente fissate, tra forze politiche e forze sindacali, le condizioni di un accordo che con1porti le riforme concepite in senso meridionalistico e in pari tempo una rigorosa autodisciplina degli scioperi, specialmente nel settore del pubblico impiego, onde i lavoratori dei settori direttamente produttivi non abbiano a subirne ulteriori danni, diretti e indiretti. E se i sindacati autonomi, a protezione corporativa di lavoratori che non rischiano di perdere il posto di lavoro, volessero chia,narsi fuori da questo accordo, si assunierebbero un'assai grave responsabilità e provocherebbero essi, di fronte a mali estremi, il ricorso a rùnedi estre1ni: da concordarsi comunque tra forze politiche e rappresentanze sindacali dei lavoratori operanti nei settori direttamente produttivi. In altri termini, se, come ci si augura, si elabora una « proposta globale » di progra,nmazione ed i sindacati autonomi « non ci stanno », si dovranno necessarianiente elaborare alcune norme, « in sede legislativa o n1eno », per far sì che la « proposta globale », condivisa dalle confederazioni sindacali, abbia « valore effettivo e generale »; non possa, cioè, essere compro1nessa dalla logica corporativa dei sinda_cati autonomi. 5

La • • 9 r1v1nc1ta di Croce di Girolamo Cotroneo Il 20 novembre dello scorso anno è caduto il ventennale della morte di Benedetto Croce. Non è certo il caso - a tanta distanza di tempo - di tentare un discorso che possa sembrare commemorativo: ma è ancora il tempo per chiedersi le ragioni della freddezza con cui la cultura italiana ha accolto quella data. Tutto ciò infatti che in quei giorni è stato scritto in Italia - tranne che in qualche lodevole eccezione - non è andato oltre certi luoghi comuni ormai abitualmente associati al nome di Croce, quando addirittura non sono state delle pure e semplici sciocchezze, che dimostrano soprattutto quanto poco familiari siano le pagine del1' opera crociana a coloro che si atteggiano a severi censori di essa (come del resto ha largamente dimostrato Alfredo Parente nell'ulLimo fascicolo del 1972 della « Rivista di Studi Crociani »). Ma, forse mai come in questo caso, più di quanto è stato detto, vale ciò che non è stato detto: nel senso che la scarsa eco ottenuta dal ventennale crociano è forse più significativa delle scialbe argomentazioni di un Abbagnano o di un Montale, o dei clamorosi fraintendimenti di un Arnold Toynbee, chiamato, non si sa a quale titolo, da quell'ineffabile istituzione che è la Rai, a commemorare la morte di Croce (fraintendimenti fortunatamente compensati dalle intelligenti parole di quel grande storico che è Fernand Braudel). Si tratta di un silenzio non certo casuale: il recente atteggiamento della cultura italiana di fronte a Croce ha seguito infatti un itinerario abbastanza preciso che va dalle furibonde discussioni degli anni immediatamente seguenti la fine della guerra - in larga parte coincidenti con gli ultimi anni della vita di Croce -, quando, finalmente liberi dalla « dittatura » crociana gli intellettuali italiani hanno sentito « drammaticamente» l'obbligo di polemizzare contro chi fino ad allora ne avrebbe soffocata la voce, al malcelato dispr~zzo degli anni intorno al Sessanta, fino all'attuale silenzio o, come usa dire, emarginazione. Si tratta di una parabola certa1nente molto approssimativa, ma della quale ci si può rendere benissimo conto con la semplice compulsazione dei cataloghi delle « grandi » casi editrici, nessuna delle quali negli ultimi anni ha praticamente 6

La rivincita di Croce pubblicato nulla che riguardasse Croce (mentre tanti « piccoli » editori hanno presentato diversi, e non banali, lavori sul filosofo napoletano, a riprova del fatto che, sia pure fuori del grande giro della cultura « ufficiale », la linfa del pensiero crociano continua a circolare all'interno del nostro paese). Se quindi negli anni immediatamente posteriori alla Liberazione il terrorismo culturale, nei confronti di Croce e dei suoi, si manifestava attraverso grandi polemiche orchestrate anche a livello politico, attraverso intimidatorie stroncature, atraverso dibattiti addomesticati, adesso invece ha assunto la forma insidiosa del- !' emarginazione, del silenzio program1nato: tanto per fare un esempio abbastanza recente, Tommaso Giglio, il direttore de « L'Europeo », inaugurando l'ennesima inchiesta sul fallimento della cultura italiana del dopoguerra (che rivincita per Croce!) ha menzionato fra i « grandi » della prima metà del secolo, Pirandello, Svevo e persino D'Annunzio, dimenticando disinvoltamente Croce (e anche se forse del tutto casuale, una tale dimenticanza è comunque indicativa dell'attuale temperie culturale e della via oggi seguita nei confronti di Croce). Inoltre, subito dopo, Davide Lajolo ha aggiunto che la vera cultura italiana, cioè quella umanistica, ha alla sua radice i nomi di Labriola, di Gobetti e di Gramsci dimenticando anche lui persino l'esistenza di Benedetto Croce, che del momento umanistico della nostra cultura è stato certamente, qualunque possa essere il giudizio di merito, il più autorevole rappresentante durante questo secolo. Si potrebbe inoltre aggiungere che Lajolo ha scordato che proprio Gramsci, le cui pagine gli dovrebbero essere assai familiari, oltre a rilevare che gli scritti di Croce meritano di essere collocati « nella linea della prosa scientifica italiana che ha avuto scrittori come il Galilei », si era spinto sino all'affermazione secondo cui affinché « l'eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante [ ...], occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della L,; filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca ». Si dirà che molta acqua è passata sotto i ponti da quando Gramsci scriveva queste note. Tuttavia è proprio da qui che bisogna prendere le mosse per un chiarimento che mai come oggi ci sembra indilazionabile: quando, da parte nostra, esprimiamo un giudizio severo per il modo con cui la cultura italiana (soprattutto quella academica che in qu~sta vicenda ci pare abbia le maggiori respon7

