Nord e Sud - anno XIX - n. 156 - dicembre 1972

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Ugo Leone, Quale sviluppo? - Mario Pacelli, Luci ed ombre della « riforma per la casa » - Francesco Compagna, Mezzogiorno e partecipazioni statali - Giovanni Russo, Ricordo di Flaiano - Italo Talia, L'occupazione industriale tra i due censimenti e scritti di Maria Chiara Acciarini, Vittorio Barbati, Mario Canino, Giulio Caterina, Tullio D' Aponte, Francesco De Angelis, Francesco Lucarelli, Luigi Mendia, Fabio Narcisi, Lanfranco Orsini, Simonetta Piccone Stella. ANNO XIX - NUOVA SERIE - DICEMBRE 1972 - N. 156 (217) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI

Li r rie ... - e, BOLOGNA Libreria Feltrinelli P.zza Ravegnana, 1 Libreria Novissima Via Castiglione, 1 Libreria Parolini Via U. Bassi, 14 CATANIA Libreria Castorìna Via Etnea, 67 Libreria La Cultura P.zza Vitt. Emanuele, 9 CORIGLIANO CALABRO Edicola Francesco Cosantino FIRENZE Libreria Rinascita Via L. Alamanni, 41 Libreria Marzocco Via de' Martelli, 22 r Libreria degli Alfani Via degli Alfani, 84/% r Libreria Feltrinelli Via Cavour, 12 LATINA Libreria Raimondo Via Eug. di Savoia, 6/10 e . .., r I MILANO u a .. I Libreria Francesco Fiorati P.le Baracca, 10 Libreria Sapere Via Mulino delle Armi, 12 Libreria Internazionale Einaudi Via Manzoni, 40 Libreria Popolare C.so Como, 6 Libreria Feltrinelli Via Manzoni, 12 MODENA Libreria Rinascita P.zza Matteotti, 20-21 NAPOLI Libreria Fausto Fiorentino Calata Trirntà Maggiore Libreria Leonardo Via Giovari..ni Merliani, 118 Libreria Deperro Via dei Mille, 17/19 Libreria A. Guida & Figlio Via Port'Alba, 20/21 Libreria Fiorillo Via Costantinopoli, 76 Libreria Treves Via Roma, 249 Libre1ia Guida Mario P.zza dei Martiri, 70 Libreria Macchiarolì Via Carducci, 57/59 Libreria Minerva Via Ponte di Tappia, 5 PALERMO Libreria Domino Via Roma, 226 Libreria S. F. Flaccovio Via R. Settimo, 37 PARMA Libreria Feltrinelli Via della Repubblica, 2 ROMA Ildefonso De Miranda Via Crescenzio, 38 (agente per il Lazio) SIENA Libreria Bassi Via di Città, 6/8 TORINO Libreria Punto Rosso Via Amendola, 5/D TRIESTE Libreria Eugenio Parovel P.zza Borsa, 15 VERONA Libreria Scipione Maffei Galleria Pellicciai, 12 VIAREGGIO Libreria Galleria del Libro V.le Margherita, 33

Nord e Sud augura ai suoi lettori un buon 'N._atale d un felice r:A.nnonuovo 1·- - - - - - - - - - - - - - - -- -- -- ·- - - - I I Spett. E.S.I. □ Vi prego di mettere in corso i miei abbonamenti-dono per il 1973 alla rivis1 « Norid e Sud» a favore dei seguenti nominativi (stampate1lo): ····························································•································································································································ □ Colgo quest'occasione per Nome cognome e indirizzo (stampatello) rinnovare □ --50 -t-to-s-cn-·v-e-rè--□- il mio abbonamento personal Pagherò (L. 5000 per un abbonamento oppure L. 9.000 per due abbonarnent L. 12.000 per tre e per ogni abbonamento oltre i tre L. 4.000). □ a ricezione della vostra fattura □ contro assegno dell'intero importo, a ricezione del fascicolo di gennaio ru mio abbonamen,to personale. , ...................... , !Affrancatura Q) :carico del d s... ..... :~tinatario, ~ ( .addebitarsi s :c. di cr. n. 4 :ufficio Napc Q) .. :C. P. Autori2 ~ o :rnr. prov. Na +-' ... s:::: .. o :3258096 L. 6-6- ..... f-c (1.) ...... ... .. ........ ~ El ~ ro ..... bi) Q) o ro s ~ A o ..... . .... ~ ...... 'O bi) ~ o ~ ro u ~ E CO ~ V) o """' .... , ... (1.) ro +-' E s:::: H ;j Spett.le E.S. ~ (1.) +-I '-3 So +-I .,.. ro " ;:. """' ~ Q) ~ ~ c,J (1.) o .... - ..... ro o i:: Via Chiatamone, ..... ~ ...... g .9 ~ U,l e o (1.) N +-I V) Q) 80121 NAPOI CO ...... u ~ ~ (1.) ~ ·e o ...... u N ..... ~ c,J ....._ N - ~ u ro Q) ·e (1j 5 .... Q) o □□ s ;a ] \!) ::::. ..... ~ o e A l':l o ...... u

