Nord e Sud - anno XX - n. 159 - marzo 1973

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, L'inverno degli intellettuali - Sandro Petriccione, Oneri sociali e Mezzogiorno - Francesco Compagna, Alluvzinio e surgelati - Gaetano Riello ed Ernesto Sparano, Regioni e finanziarie regionali e scritti di Autori van, Vittorio Barbati, Aldo Canonici, Luigi Compagna, Ermanno Corsi, Màrio Dilio, Antonino Laganà, Fabrizio Perrone Capano, Michele Ributti, Filippo Scalese ANNO XX - NUOVA SERIE - MARZO 1973 - N. 159 (220) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPO,LI

Librerie presso le quali è in vendita la rivista BOLOGNA Libreria Feltrinelli P .zza Ravegnana, 1 Libreria Novissima Via Castiglione, 1 Libreria Parolini Via U. Bassi, 14 CATANIA Libreria Castorina Via Etnea, 67 Libreria La Cultura P.zza Vitt. Emanuele, 9 CORIGLIANO CALABRO Edicola Francesco Cosantino FIRENZE Libreria Rinascita Via L. Alamanni, 41 Libreria Marzocco Via de' Martelli, 22 r Libreria degli Alfani Via degli Alfani, 84/% r Libreria Feltrinelli Via Cavour, 12 LATINA Libreria Raimondo Via Eug. di Savoia, 6/10 GENOVA Libreria Il Sileno Galleria Mazzini, 13 MILANO Libreria Francesco Fiorati P.le Baracca, 10 Libreria Sapere Via Mulino delle Armi, 12 Libreria Internazionale Einaudi Via Manzoni, 40 Libreria Popolare C.so Como, 6 Libreria Feltrinelli Via Manzoni, 12 .MODENA Libreria Rinascita P.zza Matteotti, 20-21 NAPOLI Libreria Fausto Fiorentino Calata Trinìtà Maggiore Libreria Leonardo Via Giovanni Merliani, 118 Libreria Deperro Via dei Mille, 17/19 Libreria A. Guida & Figlio Via Port'Alba, 20/21 Libreria Fiorillo Via Costantinopoli, 76 Libreria Treves Via Roma, 249 Libreria Guida Mario P .zza dei Martiri, 70 Libreria Macchiaroli Via Carducci, 57/59 Libreria Minerva Via Ponte di Tappia, 5 PALERMO Libreria Domino Via Roma, 226 Libreria S. F. Flaccovio Via R. Settimo, 37 PARMA Libreria Feltrinelli Via della Repubblica, 2 ROMA Ildefonso De Miranda Via Crescenzio, 38 (agente per il Lazio) SIENA Libreria Bassi Via di Città, 6/8 TORINO Libreria Punto Rosso Via Amendola, 5/D TRIESTE Libreria Eugenio Parovel P .zza Borsa, 15 VERONA Libreria Scipione Maffei Galleria Pellicciai, 12 VIAREGGIO Libreria Galleria del Libro V.le Margherita, 33

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XX - MARZO 1973 - N. 159 (220) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L.. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1200 - Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli

SOMMARIO Editoriale [3] Girolamo Cotroneo L'inverno degli intellettuali [7] Sandro Petriccione Oneri sociali e Mezzogiorno [ 16 J Cronache parlamentari Francesco Compagna Alluminio e su1gelati [28 J F. Perrone Capano Ermanno Corsi Michele Ributti Giornale a più voci Adriatico: una difesa dall'inquinamento [37] Frane e voragini nell'area napoletann [ 41 J Gli squadristi di Milano [ 46] Regioni Gaetano Riello ed Ernesto Sparano Regioni e finanziarie regionali [54 J Mario Dilio Filippo Scalese Quale sviluppo? Allarme per l'energia necessaria al Sud [76] Un diverso futuro per il Mezzogiorno [79] Argomenti Autori vari Il ruolo delle llnprese pubbliche [ 86] Cronache e memorie Vittorio Barbati La politica estera dell'Italia fra le due guerre (1) [96] Luigi Compagna Antonino Laganà Aldo Canonici Recensioni Di Vittorio: fra Gramsci e Togliatti [ 115] La scienza sociale e il suo problema [119] Retribuzioni: la rissa delle categorie [ 122]

Editoriale Ancora sconcertante sembra l'atteggiamento dei socialisti. Specialmente per quanto riguarda la scelta della loro collocazione nelle maggioranze che concorrono a formare le aniministrazioni locali. Si direbbe che essi non abbiano compreso quanto ha influito sulla crisi della politica di centro-sinistra la loro pretesa di poter amministrare comuni, province e anche regioni con i comunisti quando una maggioranza frontista è alternativa rispetto ad una maggioranza di centro-sinistra; di potersi concedere per una maggioranza di centro-sinistra quando questa risulta la sola possibile; e magari di condizionare la formazione delle maggioranze di centro-sinistra all'esclusione dei socialdemocratici quando questi ultimi non risultano determinanti. E si direbbe pure che essi non si rendano conto di quanto il « dialogo » per il « ritorno critico » alla politica di centro-sinistra sia ritardato, se non compromesso, quando la scelta di questa politica viene rinnegata nei fatti là dove la cosiddetta disponibilità socialista viene niessa alla prova nei comuni, nelle province, nelle regioni. Si sono verificati proprio in queste settimane taluni casi nei quali i socialisti hanno voltato le spalle alle occasioni di far valere la loro disponibilità per maggioranze di centro-sinistra nelle amministrazioni. E ha ben ragione Craxi, che, a proposito dell'intenzione manifestata dai socialisti di entrare, con i comunisti, già detentori di una maggioranza assoluta, nella giunta regionale dell'Emilia, rileva che tale intenzione non è coerente con la politica _ della disponibilità per il centro-sinistra che il Congresso di Genova ha dichiarato di voler adottare. Ma nel momento in cui gli autonomisti sollevano la questione della inutilità o dannosità di una partecipazione socialista alla giunta di Bologna, il discorso necessariamente si allarga ai casi provinciali e comunali nei quali la disponibilità per il frontisino prevale, tra i socialisti, sulla disponibilità per il centro-sinistra. Tali casi, del resto, sono già oggetto di riunioni fra i respons'abili per gli enti locali dei partiti di centro-sinistra. Se queste riunioni, però, dovessero dar luogo a risultati non soddisfacenti, le conseguenze frenanti sul « dialogo » si farebbero però sentire anche più di quanto già non si siano fatte s·entire. Proprio tra la prima e la seconda di queste riunioni sono sopravvenute, infatti, le notizie relative alla disponibilità 3