Girola1no Cotroneo sabilità) si sta comportando nei confronti del pensiero crociano, non intendiamo certamente dire che essa avesse l'obbligo di proclamarsi ufficialmente seguace di Croce, attendendo soltanto a ricerche riguardanti la filosofia di lui. Il nostro intendimento è invece tutt'altro: si tratterebbe a questo punto soltanto di avere il coraggio di considerare Croce un « classico » della nostra cultura, assumendo nei suoi confronti l'atteggiamento solitamente tenuto oei confronti dei « classici ». Come è noto, nell'ultima latinità, il termine « classico » venne coniato per indicare ciò che è eccellente, ciò che si distingue dal « comune »; come oggi per « classico » si intende ciò che ha trasceso l'in1mediatezza storica dell'epoca in cui si è realizzato, per assumere una validità ormai universale e perenne: il « classico » finisce così con il diventare il punto costante di riferimento con cui, in un modo o nell'altro, ogni generazione ha l'obbligo di fare i conti. L'impegno che Gra1nsci sentiva di dovere « fare i conti » con Croce, anche se per arrivare a tutt'altre conclusioni, ci sembra oggi tutt'altro che soddisfatto, come del resto avremo modo di vedere più avanti. Che Croce vada inserito fra i « classici » ci pare una cosa non revocabile in dubbio, non essendo il pensiero del filosofo napoletano di quelli che hanno esaurito la loro funzione storica, Accostarsi ad esso in tale prospettiva significa quindi togliere per prin1a cosa quel significato sclerotizzante che solitamente viene attribuito all'aggettivo « crociano », comprendendo, una volta per tutte, che con esso si vuole soltanto intendere una scelta culturale di fondo, che non deve necessariamente concretizzarsi attraverso la ripetizione, l'esegesi, le glosse al testo (cosa questa, in Italia, assai più diffusa che non negli ambienti crociani, in quelli di un certo marxismo, della fenomenologia, dell'es1stenzialismo, del neo-positivismo, ai quali però, la cultura « ufficiale » si è sempre ben guardata dall'attribuire un significato sclerotizzante e dommatico ). Una scelta culturale di fondo, si diceva: quella che la cultura italiana si è costantemente rifiutata di compiere (e non importa in quale direzione, purché non in quella di comodo come spesso ha fatto) in questi ultimi anni, e che sta alla base di tutte le « crisi », i « malumori », i « fallimenti », di cui si fa continuamente un gran parlare e della cui inutilità ci si dovrebbe ormai da un pezzo essersi resi conto (ma che continua per la vanità di coloro che pur di poter ancora parlare, di mettersi in mostra, non avendo altro da dire, parlano della crisi che stanno attraversando). Ma che· tipo di scelta culturale? Per noi la cosa è molto sen1plice: è una scelta « civile », 8

La rivincita di Croce di concreto impegno storico e politico, senza fumisterie, senza elucubrazioni intellettualistiche (così come appunto si presentano la filosofia e la prosa crociana). Una scelta di libertà, senza compromessi, senza riserve mentali; una libertà concreta, storica, da attuare e da difendere in ogni mornento, senza progetti astratti, ma con un lavoro culturale e politico da svolgersi in una precisa situazione storica, consapevoli dei limiti, spesso in1mediatamente invalicabili, che questa presenta. Non è, co1ne potrebbe sembrare a prima vista, una posizione facile: è invece molto più facile chiudersi in un gretto conservatorismo, nell'adorazione dell' sistente, o proiettare la salvezza totale nel futuro, dopo l'apocalisse (che è il mezzo più comodo per passare per progressisti, favorendo nel contempo il permanere della situazione di fatto). A nostro avviso dunque, essere crociani significa più questo che non discutere delle forme dello Spirito: e proprio per questo oggi si preferisce nan parlare di Croce; perché la dottrina del filosofo napoletano rappresenta la perfetta antitesi della confusione culturale che oggi domina il nostro paese. In essa infatti vi sono tutti gli strumenti idonei per confutare il frenetico attivismo, il mediocre conservatorismo, l'astratto progressismo, il funesto scientisn10, e tanti, tanti altri inali del nostro tempo. Così, per evitare questa difficile scelta, si preferisce non parlare e quasi credere, o lasciar credere ai più giovani, che nella nostra tradizione culturale non esista una filosofia veramente « civile », p r cui il nostro paese sarebbe come condannato a oscillare fra il conservatorismo e il giacobinismo per mancanza di punti di riferimento precisi (che però nella nostra tradizione culturale sono assai più di quanti si creda, essendoci, accanto a Croce, i Cattaneo, i Labriola, i Gobetti, i Salvemini, gli Einaudi, non1i ai qua]i non si fa quasi più riferin1ento, nomi dei quali nel nostro paese sembra quasi si abbia paura). Come paura si ha di Croce: perché questo, secondo noi, è l'aspetto più tragico della della situazione; ci troviamo infatti di fronte a una cultura che sembra avere paura di contaminarsi richiamandosi a quella che è invece la sua migliore tradizione, che ha paura di cercare nel suo stesso passato i punti di riferimento indispensabili per capire il presente e quindi preparare il futuro. Ma da che cosa nasce questa paura? Si fonda soltanto su motivi pratici, sulla preoccupazione di non essere in vista, di essere accusati di passatismo, di conservatorismo culturale, o ha invece altre e più profonde motivazioni? Fermiamoci a Croce, che è l'argomento principale del nostro discorso e che ci permetterà di capire perché, 9