GUTTUSO DISEGNI 1938/1972 Edizione. con litografia: Prezzo L. 350.000; in prenotazione L. 300.000. Edizione normale: Prezzo L. 250.000 in prenotazione L. 200.000. LA GALLERIA DELL'ACCADEMIA DI BELLE ARTI IN NAPOLI Prezzo: L. 35.000 NORMAN DOUGLAS LA TERRA DELLE SIRENE Prezzo: L. 12.000 ATANASIO MOZZILLO CRONACHE DELLA CALABRIA IN GUERRA 1806/1811 Prezzo: L. 40.000 CARTOGRAFIA GENERALE DEL MEZZOGIORNO E DELLA SICILIA Prezzo: L. 80.000 LUDOVICO BIANCHINI STORIA ECONOMICO-CIVILE DI SICILIA Prezzo: L. 30.000 GIUSEPPE GALASSO NAPOLI SPAGNOLA DOPO MASANIELLO Prezzo: L. 30.000 GIANNI NICOLETTI ARTHUR RIMBAUD Prezzo: L. 4.000 CORRADO ROSSO IL SERPENTE E LA SIRENA Prezzo: L. 5.400 RAFFAELE GUARIGLIA AMBASCIATA IN SPAGNA Prezzo: L. 4.000 l\LBERTO SERVIDIO IL NODO MERIDIONALE Prezzo: L. 5.000 EPICARMO CORBINO RACCONTO DI UNA VITA Prezzo: L. 4.500 < -· ~ (j ::r -· ~ ..,. ~ 3 o = ~ '-I 00 o ~ N ~ z > ~ o ~ ~ (J"J t'D ...,. ...,. o .., t'D ..., n, .., .... o Q.. (') tT'.J O- ,... N .... o ~ .... cn n .... n = f""1" -· ....., .... n =- n ~ ...,. ~ ~ ,_. ~ ::: (D (J"J "'O > . > ql ~§ ~ .... o~ i: ~ a- n e n> = c.. t'D c. o ::s - Q.. ~ n, f') o.. o -· 3 3 n ~ o f;- 3 f;- 3 -· :;-: CA r:r V') .., -· ~. o ~.= t'D (D I r:r e:: - (') -· o- a- ~ .., N ~ ~ .., ...,. -· ~ ~

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XIX - DICEMBRE 1972 - N. 156 (217) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestraie L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretra- . ta L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiarte - Via Chiatamone 7, Napoli

SOMMARIO Editoriale [3 J Ugo Leone Quale sviluppo? [5] Mario Pacelli Luci ed onibre della « riforrna per la casa » [ 12] Cronache parlamentari Francesco Compagna J\1ezzogiorno e partecipazioni statali [21] Giulio Caterina Lanfranco Orsini Giovanni Russo Italo Talia Giornale a più voci La piccola industria [31] Da Mastriani a Viviani [36] Ricordo di Flaiano [38] L'occupazione industriale tra i due censin1en ti [ 40] Frontiere Vittorio Barbati La strategia del riavvicinan1ento [ 45] Argomenti Fabio Narcisi I nostri mari [58] Tullio D'Aponte Il gas naturale nell'Europa occidentale [71] Francesco Lucarelli Silnonetta Piccone Stella Opinioni e dissensi La legislazione sui fondi rustici [ 84 J Nu111eri e mobilità di classe [95] Cronache e Memorie Maria Chiara Acciarini Il capitale americano in Italia, l'« Avanti! » e « L'Unità » [ 101 J Documenti Luigi Mendia La lotta per la protezione anibientale [ 118] Mario Canino Francesco De Angelis Lettere al Direttore La politica territoriale degli incentivi [ 123 J Ancora su Facta [ 127]