Editoriale per il frontismo manifestata dai socialisti emiliani (demartiniani, et dicono, e non manciniani); e proprio all'indomani della seconda riunione, a 1nettere in dubbio che ce ne possa essere una -terza, sono sopravvenute le notizie di Pavia. Ma queste ultime coinvolgono, oltre i socialisti, anche i socialdemocratici e indirettamente un repubblicano: gli uni, entrati nella nuova amministrazione con i socialisti ed i cornunisti, l'altro che si è limitato a votare per la delibera relativa q,lla elezione dei nuovi assessori socialisti e socialdemocratici. Così che la DC, estromessa dalla amminisltrazione di Pavia, ha fatto sapere che la ripresa degli incontri con i responsabili per gli enti locali degli altri partiti di centro-sinistra è subordinata alla revisione dell'atteggiamento che essi hanno adottato a Pavia; ed i socialisti hanno preannunciata una missione a Pavia del vicesegretario del partito e del responsabile per gli enti locali: si vorrebbe indurre il sindaco lombardiano a din1ettersi. Ma nel frattempo i due socialdemocratici diventati assessori si sono dimessi dal partito che li aveva richiamati alla sua linea. A questo punto, però, non sia,no di fronte soltanto alle scelte sconcertanti del PSI, che, secondo valutazioni dell'on. Preti, in circa 150 fra comuni e province avrebbe preferito l'alleanza con il PCI quando era pur possibile formare una maggioranza di centro-sinistra; e'è anche in rrJ.Olticomuni e in talune province una insofferenza nei confronti della DC che induce i socialisti a formare maggioranze con i comunisti. Non solo: tal'e insofferenza sollecita anche dissidenze dalla linea nazionale di comportamento fra gli stessi socialde1nocratici e magari fra i repubblicani. E se è vero che i comunisti sono molto condiscendenti nell'offrire congrue remunerazioni per queste dissidenze> è anche vero che i democristiani sono di solito molto prepotenti: non disposti, cioè, a riconoscere ai loro alleati lo spazio politico (e, se si vuole, di sottogoverno) che, sia pure senza maggiorazioni, è doveroso concedere a forze che sono determinanti per la durata delle amrninistrazioni e che comunque non vogliono essere umiliate, degradate a funzioni di stampelle. Così come è pur vero che molto raramente i democristiani hanno fatto parlare di sé com.e di amministratori integerrimi. D'altra parte, se da queste considerazioni si può ricavare per i socialisti un'attenuante, resta il fatto che le scelte dei socialisti nei comuni, nelle province, nelle regioni contribuiscono ad eccitare uno stato d'animo ·antisocialista che si è diffuso e si diffonde nella base democristiana, fra i quadri intermedi della DC, e fa sentire il suo peso nella vigilia del congresso. Sono sen1pre più numerosi i democristiani 4

Editoriale che non vogliono sentir parlare dei socialisti; e taluni leaders dorotei, che vorrebbero parlarne, per prudenza sono costretti a tacere o a rifugiarsi in un lessico cifrato. Quindi, fra insbff erenza dei socialisti per i democristiani e dei democristiani per i socialisti, l'una che si manifesta nelle assemblee elettive degli enti locali, l'altra che si manifesta nei dibattiti precongressuali, il « dialogo » sollecitato dal sen. Fanfani rischia di restare una intenzione velleitaria. Si consideri, però, che, se la questione delle giunte rischia di compromettere l'avvio del « dialogo», non si può prescindere, al di là degli stati d'anilno, dal fatto che la gran parte dei comuni, delle province, delle regioni dovrebbe essere sottoposta a regimi commissariali se si sfaldassero le maggioranze di centro-sinistra. E infatti, malgrado tutto, queste maggioranze durano. Ora, se si riuscisse a forn1are maggioranze di centro-sinistra là dove è stato finora impossibile formarle, e tuttavia esse risultano alternative rispetto a maggioranze frontiste o a maggioranze centriste, le condizioni per l'avvio del « dialogo» potrebbero sensibilmente migliorare. In questo senso, sarebbe auspicabile che le riunioni fra i responsabili per gli enti locali dei partiti di centro-sinistra possano continuare « a pieno ritmo » e approdare a risultati sempre più soddisfacenti. Ma intanto sono approdate a risultati insoddisfacenti; e non sarebbe più minimizzabile con1e semplice incidente di percorso ogni altro episodio locale che dovesse provocare reazioni della DC come quelle provocate dall'episodio di Pavia: ne potrebbero derivare reazioni a catena tali da indurre in sede nazionale i socialisti a subire più che a fare quella che Giolitti chiama « una scelta di opposizione stabile »; e quindi a stringere ·le alleanze conseguenti, frontiste, in un quadro politico aggravato dalle crisi generalizzate delle maggioranze di centrosinistra nei con1uni, nelle province e anche nelle regioni. Senonché, dopo i risultati delle elezioni 'francesi, la « scelta di opposizione stabile » e ne « alleranze che ne deriverebbero » sembrano assai più rischiose di quanto non potessero s'embrare allettanti prima dell' 11 marzo. Comunque sia, la condizione delle condizioni perché il « dialogo » sia avviato « subito e a pieno ritmo » è l'identificazione dei suoi contenuti: nella consapevolezza che non si tratta soltanto di verificare la possibilità di un incontro nuovo fra cattolici e socialisti; e meno che mai di forzare questa verifica mediante il grimaldello delle sinistre democristiane. Da un lato, i socialisti devono confrontarsi con tutta la DC e, dall'altro lato, ci sembra che l'esperienza abbia dimostrato anche ai più vanitosi tra i socialisti che il « ritorno critico » alla politica di centrosinistra pas·sa necessariamente attraverso il confronto con altri interlo5

Editoriale cutori, socialdemocratici e repubblicani, che pure hanno qualcosa da dire e sono in grado di poterla dire. In questo senso è improprio parlare di « dialogo »; e in questo senso sembrerebbe che i socialisti siano diventati più accorti di quanto non lo siano stati quando, instaurato un rapporto preferenziale con le sinistre democristiane e assunto un atteggiamento che voleva discriminare i socialdemocratici e prescindere dai repubblicani, hanno compromesso la continuità e la coerenza della politica di centro-sinistra più di quanto già non fossero compromesse da una dissennata politica economica e finanziaria. Infatti, c'è una « strategia dell'attenzione » verso socialde111.ocratici e repubblicani che differenzia l'atteggiamento dei socialisti dopo Genova da quello degli anni trascorsi. Del resto, lungi dal poter criticare i repubblicani ed i socialdemocratici perché consentono ad Andreotti di durare, i socialisti devono rendersi conto che - come scrive, su « La Stampa », Alberto Ronchey - « la forza effettiva di Andreotti è la debolezza politica del PSI, la sua incapacità a concepire una coalizione di centro-sinistra più efficiente e seria di quelle passate ». Se questa incapacità dovesse risultare non correggibile, Andreotti diventerà più forte. Le prossime settimane saranno decisive. 6