Girolamo Cotroneo assien1e a lui, sia crollata tutta la tradizione politica e culturale che per vie diverse e talora lontane fra loro, rapresenta il momento « civile» della nostra filosofia politica. Nel primo dopoguerra, quasi come alibi a tutte le viltà e a tutti i compromessi cui era scesa di fronte al fascismo, la cultura italiana lanciò quella sorta di fable convenue che andò sotto il nome di « dittatura crociana »: alla creazione di questa leggenda concorsero molto i professori universitari, a lungo - e meritatamente - «sculacciati», come ha detto Michele Biscione, da Croce; vi concorse pure l'ondata culturale di ispirazione marxiana, che non perdonava a Croce lo sforzo che questi continuava a compiere per rinverdire la tradizione politica liberale, e che vedeva nella filosofia crociana una sorta di idealismo « giustificazionista » e, al limite fatalista: e invece di svolgere quella ricerca che Gramsci definiva « di immenso significato storico e intellettuale nell'epoca presente », fondata sulla premessa che « come la filosofia della prassi è stata la traduzione dell'hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia di Croce è in misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della prassi »; ricerca che Gramsci vedeva come « il solo modo storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata della filosofia della prassi, di sollevare questa concezione che si è venuta per la necessità della vita pratica immediata 'volgarizzando ' all'altezza che deve raggiungere per la soluzione dei compiti più complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone » (il che potrebbe anche essere un modo fuorviante di leggere la filosofia crociana, ma che comunque consentiva di mantenere intatta la base storicistica del marxismo stesso, impedendo, per non dire altro, le attuali degenerazioni accademiche e scolastiche del cosiddetto « strutturalismo marxista »); invece di attendere al compito indicato da Gramsci, dicevamo, la stessa cultura marxista preferì impegnarsi nella provinciale polemica sul preteso carattere conservatore e reazionario della filosofia crociana, alimentando la leggenda della dittatura culturale che avrebbe frenato lo sviluppo di una cultura di tipo marxista (che, ovviamente, ove non vi fosse stato Croce a irnpedirlo, il fascismo avrebbe certamente favorito e potenziato) . .Quanto insulsa fosse questa leggenda può essere dimostrato in n1ille modi (compreso il fatto che tenendo viva la tradizione storicistica tedesca, Croce « oggettivan1ente » favoriva - cosa che del resto gli è stata persino rimproverata - la ripresa dei temi dello storicismo marxiano): anzitutto vi è il fatto che la cultura « crociana » ]0

La rivincita di Croce fu sempre cultura di minoranza, rnai egemone. Durante il periodo fascista Croce rappresentò il punto di riferimento soltanto par uno sparuto numero di intellettuali e di giovani antifascisti (molti dei quali, dopo la guerra, finirono nelle file della « sinistra », anche e soprattutto di quella comunista), per cui fu cultura di opposizione, di minoranza, intorno alla quale il fascismo eresse un muro di silenzio (singolarmente coincidente con quanto sta avvenendo oggi). Bisognava soltanto arrivare alla confusione dei nostri giorni, per sentire dire a quell'ineffabile personaggio che è Giuseppe Berto, che Croce si oppose al fascismo « in modo tanto balordo da favorirlo», mentre attraverso le sue concezioni « estetiche» [sic!] insegnò « alla gran parte degli intellettuali italiani come convivere bellamente col fascismo traendone magari sostentamenti, ma senza sentirsene per nulla responsabili». Certamente le affermazioni di un personaggio ormai tanto screditato (che arriva persino a dire stupidaggini come quella secondo cui Croce sarebbe stato ministro « durante i primi anni del fascismo ») non meriterebbero neppure l'onore di essere ricordate: ma è significativo rilevare come nella polemica anticrociana gli ambienti della destra culturale si trovino tranquillamente accomunati a certi ambienti della sinistra (soprattutto di quella « nuova », ché la ·« vecchia » non si sognò quasi mai di dire simili sciocchezze). Ma il problema non è questo: e, sostanzialmente, non è neppure quello della « ditatura crociana » al quale nessuno ormai crede più veramente. Resta però il fatto, di cui avevamo parlato fin dall'inizio del nostro discorso, che la tendenza della cultura italiana, la tacita parola d'ordine che oggi la percorre, è quella di ignorare Croce, di evitare persino di parlarne. Abbiamo prima sostenuto che si tratta di una specie di paura: che non è però quella, come forse si potrebbe pensare d'istinto, di passare per conservatori, per reazionari, ecc.; questa preoccupazione si è forse manifestata in misura maggiore negli anni precedenti, quando però della filosofia crociana si parlava largamente proprio per din1ostrare come essa presentasse appunto quei caratteri di conservatorismo politico e culturale, per dimostrare di non nutrire nei confronti di essa alcun timore reverenziale. Il tipo di paura di cui parliamo è invece un altro: a nostro avviso, Croce rappresenta oggi la cattiva coscienza di una cultura che si accorge di avere in gran parte fallito il proprio compito: perché se Croce ha rappresentato l'intellettuale indipendente che non accetta compromessi con il potere, i rappresentanti più in vista della cultura italiana sanno di avere fatto esat11