Editoriale La domanda che bisogna porsi all'indo1nani del voto elettorale del 26 novembre è fino a che punto il risultato di queste elezioni amministrative, che hanno visto impegnati quasi quattro milioni di elettori, sia rappresentativo dello stato d'anùno del Paese a circa un anno dalla fine dei governi di centro-sinistra, e possa quindi fornire indicazioni valide su quello che s'arà lo svolgersi della vita politica nazionale nei prossimi anni. Senza dubbio sarebbe un errore valutare questo risultato in termini di rafforzamento di questo o quello schieramento: di rafforzamento del governo Andreotti, o della prospettiva di un nuovo centro-sinistra. Queste valutazioni non debbono certo scaturire dal risultato di una parziale consultazione amniinistrativa, nia da un serrato dibattito tra le forze politiche attorno ai contenuti per una ten1pestiva azione di governo che sia in grado di portare il Paese fuori dalla crisi. Fatta questa premessa, i risultati elettorali qualche indicazione la forniscono, e non si tratta di cosa da poco. Innanzitutto se si tiene conto del fatto che il settanta per cento circa degli elettori appartenevano a comuni del Mezzogiorno, e che del test elettorale faceva parte anche Trieste, tradizionale roccaforte dei neofascisti, la -flessione della destra nazionale nei confronti dei risultati delle ultime politiche, assume proporzioni ancor più rilevanti di quanto le cifre stesse non dicano. Al pari il risultato dei coniunisti: se è vero infatti che nelle elezioni amministrative tradizionalmente il PCI perde dei punti rispetto alle politiche, per ragioni che è qui inutile ripetere, è altresì vero che questa volta non figurava il PSIUP come non figurava il Manifesto e le altre liste minori della sinistra extraparlanientare, e di questo i comunisti non sono riusciti ad avvantaggiarsi. È evidente che se la maggior parte dei dirigenti del PSIUP sono passati al PCI, la n1aggior parte della base elettorale di questo partito è rientrata nel PSI. La DC ha perso qualcosa di cui si sono avvantaggiati i partiti della sinistra democratica, n1a sostanzialmente le sue perdite sono irrisorie per cui sbaglierebbero coloro che da questa diminuzione volessero ricavarne un'indicazione di indebolimento del governo di centro. Coloro che vogliono vedere nel risultato elettorale la sconfitta del governo Andreotti trovano maggior appiglio nel deludente risultato del Partito Liberale. I libe_ralinon sono riusciti ad andare più in là del 2,7 3

Editoriale per cento, nonostante che il fatto nuovo di questo inizio di legislatura sia stato il loro ritorno nella compagine di governo. Recentemente l'on. La Malfa osservava che i liberali da pessimisti che erano durante la campagna elettorale della primavera scorsa, d'un tratto erano diventati ottimisti dopo essere andati al governo. Ancora una volta si nota quanto sia errato voler vedere i problemi politici del Paese esclusivamente in termini di schieramento: l'atteggiamento dei liberali in questo ha avuto una straordinaria analogia con l'atteggiamento dei socialisti. I risultati del 7 maggio e del 26 noven1bre, dovrebbero dimostrate ad entrambi che il proble1na non è quello di escludere l'uno o l'altro partito dalla coalizione di governo, quanto quello di essere in grado di confrontarsi con la realtà dei problemi che affliggono il Paese. Fino ad oggi né il PSI (a questo proposito il congresso di Genova è particolarmente indicativo) né il PLI ( la sua ca1npagna elettorale lo ha dimostrato) sono stati in grado di farlo. Veniamo ora a spiegare l'indubbio successo elettorale del PSI: abbiamo parlato di acquisizione della base elettorale del PSIUP, ma sarebbe un errore limitarsi a questa sola valutazionè. Bisogna anche sottolineare che il PSI ha guadagnato voti dopo un congresso che ha visto Da Martino allearsi con Nenni resistendo alle pressioni del cartello delle sinistre capeggiato da Bertoldi, Lombardi e Mancini. A questo punto non si può tuttavia fare a meno di mc>'-trare preoccupazione per lo stato di stallo in cui versano i socialisti, che non sono ancora riusciti a rendere operativa la maggioranza uscita dal congresso, con la mancata elezione, fino al momento in cui scriviamo, dei Jnassimi organi responsabili del partito. La chimica degli organigrammi e paralizzante! Bisogna ripetere in ogni modo che occorre fare 111oltaattenzione a non voler vedere in questa consultazione amministrativa un'ulteriore occasione per un'ennesima rissa su questo o quello schieramento, tenendo ben presente che i problemi che affliggono il Paese restano gli stessi, e non si risolvono litigando sul significato della perdita o del guadagno di un paio di punti in percentuale. Il settinianale « Il Mondo» osservava che questa volta si è votato in un clima tranquillo e che si è votato senza emotività. La sconfitta delle estreme e anche la diminuzione dei voti sopportata dalla Den1ocrazia Cristiana, nza soprattutto il rafforzamento della sinistra democratica, dimostra un'inversione di tendenza rispetto a quella se1nplificazione e conseguente radicalizzazione della lotta politica che il risultato del 7 n1aggio ci poteva far paventare. Ora occorre soprattutto che siano le forze politiche a profittare di questo clima di minore tensione, per compiere un risoluto sforzo per tirare il Paese fuori dalla crisi. 4