L'inverno degli intellettuali di Girolamo Cotroneo . Gli intellettuali e la politica; gli intellettuali e il potere; la crisi degli intellettuali: l'argomento è tornato di moda. Lo era stato nella seconda metà degli anni cinquanta, specialmente dopo i fatti d'Ungheria: sino ad allora, accanto alla parola « intellettuale » era sempre sottintesa la specificazione « di sinistra », che significava soprattutto affinità al marxismo; dopo, pur essendo ancora l'intellettuale considerato sempre « di sinistra », si creò una distinzione abbastanza chiara e netta fra quelli marxisti e quelli non-marxisti. Adesso - e forse è questa una delle ragioni per cui l'argomento è tornato di moda - si parla pure di intellettuali « di destra ». Di questo tuttavia diremo dopo: la domanda che adesso ci poniamo, visto il ritorno in forze di questo tema, è quella della definizione dell'intellettuale. Che cos'è, dunque, questo personaggio tanto discusso? Si potrebbe di esso riprendere la definizione data da Croce della poesia, cioè che si tratta di cosa che tutti sanno quello che sia; oppure, per tenerci più vicini all'argomento, quella di Gramsci, per cui « tutti gli uomini sono intellettuali », anche se non tutti hanno nella società « la funzione di intellettuali ». Ma sono ormai vecchi concetti: ne abbiamo di nuovissimi. Ad esempio quello recente di Sartre, che il vecchio filosofo francese ha definito in un'intervista a Pierre Benichou (che L'Espresso ha ripubblicato poche settimane addietro), dove distingueva fra intellettuale « classico » e « moderno », dei quali il primo rappresenterebbe una figura « che avendo a disposizione un certo potere se ne è servito per acquistare cognizioni che ha trasformato ingiustamente in potere», mentre il secondo non sarebbe più colui « che detta programmi, che decide, che definisce necessità e desideri », essendo ormai questo compito delle masse, « e una volta che esse hanno deciso, l'intellettuale cercherà di esp;rimere quelle decisioni in una lingua c];ie, naturalmente, sarà spesso la lingua delle masse stesse, appena appena riscritta in bella copia». Si tratta, ci si perdoni l'irriverenza, di un argomento alquanto balordo: ~artre vuole qui rovesciare il vecchio assunto, di derivazione leniniana, sulle « avanguardie » del proletariato (concezione 7

Girolamo Cotroneo che riecheggia anche in Gramsci, quando scrive che il modo d'essere del nuovo intellettuale sta « nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanente » ); e lo rovescia senza rendersi conto che a monte della « trascrizione in bella copia », la « voce » della massa sarà sempre quella di colui , o di coloro che, a torto o a ragione non importa, credono di interpretarne l'autentica volontà: così il discorso ritorna ancora al punto di partenza, cioè all'intellettuale come « direttore di coscienza ». Altra interpretazione veramente rimarchevole è quella offerta da Franco Ferrarotti in una recente intervista rilasciata a « Il Globo », sulla quale vale davvero la pena indugiare. Il noto sociologo ha dunque detto: « Storicamente gli intellettuali sono s-empre stati uomini molto ricchi, sollevati dal bisogno di lavorare; coltivano le arti perché c'era qualcuno che coltivava la terra per loro ». Una banalità di tale portata era un pezzo che non la sentivamo più dir~; credevamo anzi, evidentemente illudendoci, che nessuno l'avrebbe mai più detta. Invece· Ferrarotti la dice ancora, non solo senza ricordarsi che la storia della nostra cultura conserva i nomi di François Villon, di Tommaso Campanella, di Benedetto Spinoza (o forse per Ferrarotti non sono intellettuali?) e di altri ancora, per i quali nessuno ha mai lavorato; ma addirittura lo dice senza pensare al rischio (ridicolo) di dover dare ragione del perché - se è « storicamente » vero che gli intellettuali siano stati coloro che, sollevati da impegni di lavoro, potevano dedicarsi agli otia, agli svaghi mentali - del perché allora « tutti » quelli che si dedicavano agli otia, mentre altri lavoravano per loro, non siano poi stati anch'essi degli intellettuali. Non contento di questa banalità, Ferrarotti ne ha poi aggiunta un'altra: dopo avere affermato che gli intellettuali non sono una classe (cosa su cui si può facilmente convenire), ha proseguito dicendo che essi si limitano a seguire « le classi sociali di appartenenza ». La validità « storica » di quest'ultima affermazione è tale e quale la precedente: se l'intellettuale come tale esiste, esiste proprio in quanto trascende le posizioni non solo sociali, ma anche culturali, di partenza; altrimenti sarà soltanto uno studioso, un professore, ma non un intellettuale dotato di capacità creativa. 1 fatto è che Ferrarotti, dopo avere dichiarato con grandissima umiltà di servirsi di Marx, « ma per superarlo », ripete poi uno fra i più consunti degli schemi marxiani, cioè quello secondo cui sarebbe la classe a determinare la coscienza (affermazio.~e questa largamente 8