Girolamo Cotroneo tamente l'opposto; se Croce ha rappresentato l'unico momento di questo secolo in cui la cultura italiana si è collegata, a parità di livello, con quella europea, gli odierni n1aitres à penser della cultura europea sono stati quasi sempre soltanto gli scolastici. Il solito Berto ha scritto che dopo la guerra « Croce divenne una specie di Padre della Patria, oltreché della Cultura, e la cosa può ben essere se si tien conto di quale patria e di quale cultura si tratta ». Ancora una volta siamo ai limiti del ridicolo, se non addirittura affogati dentro di esso: la verità è che a succedere è stato proprio il contrario. La cultura italiana non si è più riconosciuta in Croce, privandosi così di un sicuro punto di riferimento: è stato infatti così per la cultura marxista che, dimenticando il legato gramsciano di cui prima ab biamo parlato - legato difficile e severo - ha imbarcato sul suo treno una serie di intellettuali di mezza tacca (quanto lontani i tempi di Elio Vittorini, di Ernesto De Martino, di Gabriele Pepe, di Luigi Russo!) privi di qualsiasi matrice culturale, che hanno inventato il marxismo da salotto, che hanno divagato su un folclore marxista, su un'antropologia culturale marxista, una fenon1enologia marxista, uno strutturalismo marxista, il tutto completamente sganciato dalla realtà storica, riducendo il marxismo (di cui Croce con1prese fra i primi l'in1portanza, considerandolo un fenomeno storico e culturale onnai acquisito alla scienza e alla coscienza europea) a discorso accademico, a esercitazione scolastica, immiserendone non soltanto i contenuti culturali, ma persino la linea di politica, in Italia spesso ridotta a -piccolo cabotaggio, a mosse tattiche (quando, ancora una volta lo dobbiamo ricordare, Gramsci ha scritto che Croce « rappresenta la grande politica contro la piccola, il machiavellismo di Machiavelli contro il machiavellis1no di Stenterello » ). Del resto è stato così anche per i neo-empiristi, i neo-positivisti di ogni ordine e grado che, contro la cosiddetta « svalutazione » crociana, hanno rinroposto la filosofia « scientifi- .J. ~ ca>, hanno fatto della scienza una nuova religione, trovandosi poi di fronte alla rivolta contro la società tecnologica, centro il mondo pianificato da quei computers dai quali si attendevano la salvezza (a che cosa credevano avrebbe portato una società fondata sulla scienza e sulla tecnica, sganciata da quei tradizionali valori umani, proprio in nome dei quali Croce aveva elaborato la sua Logica considerata oggi dai Geymonat e compagni poco più che un relitto?). Se fallimento allora c'è stato non è certo responsabile Croce (il quale semmai si prende oggi le sue vendette), ma coloro che hanno creduto di « poterlo mettere in soffitta », quasi le cose da lui 12