Quale sviluppo? di Ugo Leone Il problema del Mezzogiorno, la cui soluzione avrebbe dovuto vedere la luce negli anni settanta, ha subìto una nuova dilazione: ormai si calcola che il divario tra Nord e Sud non potrà essere colmato prima di cinquant'anni (intorno al 2020) e questo se, nel caso di un tasso di sviluppo annuo del 5 %, « il Sud prendesse un punto di vantaggio nei confronti del resto del Paese ». Si tratta di una previsione che costituisce la presa di coscienza di una gravissima realtà, la quale - per i termini « futuribili » in cui viene proiettata - sconvolge completamente i termini della politica meridionalistica portata avanti dal 1944 ad oggi. Da quando, cioè, allo storico convegno di Bari sui « problemi del Mezzogiorno » (3-4-5 dicembre 1944), si sottolineò « la imperiosa necessità di travolgere la vecchia classe politica del Mezzogiorno accanto all'ormai indilazionabile smantellan1ento dello stato storico, accentrato e soffocatore, in favore di una coalescenza di autonomi comuni e di libere regioni democraticamente organizzate; la più ampia riforma agraria, concepita come organica ricostruzione economico-sociale sulle ceneri dell'attuale sfasciume agricolo latifondistico, disarticolato, primordiale, di quasi tutto il Mezzogiorno d'Italia; l'urgenza dell'industrializzazione di queste regioni, vale a dire la raccolta e la messa a profitto dei capitali e delle energie meridionali nell'interesse del Mezzogiorno ... ». Oggi, ferma restando la validità di molte delle cose dette e fatte in questi trenta anni, ma soprattutto, forse, prescindendo dalle cose sin qui dette e fatte, i termini della questione meridionale cambiano radicalmente. La grossa novità, rispetto alla questione meridionale dei primi anni del '900 era costituita, agli inizi degli anni cinquanta e dopo, dalla presa di coscienza della caduta di qualsiasi tipo di detern1inismo geografico che si opponesse allo sviluppo del Mezzogiorno i, per cause diverse da una più o meno marcata e generica incapacità politica di risolvere i problemi. Ed è perciò che si con1inciò a parlare con sempre maggiore insistenza e concretezza di « nuovi termini » della questione meridionale. 5

Ugo Leone Oggi questi « termini » sono ancora più nuovi; anzi, diversi, perché - soprattutto proiettando così lontano la soluzione del problema meridionale - occorre tener presenti alcuni nuovi, fondamentali elementi sin qui completamente trascurati. Lo spunto per queste considerazioni ci viene offerto dall'ormai famoso studio del M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology) su « I limiti dello sviluppo » 1 • _ In questa sede non vogliamo soffermarci troppo sullo studio e sulle polemiche che esso ha suscitato perché è argomento che merita una nota a parte; vogliamo solo centrare la nostra attenzione su due punti. Gli autori dello studio sottolineano le principali caratteristiche dello sviluppo dell'economia mondiale e affermano testualmente: « 1) nell'ipotesi che l'attuale linea di sviluppo continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l'umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale; 2) è possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica in grado di protrarsi nel futuro. La condizione di equilibrio globale potrebbe essere definita in modo tale che ne risultino soddisfatti i bisogni 1nateriali degli abitanti della Terra e che ognuno abbia le stesse opportunità di realizzare con1piutamente il proprio potenziale umano; 3) se l'umanità opterà per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa co1nincerà a operare in tale direzione ». Le condizioni per rimandare il più lontano possibile l'« incontrollabile declino del livello di popolazione e del sisten1a industriale » sarebbero, dunque, essenzialmente quelle di una società « stazionaria » che riduca al minimo i consumi di risorse e il suo tasso di sviluppo. Che cosa significa questo per i paesi del Terzo mondo in generale e per zone geografiche meno diseredate, ma non meno disperate, come il Mezzogiorno d'Italia, è facile intuire. l\1a è soprattutto su un altro aspetto dello studio del MIT che vogliamo soffermare ora la nostra attenzione: l'analisi delle prin1 / limiti dello sviluppo, rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'Umanità. Biblioteca della EST, Monda dori, Milano 1972. 6