L'inverno degli intellettuali smentita dalla storia passata e presente, che ha visto gli intellettuali - fra i quali lo stesso Marx - schierarsi il più delle volte contro la classe di appartenenza). Evidentemente l'intelligenza di Ferrarotti urta contro certi schemi sociologici astratti dei quali non ri~sce a liberarsi (né sembra fare sforzo alcuno per farlo); per cui se si dovesse assumere l'intellettuale da lui descritto, sarebbe impossibile portare avanti qualsiasi discorso, non essendo allora l'intellettuale stesso altro che un portavoce - quindi l'ideologo - di una « base economica » di cui chiarirebbe soltanto le idee: l'attività creativa (che parte sì dal reale, dal dato storico e anche da quello economico, ina per trascenderlo), l'estro inventivo, la fantasia, di cui gli intellettuali autentici sono sempre stati i portatori, sarebbero allora, o una sorta di non-sense, oppure servirebbero soltanto gli interessi della classe di appartenenza: discorso questo da mezzacultura, che non pensa, ad esempio, quanto la filosofia « borghese » moderna abbia contributo a formare il pensiero « proletario »; discorso che, portato alle ultime conseguenze, dovrebbe essere poi capace di spiegare come mai ancora oggi un « lavoratore » possa leggere e recepire certe istanze etiche di un Platone che Paul Nizan definiva un « duce di schiavi », o come possa gustare il teatro elisabettiano, o quello « borghese »di Molière e Goldoni. Ma Ferrarotti sorvola disinvoltamente questi problemi e continua la sua disamina sociologica della funzione e della situazione d~ll'intellettuale, aggiungendo all'argomento originario già riferito, che l'intellettuale è oggi ridotto a una posizione subalterna, a semplice puntello ideologico della situazione di fatto, perché « non ha più prerogative di indipendenza ». Ci dispiace per Ferrarotti, ma qui il problema non è più sociologico, ma etico: è vero che il potere - quello politico, quello economico -- utilizza, asservendoli, degli intellettuali (e quanti sociologi fra di essi!) come proprio sostegno teorico; ma questo è un atto di viltà di cui è responsabile soltanto chi lo compie, non già una necessità storica, come sembra lasciare intendere Ferrarotti, per il quale soltanto in un'economia a regime schiavistico può esistere l'intèllettuale indipendente (in virtù del lavoro degli altri). Ma davvero Ferrarotti ignora le vicende di un modesto orologiaio ebreo, di nome Spinoza, vissuto in un ambiente ostile che fece di tutto per soffocarne la-voce, il quale lasciò un'opera che è un monumento alla libertà e alla tolleranza? o di un Campanella che passò gran parte della sua vita in carcere a causa di un ideale di eguaglianza e solidarietà umana? la stessa morte di So9

Girolamo Cotroneo crate non s1 inserisce forse nella lotta fra la cultura e il potere? Anche in quelle epoche - non c'è motivo per dubitarne - vi erano intellettuali che assecondavano il « potere », che lo sostenevano con l'autorità della loro dottrina, esattamente come oggi. Crede Ferrarotti che oggi non vi siano intellettuali che sfidano il potere? Che cosa è allora per lui Alexander Solzenitsyn? o gli intellettuali esuli di Grecia e di Spagna? li ha forse dimenticati? o li crede dei ricchi signori che riempiono così, magari un po' pericolosamente, gli otia garantiti ad essi dalle loro proprietà fondiarie? La verità è che l'animo servile e l'animo libero non sono categorie sociologiche, non sono dovuti soltanto alla classe sociale di appartenenza o alle condizioni storiche in cui si vive, né semplici prodotti di un misterioso sostrato inconscio: sono scelte etiche, alle quali l'intellettuale - forse più degli altri - è chiamato a rispondere in prima persona, senza trincerarsi dietro il comodo paravento della « situazione oggettiva» (che è un modo, alquanto maldestro, di eludere le responsabilità personali e di giustificare - e spesso autogiustificare - tutte le viltà). Quanto abbiamo detto finora dovrebbe facilmente consentire l'intelligenza del nostro modo di porre il problema: non pretendiamo sia quello giusto, pur essendo fermamente convinti che quello fra intellettuali e potere sia un falso problema, quando tende a innalzare, e avremo più avanti modo di ripeterci, il momento oggettivo rispetto a quello soggettivo che, per quel che riguarda l'intellettuale, deve essere considerato il solo valido. Ma quando si parla di intellettuali accanto a questo falso problema se ne pone un altro altrettanto falso: quello della « crisi » degli intellettuali. Argomento logoro, che non tiene conto dei presupposti fondamentali di tutta la nostra cultura: esiste infatti da qualche parte una cultura - e quindi gli intellettuali che ne sono i oortatori - che sia pacificata, serena, sazia, soddisfatta di sé? Certamente, quando è burocratizzata, quando coincide con l'ideologia dello Stato: ma è cultura, allora? E come potrebbe non essere in « crisi » perenne una cultura come quella occidentale, sempre inquieta, sempre alla ricerca di e stessa? Se gettiamo uno sguardo sulle origini di essa (poiché l'unico modo di intendere il problema è quello di conoscerne la storia), notiamo come fin dal suo sorgere, si trovò subito di fronte a un dilemma: fra l'immobilità parmenidea dell'essere 10

L'inverno degli intellettuali e il divenire di Eraclito, scelse quest'ultimo; fra l'essere e il nonessere preferì il secondo. Mentre altre culture rimasero per secoli, forse per millenni, in posizione statica, nel culto dell'essere, la nostra non ebbe mai una fase di quiete; nessuna parte del mond_o ebbe infatti tanti rivolgimenti culturali e politici quanto la nostra, vissuta sempre nella tensione verso il non-essere, verso ciò che non è ancora. « Tutto ciò che esiste non merita di esistere», diceva, ci sembra, Engels: e questa frase è il simbolo dell'inquietudine culturale nella quale siamo vissuti e continuiamo a vivere. Certo, questa inquietudine si accentua nei momenti di maggiore tensione politica - come di fronte ai fatti di Budapest e Praga, o alla guerra nel Vietnam - quando certi convincimenti sono sottoposti a dure prove storiche che costringono a ripensare molte cose; ma si tratta dell'accelerazione di un movimento che è continuo, in perpetua evoluzione: perché abbiamo già da tempo capito (e solo gli sciocchi ancora non lo credono) che la verità non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma coincide, come Hegel ha insegnato, con la ricerca della verità. Parlare quindi di « crisi », di « malumori », di « inquietudine » degli intellettuali è, all'origine anch'esso un falso problema, perché non tiene conto di quella radice dinamica della nostra cultura che scelse, alle sue origini, l'eraclitea impossibilità di « discendere due volte nello stesso fiume » o di « toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato ». La divagazione non è stata forse inutile, in quanto può consentire - una volta compreso e accettato che le belle epoche della cultura in cui tutto è sereno, tutto al posto e al momento giusto, sono un fatto «storiografico» (di una cattiva storiografia) e non « storico » - di sviluppare un discorso (ammesso, per le ragioni che diremo, lo meritino) sugli intellettuali italiani in una chiave che non sia quella della solita « crisi » - che della cultura è elemento costitutivo - bensì in una chiave eticopolitica che permetta di capire le responsabilità che gravano su di essi (e il discorso ritorna a quelle compromissioni, a quelle abdicazioni, di cui prima abbiamo parlato); poiché quando gli intellettuali parlano di « crisi », lasciano volentieri intendere che essa sia stata provocata da cause, diciamo così, extraculturali, ad esempio il sistema politico del nostro paese o il modo in cui esso è gestito: ma così facendo si dimentica che il compito degli intellettuali (se ne esiste ancora uno) è proprio quello di rompere gli schemi entro cui la società ( e il potere che la guida) tende, per natura, a 11