La rivincita di Croce dette per oltre cinquant'anni non avessero senso né valore alcuno: adesso, di fronte alla crisi, di fronte a una serie di clamorosi fallimenti, si mette a posto la coscienza tacendo di Croce (e di tutti coloro che abbiamo sopra nominati, da Cattaneo a Labriola, a Salve-- mini, a Einaudi, a Gobetti) per non dovere ammettere che i punti di riferimento per evitare la confusione culturale (e politica) da cui siamo attanagliati, esistevano pure, ma sono stati bellamente ignorati, da chi credeva di salvarsi l'anima firmando 1nanifesti o parlando in salotto di Marx e di Lenin letti da Althusser e Bali bar (che poi è. un'ulteriore prova dell'acculturazione italiana nei confronti del resto d'Europa). Intendiamoci, però, ancora una volta: il riferimento a Croce per noi non significa contemplazione mistica o astratta ortodossia, ma soltanto, come già abbiamo detto, una scelta culturale, e quindi la capacità di conservare certi risultati ormai acquisiti e pacifici per ogni persona che creda ancora nel progresso « civile » del paese; quei valori per i quali Croce si è sempre battuto in prima persona. Soltanto la cattiva coscienza di molti illustri personaggi cerca oggi di farlo dimenticare, sfruttando il potere di cui ancora dispone per « emarginare » - non osando più neppure impegnarsi in un aperto dibattito culturale, quale quello che l'occasione del ventennale della morte del filosofo napoletano offriva - coloro che in nome di Croce e di tutta la tradizione politica italiana puntano ancora al rinnovamento morale e civile del nostro paese. Ma forse di tutto questo discorso, il riferimento a Croce è stato soltanto un pretesto, l'occasione immediata, per dire che siamo arrivati .-·aun punto in cui le scelte politiche e culturali sono ormai indifferibili: per tutti. Si tratta di decidere se il nostro modello di sviluppo sociale deve realizzarsi nell'ambito della democrazia e della libertà (e allora Croce ha ancora qualcosa da dirci), oppure se vogliamo il ritorno a un drammatico passato o rinviamo tutto a un'ipotetica avvenire, i cui contorni però nessuno riesce con chiarezza a delineare (e in questo caso i conti con Croce sarebbero chiusi). Può darsi anche che oggi sia molto difficile indicare con assoluta sicurecca quel che si dovrebbe fare; ma si può invece con assoluta sicurezza indicare quel che non si deve fare. Cioè comportarsi come qui « cavalier d'industria » di cui parlava il Carducci, il cui pensiero dominante era questo: « Se il tempo brontola, / Finiam d' empire il sacco; / Poi venga anche il diluvio; / Sarà quel che sarà ». GIROLAMO COTRONEO 13

Il momento giuridico nell'azione meridionalista di Pasquale Saraceno* 1. All'esame che dobbiamo oggi compiere del contributo che Massimo Annesi ha dato con questo suo nuovo lavoro alla formulazione della politica meridionalista penso sia utile premettere da parte mia un richiamo di quelli che mi sembrano i punti più salienti della precedente riflessione da lui compiuta sul problema del Mezzogiorno; si tratta di una riflessione che l'Annesi ha ininterrottamente svolto, soprattutto presso la Svimez, a partire dall'immediato dopoguerra, cioè a partire dal momento in cui un nuovo meridionalismo si è presentato nella vita italiana; un meridionalismo nuovo nel senso che esso ha voluto non attardarsi né sulla denuncia della gravità dello squilibrio che, con la fine del conflitto si era di nuovo presentato davanti a noi, né sulla inconcludente disputa sul bilancio tra benefici e danni recati al Mezzogiorno dalla unificazione politica del nostro Paese. Si preferì invece portare ì'impegno su due grandi temi: a) la quantificazione dei termini del problema al fine di offrire una base meno vaga ad una politica atta a eliminare il divario che dopo quasi un secolo di vita unitaria continuava ad opprimere la vita del Paese; b) la definizione di concrete 1nisure immediatamente attuabili nel quadro economico esistente affinché, nella situazione del tutto nuova creatasi con la fine del conflitto, una politica di unificazione economica del Paese, inevitabilmente a lunghissimo termine, avesse un principio di attuazione. Questa concezione esprimeva una scelta politica nel senso che aveva come presupposto il pensiero che l'eliminazione del divario Nord Sud potesse essere conseguito mediante una sistematica azione pubblica; un'azione pubblica che dovesse però assumere una portata talmente rilevante da determinare anche nelle regioni esterne al * Intervento in occasione della presentazione - avvenuta a Roma, il 27 marzo 1973, alla Libreria « Paesi Nuovi» - del volume Nuove tendenze dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno di Massimo Annesi (SVIMEZ, 1973). 14

Il momento giuridico nell'azione meridionalista Mezzogiorno una struttura produttiva profondamente diversa da quella che si sarebbe altrimenti avuta nell'ipotesi che quell'azione non fosse stata intrapresa o non avesse avuto successo. Tale linea si opponeva quindi alla concezione liberista che aveva prevalso nel meridionalismo prebellico e che vedeva nel protezionismo un privilegio dato alle regioni industrializzate a spese delle regioni che non lo erano e soprattutto del Mezzogiorno; il nuovo meridionalismo concepiva la soluzione della questione meridionale come un processo di sistematica instaurazione nel Mezzogiorno di un regime « differenziale » in confronto al Centro-Nord, differenziale nel senso che esso valesse a istituire una situazione di parità di convenienza ad investire nelle regioni non industrializzate in confronto non solo del triangolo industriale, ma anche delle regioni ove il processo di industrializzazione era già avviato o poteva, come i fatti dovevano poi dimostrare, spontaneamente avviarsi. E giova avvertire che questa concezione non solo si opponeva oltre che al liberalismo, anche, come è ovvio, alla concezione che subordinava la soluzione del problema a un mutamento radicale dell'ordine esistente, ma si distingueva radicalmente anche dal riformismo tout court che consapevolmente o inconsapevolmente si poneva e si pone ancor oggi obbiettivi di « welfare state » secondo suggestioni supinamente recepite dalle correnti progressive del mondo occidentale. A parte rituali richiami alla questione meridionale mancava e manca a quelle correnti ogni preoccupazione di almeno coordinare, se non di subordinare, quegli obbiettivi a quello di eliminare il dualismo della società italiana. Nel settembre scorso, in un incontro a Bari, ho chiamato riformismo meridionalista questa concezione dello sviluppo italiano; si tratta di una posizione evidentemente di natura politica; essa però non era e non è suscettibile di porsi come alternativa appunto politica alle altre concezioni, siano esse espresse in sede di partiti o di formazioni sindacali; in ciascuna di esse infatti prevalgono le forze che tendono a identificare le soluzioni convenienti per la parte più ricca e quindi più forte del Paese come le soluzioni più convenienti per l'intero Paese. Il riformismo meridionalista finisce quindi per ridursi a una posizione culturale che cerca di condizionare in qualche modo il comportamento delle varie forze sociali. Si tratta di un condizionamento che può diventare rilevante nella misura in cui la non risolta questione meridionale si presenta come un nodo che, nell'ambito delle posizioni tradizionali, non è possibile sciogliere. In tali condizioni il progresso non può essere che mo15