Quale sviluppo? cipali risorse naturali e la valutazione della durata della loro disponibilità. Questo ci pare il problema: quello in grado di condizionare le scelte e le soluzioni di ogni problema e che pone in termini precisi (con l'esigenza di una altrettanto precisa risposta) la domanda: quale sviluppo? Nel nostro caso: quale sviluppo per il Mezzogiorno? La risposta non solo è difficile, ma è anche particolarmente delicata. Rispondere immediatamente che occorre puntare sull'industria significa ribadire - giustamente - quanto si va dicendo da almeno trent'anni. Ma non basta. Rispondere genericamente che bisogna puntare sull'agricoltura e sul turismo è particolarmente pericoloso sia perché la risposta non sarebbe completa, sia perché si tratterebbe di una risposta facilmente strumentalizzabile per fini che risulterebbero decisamente antimeridionalistici da parte di quella destra economica, la quale, con gli stessi malcelati fini, già aveva prospettato questa soluzione da più di venti anni. La risposta corretta, secondo noi, resta quella di uno sviluppo inteso in senso globale; di uno sviluppo, cioè, che punti su tutti e tre i settori economici (prin1ario, secondario e terziario) nel pieno rispetto delle « vocazioni » delle zone geografiche in cui si deve intervenire. Solo che questa risposta - ora più che mai - dev' essere molto articolata. Occorre cioè dire non solo industria, mal quale industria. Occorre dire che agricoltura significa l'estensione dell'irrigazione e la riconversione colturale delle zone in cui si porta l'acqua; significa sistemazione della collina e della montagna e loro riconduzione alla attività agricola propria di queste zone; significa la ristrutturazione del sistema dei mercati dalla produzione al consumo; significa una decisa azione di sostegno del movimento cooperativistico, unica forma possibile, fra l'altro, di ricostruzione fondiaria della troppo spezzettata proprietà contadina. Occorre dire, infine, che il turismo non può costituire un settore seriamente pro- I duttivo se continua ad essere una attività di « rapina » dell'ambiente e che, quindi, è necessaria la più decisa e ferma salvaguardia dei non pochi valori ambientali e paesistici ancora integri nel Mez- 1 zog1orno. Così dicendo, certo, non credia1no di avere scoperto nulla di eccezionale o di aver detto qualcosa di ·particolarmente nuovo. Perciò è bene precisare meglio il nostro pensiero, soffermandoci essenzialmente sul settore, industriale. Quando i prirni meridionalisti seri e convinti, nel secondo dopoguerra, cominciarono a parlare di possibilità di « decollo » indu7