Girolan10 Cotroneo cristallizzarsi; ove invece essi vengano· a dire di sentirsi schiacciati dalle strutture socio-politiche e di non essere in grado di fare altro che sfogare accademicamente un certo malumore, allora è chiaro che hanno rinunziato al loro ruolo specifico (soprattutto quando coloro che parlano, in quelle stesse strutture si trovano poi perfettamente a loro agio). Certamente, se qualcuno crede che scrivere qualche articolo « rivoluzionario », firmare dei manifesti, partecipare a qualche corteo, basti per cambiare il mondo, non avrà che delusioni; se pensa invece a lavorare con impegno, senza inseguire successi immediati, lasciando ai tempi lunghi della storia il compito di modificare le situazioni, pur impegnandosi in prima persona a spingere la storia verso quelle modifiche, allora potrà dire di avere assolto, in qualche maniera, il suo compito. Del resto, la cultura non è una istituzione astratta, oggettiva, dove ciò che conta è l'istituzione stessa, non già chi la rappresenta, ma è un fatto soggettivo, indissolubilmente legato a coloro che ne sono i portatori; un discorso su di essa non può quindi essere spersonalizzato, sottoponendola a un'analisi siderale: è un fatto di persone che sono responsabili direttamente del suo dilatarsi o del suo declino e che non possono in nessun caso attribuire la colpa di quest'ultimo alle « strutture » o alla « società » anonimamente intese, in quanto, come prima si diceva, è spesso in opposizione ad esse (quando si ha il coraggio di farlo e con i rischi che comporta) che la cultura svolge la sua vera funzione. Tenendo presente questo punto di vista non si può non restare alquanto delusi - o irritati - di fronte alle dichiarazioni che un certo numero di intellettuali italiani ha rilasciato a Giovanni Grazzini nel corso di un'inchiesta che il Corriere della Sera ha pubblicato fra il ventuno gennaio e il due febbraio dell'anno in corso. Dobbiamo tuttavia rilevare, in armonia con i convincimenti che siamo venuti esponendo, che questo genere di inchieste non ci è mai sembrato troppo persuasivo: i sondaggi di opinione, infatti, hanno valore soltanto quando, attraverso un certo numero di campioni, è possibile in qualche modo generalizzare una tendenza media di comportamento di fronte a un qualsiasi fenomeno. Questo procedimento diventa invece assai discutibile in molti casi, come appunto in quello di un sondaggio fra gli intellettuali, ognuno dei quali rappresenta soltanto se stesso e non già una media di comportamenti. Generalizzazioni quali le « tendenze », lo « stato » della cultura, sono 12

L'inverno degli intellettuali sempre piuttosto deformanti, rappresentando ogni intellettuale un tipo a sé non già quello medio: al massimo, un fenomeno culturale può avere una maggiore o minore incidenza sulla vita etico-politica di un paese; ma questo diventa già un altro discorso (come un altro discorso sarebbe quello da farsi sul modo con cui Grazzini ha condotto l'inchiesta, volutamente indirizzata, e per la scelta dei soggetti e per il modo di porre le domande, a mettere in rilievo la « crisi » esistente). Comunque sia, si diceva prima della delusione, o irritazione, che sj prova nel leggere certe dichiarazioni: la tendenza a dare la colpa agli « altri » (alla politica, alla società, al capitalismo, al comunismo, alla storia insomma) è infatti emersa chiaramente dall'inchiesta di Grazzini, dove la più parte degli intervistati si è appellata a motivi metafisici, dichiarando l'impossibilità di fare qualcosa. Così, Ugo Spirito arriva alla conclusione che il « mondo si va facendo da sé, per cui nessuno ha più responsabilità di sorta »; Carlo Bo ritiene che ormai, dopo il fallimento di tutte le tendenze culturali della nostra epoca, da quella cattolica a quella marxista a quella liberale, più che « cosa fare », c'è soltanto da ·chiedersi « cosa sperare »; Franco Fortini crede che « per un periodo abbastanza lungo di tempo i conti sono fatti»; per Augusto Del Noc~ « nessuna fede guida ormai la politica, e nessuna cultura offre spinte ideali »; Tito Perlini crede probabile « una restaurazione culturale di destra », cioè un lungo ristagno di ogni fermento intellettuale. Un quadro, dunque, più che desolante: ed è facile capire come a giustificazione di queste conclusioni siano stati portati avanti i più svariati argomenti, dove appunto la colpa è sempre degli « altri »: così per Del Noce la colpa è della cultura idealistica che nel suo crollo ha travolto tutte le forze - che in Italia erano la più parte - che ne avevano subito l'influsso; Ugo Spirito porta avanti una causa metafisica parlando di un mondo che « cambia in virtù dell'incontro di forze cosmiche che non sono padroneggiate da nessuno»; Carlo Bo parla di una classe politica che « s'infischia del consenso della cultura (salvo che a sinistra, ma forse per servirsene) »; Montale parla di un mondo « moralmente ammalato» dove « nessuno si rassegna più alla propria condizione », dove « l'autorità religiosa e quella del pater familias diminuisce ogni giorno », dove « la filosofia è morta»; di un mondo guidato « da gente mediocre» perché « la societ~ ha bisogno di uomini di modesta levatura che sappiano 13