Pasquale Saraceno desto e comunque non se1nbra raggiungibile l'obbiettivo dell'unificazione economica del paese. Ora, nel riformismo meridionalista il momento giuridico ha rilievo maggiore, se è corretto istituire confronti in questa materia, che in ogni al tra linea di azione definibile rifor1nista. E ciò perché le modifiche che l'azione meridionalista deve introdurre nell'ordinamento esistente, affinché la struttura sociale ed economica del Paese divenga finalmente unitaria, sono di natura diversa da quelle richieste da ogni azione riformista svolta in ogni altro campo della vita nazionale. Non si tratta infatti di modificare il regime di un determinato settore e di trovare le risorse occorrenti per dare ad esso un nuovo e durevole. assetto. Rispetto a ogni altro tipo di riforma vi sono almeno tre differenze: a) occorre agire in una molteplicità di settori; b) occorre non solo agire nell'area meridionale, ma anche nella restante parte del Paese; nella prima per determinare quel mutamento di rapporti sociali e di struttura economica che ne faccia un'area omogenea con le altre economie industriali nel mondo occidentale, nella seconda perché il mutamento che anche in essa ha luogo non contraddica con quanto si vuole promuovere nella prima; e) ogni norma o complesso di norme, per quanto vasto esso sia, non è destinato a mettere capo a un assetto durevole, ma a creare posizioni più avanzate, che sono però inevitabilmente mere posizioni di partenza dalle quali dar vita à nuove norme e, ove occorra, a nuove istituzioni; basti pensare, riguardo a questa terza caratteristica, come non sia concepibile per altri grandi problemi della vita nazionale -- ad esempio scuola o sanità - quel ripensamento radicale che ogni quattro o cinque anni ha luogo nella legislazione meridionalista. Nell'azione meridionalista è quindi indispensabile seguire assiduamente gli effetti prodotti dalle norme in vigore, valutare esattamente lo scarto intercorrente tra effetti attesi ed effetti prodotti - il che implica tra l'altro la verifica dell'interpretazione che la norma ha ricevuto - e su tali basi immaginare i lineamenti di nuove norme che da un lato correggano le deficienze emerse nell'applicazione delle norme precedenti e, dall'altro, promuovano i nuovi tipi di iniziative che sono proprie della fase di sviluppo che il Mezzogiorno ha raggiunto. In sostanza, per la prima volta nella storia del Paese, noi possiamo finahnente concepire l'azione meridionalista come un ciclo, sia pure di lunga durata, al termine del 16

Il momento giuridico nell'azione meridionalista quale il Paese dovrebbe finalmente presentarsi come economicamente e socialmente unificato; è quindi naturale che in ogni momento di questo ciclo la situazione sia diversa da quella del momento precedente. A tale nuova situazione dovranno in conseguenza adattarsi le modalità dell'intervento. E poiché l'andamento di questo ciclo, la possibilità che esso giunga prima o dopo a compimento o che non vi giunga affatto dipendono dalla prontezza con cui l'azione pubblica ordinaria e straordinaria corregge i propri errori e coglie le nuove possibilità, deve ·essere incessante l'opera di verifica della congruità dell'azione in corso alla situazione che si è determinata e di produzione di nuove norme capaci di determinare il tipo di azione che nel momento dato si richiede. 2. Orbene, è a questa azione che è di verifica e di creazione che Massimo Annesi ha dato il suo contributo come collaboratore della Svimez e in altre sedi; è un ruolo che egli ha assunto presso la Svimez all'atto stesso, si può dire, della sua fondazione; e mi è caro ricordare qui che furono Rodolfo Morandi e Alessandro Molinari a proporgli di svolgere il compito che ho ora cercato di descrivere. E contemplando l'attività da lui svolta mi sembra di dover richiamare l'attenzione su almeno tre suoi lavori, che bene espri1nono la penetrazione e la sistematicità con le quali egli si rende padrone dei lineamenti assunti, nel momento dato, dall'ordinamento che regge l'azione meridionale e deìle vicende attraverso le quali vi si è pervenuti. Sono essi la introduzione al volume edito dalla Svimez nel 1968 e da lui curato, contenente la « Legislazione per il Mezzogiorno 1861-1957 », il volume apparso nel 1966 nella collana della Svimez dedicata a Francesco Giordani, dal titolo « Aspetti giuridici della disciplina degli interventi nel Mezzogiorno », e, infine, la introduzione che egli ha premesso alla pubblicazione, pure della Svimez, del Testo Unico del 1967 delle leggi sul Mezzogiorno. Questa ultima trattazione costituisce, mi sembra, una testimonianza molto significativa della complessa attività giuridica che il moderno meridionalismo richiede: evocata la produzione normativa del periodo precedente l'emanazione del Testo Unico e i tratti salienti del Testo, la trattazione si sofferma sui problemi che il Testo Unico lascia aperti, nella prospettiva di una loro lontana ripresa in considerazione: nuove tendenze nell'attività della Cassa, il dilemma concentrazione-diffusione, il sistema degli incentivi, il muta~ 17