Ugo Leone striale del Mezzogiorno, il discorso giustamente si incentrò su due punti: costruzione delle infrastrutture e sviluppo delle industrie di base. Si disse, cioè, in poche parole, che l'industria non poteva sorgere in zone sprovviste di allaccian1enti energetici ed idrici, di reti fognarie, di strade, di porti ecc. E si disse pure che nel momento in cui si voleva costituire un tessuto industriale, questa azione andava cominciata dalla installazione delle industrie di base, le quali forniscono i prodotti appunto « di base » per la successiva trasformazione delle industrie manifatturiere che avrebbero trovato una evjdente convenienza ad installarsi in zone più o meno vicine ai grossi complessi di cui si diceva prima; non solo, ma, essendo le industrie n1anifatturiere per loro natura « motrici » (si pensi all'industria meccanica), queste avrebbero provocato per « jnduzione » il sorgere di tutta una serie di industrie minori, collaterali, sub-fornitrici delle industrie maggiori o utilizzatrici dei prodotti di queste, contribuendo, così, tutte insieme, al formarsi di un tessuto industriale fitto e diffuso sul territorio. Un « piano » logico e conseguenziale che, però, per motivi che qui non prendiamo in considerazione (sono molte le cose da cui prescindiamo, ce ne rendiamo conto, ma vogliamo arrivare rapidamente al punto) non ha dato - malgrado l'intervento ordinario e straordinario, malgrado la politica degli incentivi creditizi e fiscali - non ha dato, dicevamo, i risultati previsti. È possibile oggi, dopo trenta anni di politica meridionalista e f/ a cinquanta anni dalla ipotizzata soluzione del problema, continuare 7 :-{ su questa strada? La risposta, a nostro avviso, è decisamente negativa. È decisamente negativa perché un minimo di coscienza della realtà in cui viviamo non ci consente di non tener conto di un problema così grave e condizionante come quello dell'esaurimento delle risorse e di certe risorse in particolare. I Il citato rapporto del MIT calcola che con l'attuale tasso di consumo e la durata prevedibile delle risorse attualmente conosciute fra trenta anni nel mondo non vi sarà più goccia di petrolio. Fra trenta anni: venti anni prima della fatidica data che dovrebbe vedere la soluzione del problema meridionale. È un fatto grave perché il petrolio è considerato una con1ponente di notevole importanza nello sviluppo del Mezzogiorno. Non certo perché il Mezzogiorno è diventato la raffineria d'Italia, dal momento che questa è una realtà per tanti versi negativa - come abbiamo più volte ribadito su questa rivista - che dà un contributo ben scarso alla soluzione del problema meridionale sia in ter8

Quale sviluppo? mini di reddito sia in termini di occupazione; ma essenzialmente perché sulla petrolchimica si punta non poco per il decollo industriale del Sud (e per rendersene conto basta dare una lettura ai piani per la chimica primaria e secondaria, al Progetto 80, al documento preliminare per il prossimo piano economico). Ma che cosa potrebbe accadere se, dopo aver investito centinaia di miliardi nell'approntamento di infrastrutture (porti petroliferi, oleodotti, ecc.) e nell'installazione di nuovi impianti, o nell'ampliamento di quelli esistenti, poi, tutto fosse costretto a fermars.i per la mancanza della materia prima, il petrolio, che è alla base di queste lavorazioni? Forse poco o niente in termini cinicamente aziendalistici perché un investimento fatto oggi per gli impianti si ammortizza prima che il petrolio finisca; ma molto, moltissimo, in termini di disoccupazione e di infrastrutture inutilizzabili. E tutto questo senza considerare che, se le riserve petrolifere mondiali si esauriranno fra trenta anni, l'Italia, che è quasi comple_tamente tributaria dall'estero per gli approvvigionamenti di petrolio, vedrà finire molto prima la possibilità di avvalersi di questa risorsa che diventerà sempre più preziosa col passare degli anni (si pensi che gli Sta ti Uni ti che posseggono grosse riserve di petrolio non solo ne importano per non intaccare tali riserve, ma addirittura «immagazzinano» una parte delle importazioni pompandole nei pozzi esauriti). È un esempio, il più significativo, che merita un approfondimento molto più serio del nostro per le notevoli implicazioni che può presentare se il fenomeno si manifesta veramente nei termini che abbiamo descritto e che sta là come una spada di Damocle sullo sviluppo del Mezzogiorno. Se il petrolio « finisce », non è solo l'industria petrolchimica ad esserne toccata, n1a anche l'industria energetica (le centrali termoelettriche) e l'industria automobilistica tanto per citare gli esempi maggiori. Ora sia per l'uno che per l'altro settore le soluzioni sono tecnicamente possibili e in fase di « approntamento » (si pensi alle centrali elettronucleari e alle automobili elettriche). Là dove il discorso si fa partjcolarmente delicato è per tutte quelle industrie che solo dal petrolio possono essere alimentate. Occorre, dunque, fare delle scelte perché, se è vero che fra una trentina d'anni non potremo più disporre di petrolio, è anche vero che, « dosando » e pianificando i consumi, le riserve possono durare molto, ma molto di più. Ciò vuol dire che l'energia elettrica dovrà essere in percentuale 9