Girolamo Cotroneo fare un mestiere e basta »; e tante altre analoghe affermazioni s1 potrebbero riportare ove ne valesse ancora la pena. Come sempre, il generico ha finito con il prevalere: nessuno, ad esempio si è chiesto se la responsabilità non andasse anche al fatto che gli intellettuali italiani in questi ultimi anni hanno oscillato fra la « feltrinellizzazione » e la « rusconizzazione », fra funerale e carnevale, come ha scritto tempo addietro Raffaello Franchini; quale grado di attendibilità presentino le idee di Augusto Del Noce che da posizioni di cattolicesimo liberale si trova oggi sulle linee della « restaurazione culturale » di Armando Plebe e compagni (o camerati) e che adesso invita a leggere la storia non più secondo « i vecchi modelli liberal-crociani, radical-azionisti, comunisti o via dicendo » e a ristudiare per altra via fenomeni « come il fascismo e il nazismo » che non sarebbe legittimo qualificare barbarie e basta (come li dovremmo qualificare, allora?); o ancora di filosofi come Spirito la cui parabola culturale non è certo fra le più esemplari e che oggi definisce l'antifascismo « il proseguimento peggiore dell'ultimo fascismo ». Ma che cosa ha portato gli intellettuali italiani a imboccare il vicolo cieco di là del quale vi sono soltanto l'ultragiacobinismo o il più gretto conservatorismo? A nostro avviso la risposta va trovata nel concetto che della cultura si è avuto in questi ultimi anni, quando essa è stata confusa con l'impegno politico immediato (del quale la cultura, pur essendo «politica», è qualcosa di qualitativamente diverso). Ci si è lasciati, inso1nma, convincere che un discorso culturale per essere valido dovesse possedere una efficacia immediata, essere un oggetto da utilizzare subito. Oltre questo, si è creduto di potere misurare i] lavoro culturale con il discutibile metro del contenuto « progressista » (aggravato dal fatto che in Italia, dalla fine della guerra a oggi si è creduto e si continua a credere che il « progressismo » coincida con il marxismo, e basta). Era chiaro che una volta o l'altra quest'arma dovesse scoppiare fra le mani di chi l'adoperava in maniera così incauta. La validità di un pensiero, di un momento culturale, non consiste nel suo essere subito utilizzabile, né la sua carica progressista .può essere misurata con il metro dei canoni in voga nel tempo: f>ensatori come Vico o come Kierkegaard, non solo non dissero nulla che rispecchiasse le tendenze del loro tempo, ché anzi furono addirittura sordi alle istanze che esso proponeva; la carica progressiva contenuta nelle loro opere fu recepita addirittura secoli dopo. Con 14

L'inverno degli intellettuali i criteri usati nel nostro tempo, il canone di giudizio è diventato « politico » nel senso più angusto del termine: per questo ci si è trovati di fronte a quel terrorismo culturale che ha finito con il provocare la letteratura, la psicologia, la sociologia, la filosofia di consumo. Si spiegano allora le fughe in avanti, che, a un certo punto, si sono trasformate in fughe all'indietro: infatti ciò che l'inchiesta di Grazzini maggiormente significa è il tramonto di quella « speranza nella rivoluzione » che aveva tanto lusingato gli intellettuali di certa sinistra (si pensino, ad esempio, le dichiarazioni che oggi fa Franco Fortini, per il quale « non resta ormai che la testimonianza ·individuale », la necessità di « aiutarsi da soli, non più fuggendo come Enea da una Troia in fiamme e portandosi dietro le cose più care, ma restando a cercare fra le macerie dei villaggi distrutti qualcosa da mettere in salvo. Bisogna tornare a studiare seriamente le possibilità che, così com'è, la società può offrirci »; parole che, se pronunziate qualche anno addietro, da chi non militava nelle file dell'ultra sinistra, avrebbero fatto gridare al reazionario e al fascista). Così, sul pennone della nostra cultura è tornata a sventolare la bandiera bianca: la innalzano i progressisti, che non credono più nell'imminente rivoluzione e si trincerano - come Fortini - dietro i tempi lunghi; la innalzano i conservatori che vedono la nostra come un'-epoca di « male radicale», o pensano - come Spirito - che il mondo andrà avanti da sé. Può darsi che la situazione attuale si presti a questo genere di considerazioni: ma occorre tenere presente due cose. Prima, che questa situazione non si è generata da sola, ma è stata voluta da quanti « incendiavano Troia » e riducevano « in macerie i villaggi », con l'idea, alquanto peregrina, di dare vita a un nuovo mondo (senza capire la tensione dialettica esistente fra il « vecchio » e il « nuovo » ), sia da quanti, di fronte a questo fenomeno, programmavano un'astratta« restaurazione culturale » (senza capire che questa avrebbe dovuto passare attraverso una precisa restaurazione poli~ica di tipo parafascista), fuggendo nel passato. La seconda considerazione è quella che, fallite queste due operazioni, non basta costatarne il fallimento, ma occorre riprendere il cammino. Non sarà certo il lamento di alcuni illustri personaggi a fermarlo: il mondo, diceva Vico, « è giovane ancora ». · GIROLAMO COTRONEO 15

Oneri sociali e Mezzogiorno . di Sandro Petriccione >iNotava John Kenneth Galbraith che il fenomeno dell'inflazione è stato la conseguenza di guerre, di disordini civili e di altre calamità e situazioni del genere, ma che da qualche tempo - diversamente che nel passato - si manifesta anche in lunghi periodi di pace e persino di generale prosperità 1 • È questa una tendenza oramai evidente in tutti i paesi a « economia di mercato », dove si registra una costante tensione di tutti i prezzi. Il costo della vita segna un notevole, continuo, movimento al rialzo; e l'opinione pubblica, soprattutto quella gran parte di essa che è rappresentata dai percettori di redditi fissi e di basse remunerazioni, dà chiari segni di preoccupazione e di irrequietudine. Anche la nostra economia è caratterizzata da questo fenomeno, e, di conseguenza, pure in Italia il problema della stabilità monetaria è all'ordine del giorno. Si è detto che l'aumento dei prezzi colpisce numerose categorie di cittadini. Inoltre, un paese i cui prezzi potrebbero lievitare più rapidamente di quelli dei_paesi suoi concorrenti, rischierebbe la diminuzione delle sue esportazioni e alla lunga (fatto ben più grave) il deficit della bilancia dei pagamenti. Tuttavia la situazione italiana è, al riguardo, alquanto particolare a confronto di quella di altri paesi a struttura industriale più organica e consolidata, e perciò da noi si impongono - accanto alle tradizionali manovre monetarie e fiscali - azioni nuove che siano in grado di incidere alla radice del processo inflazionistico. Problemi di periodo breve e problemi strutturali si trovano congiunti nelle vicende di un'eco- ,., Queste note corrispondono - con alcune modifiche e correzioni - al testo dell'intervento al Convegno Nazionale di Studi del P.S.D.I. sul tema « Una politica contro l'inflazione per lo sviluppo nella stabilità», tenutosi a Milano nei giorni 19-20 gennaio 1973. Più che un lavoro compiuto (com'è del resto evidente), esse. vorrebbero essere una proposta articolata di lavoro da compiere: un modo di aprire un discorso, quanto è necessario per provocare un dibattito peraltro già apertosi con gli articoli di Sylos Labini, Spaventa e Leon sul « Giorno ». 1 GALBRAITH, The Affluent Society, t. it., Milano, 1959, pag. 241. 16