Pasquale Saraceno 1nento determinato nell'azione di intervento dall'adozione dell'ordinamento regionale; e non è senza interesse confrontare le considerazioni svolte dall'Annesi in questa parte con norme successive e, in particolare, con la legge 6.10.1971 n. 853 che regola per il quinquennio 1971-75 l'attività della Cassa e di cui tratteranno tra breve gli an1ici qui presenti. Al tema dei rapporti tra politica di piano e azione meridionalista, toccato in questa introduzione, l'Annesi aveva del resto dedicato da tempo la sua attenzione testimoniando così la sua concreta adesione alla posizione fondamentale del riformismo meridionalista secondo la quale condizione necessaria anche se non sufficiente per il successo dell'azione meridionalista è il passaggio a una politica di piano: in questa materia sono da ricordare due brevi ma penetranti saggi prodotti nel 1960 che la non felice esperienza poi compiuta rende certamente attuali: con il titolo « Riflessi giuridici della programmazione » e « Esigenze della pianificazione e posizione del problema nel diritto costituzionale » essi indicano quanto il discorso sul programma, ininterrottamente portato avanti dalla Svimez nel quarto di secolo di sua esistenza, abbia trovato nell'Annesi la necessaria verifica in fatto di inseribilità di una vera programmazione negli ordinamenti di un Paese libero. Sul tema della programn1azione Annesi è tornato di nuovo molto efficacemente nel 1968 con due brevi scritti nei quali si svolgono tesi che, come vedremo tra breve, si sono mostrate valide, più tardi, anche in una situazione del tutto diversa;· emerse in quegli anni una autorevole corrente di pensiero secondo la quale l'azione penetrante e unitaria che ci si attendeva dagli organi di programmazione avrebbe reso superflui gli enti creati per l'intervento straordinario. Mi riferisco qui ai due saggi « Miti e paradossi della programmazione: la Cassa per il Settentrione?» e « Mezzogiorno e fughe in avanti »; in questi lavori l'Annesi mostra in sostanza che a una situazione dualistica, nell'ipotesi s'intende che ci si voglia veramente porvi riparo, non può non corrispondere un ordinamento dualistico, cioè un ordinamento nel quale la sezione più debole del sistema nazionale sia dotata di un apparato specializzato nelle varie azioni che si richiedono nelle successive fasi della politica di .intervento. L'azione degli organi dell'intervento straordinario può essere inefficiente; si tratta in tal caso di rimediare alle inefficienze non di sopprimere l'organo incaricato dell'intervento. Ed è inoltre necessario distinguere - osserva l'Annesi - tra le conseguenze effettivamente attribuibili all'inefficienza degli organi d'in18

Il momento giuridico nell'azione meridionalista tervento e le conseguenze prodotte da un'azione politica tutt'altro che coerente e non in grado di fornire agli organi in questione risorse adeguate agli obbiettivi che vengono loro assegnati. Argomentazione centrale di quel saggio è che l'esistenza del dualismo è il fatto che richiede l'intervento straordinario in una sede specializzata, intervento che è dunque strumento di difesa nei riguardi di una politica generale che tende a non essere dualista e quindi a regolarsi nella parte povera del Paese come se ad essa fosse applicabile il modello di sviluppo della parte ricca cioè della parte che è politicamente più forte. A questo punto è interessante osservare che la stessa richiesta di soppressione dell'intervento straordinario è stata negli anni scorsi avanzata nel senso che l'ordinamento regionale rende superfluo un intervento straordinario che, per sua natura, ha carattere centralizzato. L'argomentazione è qui in un certo senso opposta; nel caso della programmazione era per considerazioni di uni tari età che si voleva dissolvere l'apparato di intervento straordinario, ora invece era per considerazioni di autonomie locali. In ambedue i casi sono sempre le concrete esigenze del Mezzogiorno che non si esita a sacrificare in nome di principi la cui applicabilità a un certo tipo di azione non è affatto dimostrata. Il tema della connessione tra programmazione nazionale, compiti della Regione e intervento straordinario era del resto già stata oggetto da parte dell'Annesi fin dal 1963 di una breve succosa premessa alla pubblicazione, nelle collezioni Svimez, delle leggi e degli atti parlamentari sul Piano di rinascita della Sardegna; in questa premessa viene tra l'altro sollevato il problema dell'accertamento della conformità dei singoli atti delle varie amministrazioni agli obbiettivi del piano, problema intorno al quale molto è ancora da fare da parte sia degli economisti, sia dei giuristi ove si voglia conseguire quel minimo di rigore nella formulazione dei programmi che ne consenta un obbiettivo controllo; e il tema è veramente di importanza decisiva ai fini di una seria programmazione ove si ricordi che - avvertono i cibernetici - non vi è programma senza controllo; è infatti il meccanismo di controllo che permette di tempestivamente promuovere le azioni rettificative e integrative capaci di fat evolvere il sistema verso gli obbiettivi stabiliti. L'industrializzazione, è forse superfluo dirlo, rimane sempre il tema nel. quale, da un lato, il progresso conseguito dall'azione meridionalista continua ad essere insoddisfacente e, dall'altro, le modalità dell'intervento straordinario - e in particolare i rapporti 19