Ugo Leone crescente fornita da centrali elettronucleari e sempre meno da que1le termoelettriche; che l'industria auton1obilistica deve puntare sempre più decisamente sull'auto elettrica; ·che essendo quest'ultima (almeno per ora) un'auto prettan1ente da città, a causa della bassa velocità di crociera e della limitata autonomia di movimento, la stessa politica dei trasporti su terraferma va ripensata e riconsiderata; che ai contenitori in plastica e ai giocattoli della stessa materia (facciamo solo degli esempi) si possono riaffiancare i barattoli di vetro e i « balocchi » di legno; che dalle fibre artificiali bisogna gradualmente ritornare a quelle naturali. Con ciò non solo si allunga la vita delle risorse di petrolio, ma si creano anche interessanti jmplicazioni in altri settori. Ad esempio: che cosa significa un rilancio dell'industria tessile tradizionale, poniamo della lana? Significa un incremento della pastorizia; incremento che non può procedere se non di pari passo - anzi dopo (e perciò di stimolo) - alla sistemazione della collina e della montagna; collina e montagna che non solo trarrebbero vantaggio dall'essere finalmente ricondotte alla loro naturale vocazione, ma potrebbero vedere sviluppato anche l'unico tipo di attività industriale (di piccole dimensioni naturalmente) che può trovare sede in collina e montagna, quella lattiero-casearia, dal momento che la pecora non dà solo lana, ma anche latte ed, eventualmente, carne. Le in1plicazioni, come si vede, sono notevoli e ci pare anche interessanti. Abbiamo sempre voluto sottolineare, quando tocchiamo certi argomenti, che rifuggiamo decisamente dal ritorno al mito del « buon selvaggio », ma ci pare doveroso - per restare nell'esempio che stiamo portando avanti - fermarsi a considerare se il Mezzogiorno può raggiungere più facilmente e celermente il traguardo che gli si è dato raffinando petrolio, costruendo porti e campi-boe per l'attracco delle superpetroliere, installando oleodotti, costruendo centrali termoelettriche ecc. o non piuttosto ricavando energia elettrica dall'atomo e, quindi, fra l'altro, inquinando molto meno; rimboschendo i suoi « sfasciumi penduli sul mare » e trasformandoli in quella grossa azienda silvo-pastorale invano vagheggiata <la tanti anni; puntando su settori industriali non solo ad elevata capacità di oc.cupazione, ma anche ad avvenire meno ]imitato nel tempo. Questa può essere una risposta alla domanda che ci ponevamo all'inizio. Ma « quale sviluppo? » è una domanda che non si può liquidare in poche pagine e con qualche considerazione più o meno sensata. Noi abbiamo la presunzione di ritenere che su questo tema 10

Quale sviluppo? si giocherà l'avvenire non solo del Mezzogiorno, ma del mondo intero. In questo senso le nostre considerazioni vogliono solo essere provocatorie. La discussione è aperta: più allargata, seria e concreta sarà ( « quale sviluppo? » significa anche « con quali capitali? ») più potremo, in tutta umiltà, aver dato un contributo sostanziale alla revisione necessaria della questione meridionale. UGO LEONE 11

della Luci ed ''riforma otnbre per la di Mario Pacelli casa'' A circa un anno dalla emanazione della legge 22 ottobre 1971, n. 865, recante quelle norme che ormai vengono sinteticamente definite come « riforma per la casa », può forse riuscire di una qualche utilità tracciare un primo bilancio della legge stessa. Ciò appare tanto più necessario, quando si rifletta alle vivacissime polemiche tra i partiti dell'allora Governo di centro ..sinistra cui diede luogo la discussione in Parlamento della legge stessa e che fecero vacillare la maggioranza parlamentare, invero non molto salda, che sorreggeva quel Governo. Nessuna forza politica, né di maggioranza né di minoranza, negava la necessità di emanare nuove norme in materia di edilizia residenziale, data la persistente carenza della disponibilità di una abitazione per i percettori dei redditi meno elevati, malgrado le numerose leggi emanate dal 1949 in poi per la costruzione di abitazioni a totale carico o con il concorso o contributo dello Stato. In realtà tali leggi avevano determina t~ la realizzazione di un cospicuo numero di alloggi di tipo economico e popolare, ma non avevano consentito di addivenire ad una soluzione del problema per un complesso di motivi, tra i quali va indicato anzitutto la frammentarietà degli interventi, non riconducibili ad una organica politica dell'abitazione. Il sistema dei contributi sui mutui alle cooperative edilizie aveva fatto aumentare la percentuale di coloro che abitano in alloggi di loro pr,oprietà, ma aveva lasciato non risolto il problema di coloro che non avevano potuto fruire di quel sistema, sia per la inadeguatezza degli stanziamenti rispetto al fabbisogno sia perché non aventi le disponibilità finanziarie necessarie per affrontare gli oneri che sarebbero venuti su di essi a gravare qualora avessero potuto ottenere i benefici previsti dalle norme in vigore. Nel contempo, non migliori risultati dava l'intervento di enti ed istituti pubblici che avrebbero dovuto realizzare abitazioni da cedere in locazione. 12