Oneri sociali e Mezzogiorno I nomia come l'italiana: da una parte, le scadenze costituite dall'attuazione di indilazionabili riforme e, dall'altra, i problemi di controllo immediato di un'economia aperta al commercio mondiale. Questi ultimi problemi si intrecciano, dunque, a quelli di lunga scadenza, ma non è chi non veda (insegnino le esperienze dell'ultimo decennio) che unicamente sulla strada della corretta e tempestiva impostazione dei problemi di lungo periodo e possibile il raggiungimento di un reale e duraturo equilibrio fra la domanda e l'offerta globale delle risorse delle quali dispone e potrà disporre il nostro paese. È-dimostrato da numerosi e attendibili studi 2 che in Italia l'aumento del livello generale dei prezzi non è dovuto a un eccesso di domanda interna rispetto all'offerta. Spesso esso è dovuto a un rincaro dei costi di produzione, che può consistere in un aumento del costo delle materie prime (prezzi internazionali) e del lavoro. Ma più di frequente è l'aumento dei prezzi in alcuni settori - per es.: il settore dell'edilizia - che provoca una tensione, anche indiretta, dei prezzi in tutto il sistema. Per quanto attiene a quest'ultima causa, due fenomeni sembrano a nostro avviso rilevanti per. l'Italia: a) un grave squilibrio strutturale dell'offerta globale rispetto alla domanda globale, nel quale giuocano anche cospicui elementi di rendita; b) l'aumento dei margini nella fase della intermediazione distributiva. Non siamo in grado di precisare esattamente in quale misura la redistribuzione del reddito nazionale a favore dei salari, che è stata notevole (incrementi dell'ordine del 23% all'anno dal 1969), abbia agito sui prezzi, ma non pare dubbio che essa - soprattutto a causa dell'indebolimento dell'effetto calmieratore della concorrenza estera, in quanto i prezzi esterni sono saliti più dei nostri - abbia giuocato un ruolo tutt'"altro che trascurabile 3 • È comunque sicuro che la redistribuzione del reddito nazionale a favore dei salari ha avuto importanti conseguenze sull'anzidetto squilibrio fra domanda e offerta globale, e, in particolare, nella situazione economica meridionale. Questa circostanza fornisce il presupposto dal 2 Cfr. il « Rapporto del gruppo di studio sui ,problemi di analisi economica e di politica economica a breve termine» compiuto presso l'ISCO dagli economisti Izzo, Pedone, Spaventa e Volpi per conto del Ministero del Bilancio. Cfr. anchl! BOGNETTI,CAMPAed altri economisti,. Lezioni di poJitica economica in Italia, Milano, 1972, e A. GRAZIANI, Un decennio di attesa, in « Nord e Sud», gennaio 1970. 3 Cfr. BOGNEITI,CAMPAed altri economisti, Op. cit., pag. 18 e segg. 17 -

Sandro Petriccione quale partire per una riconsiderazione del problema meridionale . nel contesto dell'attuale fase di sviluppo dell'economia nazionale. L'aumento dei costi del lavoro generalizzato a tutto il sistema dà origine a una maggiore disponibilità di forza lavoro nel Mezzogiorno, la quale però non favorisce, nella presente situazione, ma anzi ostacola, la politica di pieno impiego delle risorse produttive, e, in primo luogo, della forza di lavoro. Questa affermazione, apparentemente paradossale, è al contrario legata a fatti che ognuno può rilevare. ·Già gli avvenimenti economici dei primi anni del sessanta sono sintomatici al riguardo. Il processo inflazionistico che si andava allora manifestando mostrava che si erano esaurite le riserve più flessibili e più appropriabili di forza lavoro e che da allora in poi le risorse per l'ulteriore espansione si sarebbero dovute cercare in un'opera di effettiva razionalizzazione dell'economia: miglior us::> del territorio e delle sue strutture per comprimere diseconomie e utilizzare adeguatamente - senza fughe e impieghi distorti - mano d'opera con limitata o scarsa mobilità; uso programmato della istruzione professionale per porsi in grado di fronteggiare gli sviluppi del mercato del lavoro; razionalizzazione di settori a bassa produttività (agricoltura, commercio, ecc.) sia per il controllo delle spinte inflazionistiche che ne derivano e sia per rendere disponibili i lavoratori da impiegare nel settore industriale. Ma gli avvenimenti successivi, in particolare quelli degli anni dal 1969 in poi, stanno a dimostrare che la razionalizzazione non è venuta: l'economia italiana - simile a un'economia neomercantilistica - ha continuato a svolgersi secondo i tradizionali automatismi di mercato, in form:! e modi disarticolati rispetto all'obiettivo dell'equilibrio dell'offerta e della domanda globale. Gli stessi interventi pubblici - tutt'altro che insignificanti, come diremo meglio in seguito - hanno risentito negativamente di tale situazione. Ciò ha provocato, in una realtà inflazionistica aggravata dall'insorgere di tendenze restrittive o defiazionistiche ( com'è fatale quando prevalgono gli automatismi del mercato), forti tensioni della dinamica salariale e conflittuale, cui è dovuto principalmente l'aumento del costo del lavoro generalizzato all'intero sistema e non sempre contenuto entro i margini della pro~uttività. Si narrerebbe una storia risaputa se ci soffermassimo a parlare · degli effetti che questo tipo di sviluppo ha avuto nel sistema economico e delle difficoltà che ha creato alla stessa classe imprendi18