Pasquale Saraceno tra banca e industria nascente - sono di più incerta determinazione. Dei contributi che su varie questioni Annesi ha dato in questa materia, mi limiterò a ricordare solo un punto da lui sollevato fin dal 1966 in « Aspetti giuridici della disciplina degli interventi nel Mezzogiorno »; si tratta di un punto che, ripreso nel testo che stiamo esaminando, è destinato, credo, a ricevere maggiore attenzione in un futuro non lontano. In questa materia l'Annesi parte da una riflessione (non frequente in trattazioni giuridiche) delle forme tecniche che di fatto ha assunto nel nostro Paese, a partire dalle banche miste di fine '800, il finanziamento dell'industria nascente; constatata sia l'irripetibilità dell'esperienza passata, sia i limiti delle strutture che si sono via via create, egli si pone il problema dei modi con cui allargare tali limiti. E tra l'altro egli giunge a preconizzare la formulazione di uno statuto dell'impresa agevolata come strumento capace di dare maggiore certezza ad ambedue i contraenti: chi concede il credito e chi lo ottiene. Si tratta di un tema che, come ho ora detto, è stato ripreso nello studio ora uscito e sul quale non vorrei dire altro essendomi proposto solo di ricordare brevemente il ricco retroterra da cui l'Annesi muove nel suo nuovo lavoro. PASQUALE SARACENO 20

GIORNALE A PIU' VOCI Dall'equilibrio economico all'equilibrio ecologico Il sostanziale fallimento della scienza economica nello spiegare, affrontare e risolvere le fondamentali implicazioni connesse all'impatto dello sviluppo tecnologico sul generale equilibrio della terra, intesa come sistema naturale, ripropone l'esigenza di un suo concreto e realistico ripensamento epistemologico alla luce delle positive indicazioni offerte dalla scienza ecologica. Se vi è stato un divorzio fra la scienza economica e l'ecologia questo trova un puntuale riscontro nelle modalità di sviluppo della stessa scienza economica che ha scontato la dicotomizzazione tra uomo e natura. La scienza economica, cioè, poneva al centro delle sue indagini obiettivi il cui significato ed il cui sviluppo dovevano necessariamente entrare in collisione con quelli relativi alla scienza dell'ecologia. Ora diventa necessario ricomporire il dissidio tra l'uomo e la natura} per cui la nuova scienza economica che dovrà nascere dalle rovine dell'antica non potrà che essere coerente con i principi generali a cui si ispira l'ecologia. Il motivo è chiaro nella misura in cui l'economia rappresenta una fase del processo di conoscenza degli ecosistemi, mentre l'ecologia ne rappresenta la fase di sintesi. Così la critica ecologica è sorta come reazione ad una parcellizzazione della conoscenza che finiva per perdere di vista l'insieme logico in cui la scienza doveva collocarsi, ed ha del pari voluto ricomporre il dissidio cercando di sottomettere l'uomo sociale all'uomo naturale. In realtà noi crediamo che il dissidio non si ricomponga con la semplice sottomissione dell'economia all'ecologia, ma attraverso la riconduzione dell'economia nell'alveo dell'ecologia, da un lato, e dall'altro lato, attraverso il riconoscimento della superiorità ·operativa deJI'economia sull'ecologia, q~ando essa venga applicata all'intero ecosistema. Infatti, gli equilibri studiati dall'ecologia non sempre rappresentano un optimum e non sempre sono raggiunti con il minimo di energia. Anzi, molto spesso essi sono puramente casuali e rappresentano il punto di arrivo di trasformazioni molto costose in termini di energia. Il dissidio quindi si ricompone nel momento stesso in cui vengono enucleati dei concetti unificanti, appartenenti ai campi logici di ambedue le scienze, ed a nostro avviso tali concetti unificanti sono essenzialmente due: quelio di sistema e quello di trasformazione. Inoltre tali due concetti offrono il vantaggio di essere interdipendenti nel senso che l'equilibri.o di un sistema è funzionalizzato nei confronti delle stesse trasformazioni, per cui il problema si riduce alla ricerca delle trasformazioni che producono gli effetti desiderati sull'intero sistema. çome si vede, la fonda1nentale critica che l'ecologia 21

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