Oneri sociali e Mezzogiorno toriale italiana. Basti dire che l'accumulazione intensiva indiscriminata (perché è di ciò che si tratta in definitiva) che nell'ultimo decennio ha contraddistinto lo sviluppo del nostro paese, ed i fenomeni ad essa legati e interrelati (aumento dei costi della. congestione urbana, scolarizzazione di massa, aumento vertiginoso dei canoni di locazione, ecc.: in altri termini la progressiva erosione del salario reale), hanno finito, da un lato, per provocare un sostanziale mutamento in senso selettivo della domanda di lavoro da parte del settore industriale, e, dall'altro un sensibile disincentivo all'ulteriore occupazione di lavoratori, anche di quelli che sarebbero in possesso dei requisiti richiesti dall'industria. Siamo, dunque, in presenza di un arresto del flusso di lavoro. Una notevole quantità di esso, respinto dal settore moderno e dalle aree urbane, va a ingrossare il cosiddetto mercato del « lavoro marginale», costituito dalle innumerevoli forme della sottoccupazione e del lavoro invisibile: lavoro a domicilio, a part-tinie, in subappalto, ecc., che trova in tale mercato le condizioni di sopravvivenza e di riproduzione 4 • Questo .fenomeno assume speciale significato in relazione al Mezzogiorno, perché è al Sud - dove si originano circa i due terzi del1' offerta nazionale di lavoro - che il peculiare andamento dell'accumulazione intensiva indiscriminata ha generato ampie riserve di lavoro congelate in settori o zone a bassa produttività o in quelle fasce di popolazione che non figurano nelle forze di lavoro perché l'industria non riesce a utilizzarle e l'agricoltura non è in grado di assorbirle 5 • In conclusione: l'aumento generalizzato dei costi del lavoro non è il segno favorevole di un allargamento o di una diffusione - anche qualitativa - del mercato del lavoro (come a prima vista si potrebbe esser tratti a credere), ma è invece il sintomo inequivocabile di un suo processo involutivo o degenerativo, che agisce come un potente ostacolo all'espansione dell'occupazione nelle aree sottosviluppate. Le riserve di lavoro (disoccupato, sottoccupato e precariamente occupato), insieme al congestionamento ora anche dei centri urbani meridionali, ripropongono con urgenza il grave problema di uno sviluppo economico più equilibrato e finalizzato alla piena occupazione delle forze produttive del paese. 4 Cfr. il « VI Rapporto sulla situazione sociale del paese» redatto dal CENSIS nell'autunno 1972 su commissione del Cnel; e, inoltre, M. PACI, Le condizioni del mercato del lavoro, in rivista « Inchiesta » primavera 1972) e le fonti ivi indkate. s Cfr. L. MaooLESI, Disoccupazione: e esercito industriale di riserva. 19 ,,.

Sandro Petriccione La teoria e la prassi economica da Keynes a Robinson e Myrdal hanno dimostrato ad abundatiam che concentrarsi sui semplici aspetti quantitativi dello sviluppo, trascurando le componenti qualitative, settoriali e territoriali, di esso, distoglie la riflessione dall'allocazione delle risorse, fa apparire trascurabili o secondari gli obiettivi pubblici dello sviluppo. Se il Mezzogiorno è purtroppo ancora una volta al centro del1' attenzione del paese ciò avviene oltre che per un riconoscimento retorico della sua centralità nella politica economica italiana, per il fatto che è proprio da quella area che partono gli impulsi principali di squilibrio e di tensione economica in cui versa il paese. È pertanto intorno alla problematica di sviluppo del Sud che è necessario nuovamente riflettere. Un approccio realistico alla problematica meridionalistica non può prescindere dall'utilizzazione degli strumenti disponibili e in primo luogo della nuova legge di finanziamento della « Cassa per il Mezzogiorno» (legge 6 ottobre 1971, n. 853) e della introduzione di strumenti operativi che abbiano efficacia strutturale e congiunturale. Questa legge C(?ntiene molti aspetti positivi, ma anche lati . oscuri che potrebbero indurre a facili fraintendimenti. Già nel primo periodo di applicazione, i suoi princìpi ispiratori sono stati intesi alla maniera tradizionale: una grande quantità di risorse messe a disposizione dalla « Cassa » è andata a finanziare un vasto piano di completamento secondo la logica degli interventi in opere pubbliche, le quali, com'è risaputo, hanno nel passato caratterizzato l'attività della « Cassa ». La stessa politica di incentivi industriali non ha subìto apprezzabili trasformazioni - neppure a livello legislativo - e continua a sussistere il pericolo, in qualche caso già verificatosi, di incentivare industrie ad alta intensività di capitale piuttosto che di mano d'opera. Vi è stato anche il pericolo che l'istituto di intervento costituito dai progetti speciali venisse attuato in forme tali da non differenziarsi dalla spesa in singole opere pubbliche. Le inter-. pretazioni restrittive della legge sono state combattute a fondo, e si sono registrati alcuni successi. Sono chiare le ragioni che inducono a surrogare la spesa per singole opere pubbliche con quella per progetti: questi condurrebbero ·a una spesa pubblica economicamente e socialmente utile attraverso la precisazione del nesso tra obiettivi della politica economica e strumenti - nel settore delle infrastrutture o delle attività 20

Oneri sociali e Mezzogiorno produttive - atti al loro conseguimento. Ma le ragioni addotte sono a volte oscure! Persino un documento come il Piano Giolitti condivideva una certa dose di scetticismo verso i progetti speciali, addirittura a livello nazionale: in quella sede i progetti nascondevano una carenza di strategia economica nel lungo periodo e si finiva per effettuare il recupero di tale strategia soltanto nel calcolo della compatibilità delle spese. Non a caso in Italia la politica economica ha avuto sempre una forte predilezione a concentrarsi sui problemi di compatibilità invece che su quelli concernenti la strategia. Questa insufficienza ha indotto alcuni a trovare rifugio in soluzioni istituzionali: per esempio, c'è chi ha sostenuto l'eliminazione del complesso di interventi della « Cassa » e l'affidamento delle risorse interamente alle Regioni, forse nella speranza che dal conflitto di interessi tra Stato e Regioni si creassero le condizioni per uno sviluppo autonomo di almeno qualche area meridionale. Tale schema prescinde dal fatto che, se si vuole che operi un meccanismo riequilibratore della formazione di capitale, esso non può essere di natura esclusivamente finanziaria, ma si fonda sull'esistenza di un ammontare di capacità tecnico-organizzativa, particolarmente scarsa nelle regioni meridionali. Bisogna invece sottolineare, come più volte affermato da Saraceno e da Pescatore, che la strumentazione che è nelle leggi per il Mezzogiorno non può da sola costituire il fondamento di una strategia di sviluppo nel Mezzogiorno. Questa strategia è tuttora oggetto di analisi, ed è dall'analisi che bisogna derivare il quadro complessivo entro cui indirizzare la strumentazione d'intervento. È possibile, tuttavia, tratteggiare rapidamente le linee di fondo di tale analisi. Si può partire facendo accenno ad alcuni punti fermi che, sia nel pensiero meridionalistico, sia nella pratica, appaiono ormai acquisiti. Si osserva, in primo luogo, che il mancato sviluppo meridionale non dipende dagli strumenti dell'intervento straordinario o almeno non ne dipende in modo decisivo. È vero - lo si è riconosciuto innumerevoli volte - che gli incentivi all'industrializzazione hanno privilegiato il fattore capitale ai danni del fattore lavoro. Ma questo non è che il loro effetto nella struttura dell'economia. Come spinta alla imprenditorialità meridionale avrebbero potuto invece funzionare: per l'imprenditore meridionale il carattere degli incentivi non era diverso da quello per l'imprenditore settentrionale· e il primo avrebbe, astrattamente, potuto sfruttarli allo 21

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==