Luci ed ombre della « rif ornza per la casa » Stretti nelle pastoie di defatiganti procedure, spesso colpiti da « elefantiasi » - malattia questa invero comune a molti altri enti pubblici nel nostro Paese - con mezzi finanziari assolutamente inadeguati rispetto ai fini che avrebbero dovuto perseguire e che inoltre restavano talvolta non utilizzati per anni, tali enti non potevano dare per l'avvenire alcun serio affidamento per lo svolgimento di una politica dell'abitazione che fosse veramente tale e che corrispondesse alle necessità emergenti nel Paese. Nello stesso tempo la mancata emanazione di una nuova legge urbanistica che valesse, tra l'altro, ad introdurre una diversa metodologia della pianificazione urbanistica e territoriale e ad assumere chiare scelte poli ti che circa il regime dei suoli urbani faceva sì che una cospicua aliquota della spesa pubblica nel settore dell'edilizia econon1ica e popolare dovesse essere destinata all'acquisizione della disponibilità delle aree necessarie, certamente a vantaggio dei rispettivi proprietari ma non delle comunità che ben altri effetti si attendevano dall'intervento pubblico. La legge 18 aprile 1962, n. 167, aveva, d'altra parté, mostrato i suoi limiti intrinseci: ben poco o nessun significato aveva la formazione di demani comunali di aree edificabili quando i Comuni non avevano i mezzi finanziari necessari per la urbanizzazione delle aree espropriate. Le lunghe e defatiganti procedure per la espropriazione dei suoli co1npresi nei piani di zona, la mancata cooperazione tra Comuni ed enti per l'edilizia economica e popolare, i ritardi nella for1nazione ed approvazione dei piani stessi costituivano poi ulteriori remore alla sollecita realizzazione di alloggi economici e popolari, che doveva avvenire neces~ariamente nell'ambito dei piani suddetti. Collegare i problemi dell'abitazione a quelU della utilizzazione del territorio in modo da non ripetere l'esperienza degli anni '50, che aveva visto la costruzione di alloggj economici e popolari in zone prive di servizi, questi sì « cattedrali nel deserto », e pagando nel contempo pesanti pedaggi alla rendita fondaria: tale fu il fine, indubbiamente positivo, che con la legge n. 167 ci si prefiggeva. Essa, però, costituì più la affermazione di un principio che un valido strumento operativo, nella sclerotizzata situazione che si era determinata nel settore dell'edilizia pubblica. Tutti questi problemi ed altri ancora di più limitata importanza esigevano una soluzione che non poteva essere più rinviata data anche la loro incidenza sullo stesso sviluppo economico del Paese. 13

Mario Pacelli Non avrebbe dovuto essere necessario l' « autunno caldo » per rendersi conto che era ed è impossibile difendere contemporaneamente i profitti e i salari da una parte e la rendita fondiaria ed edilizia dall'altra: l'alto livello dei fitti, dovuto anche alla concomitante azione di queste ultime, incidendo profondamente ed in misura crescente nei bilanci delle famiglie, finisce infatti per annullare i vantaggi derivanti per i lavoratori da aumenti salariali e costituisce, anzi, uno degli incentivi per la richiesta di ulteriori aumenti, in una spirale che, una volta messa in moto, è difficile poi arrestare. Sarebbe tuttavia inesatto affermare che la legge n. 865 fu emanata sull'onda delle agitazioni sindacali dell'autunno 1970: essa fu piuttosto il risultato di un lungo ed approfondito dibattito svoltosi in Parlamento e nel Paese sulla politica dell'abitazione e che aveva messo a fuoco i principali problemi da risolvere e le possibili soluzioni da adottare. La dimostrazione di ciò può aversi del resto confrontando la legge n. 865 con gli appunti, che portano la data del giugno 1970, sui lavori svolti dal gruppo per la riforma della legge n. 167 presso la Commissione lavori pubblici della Camera e pubblicati nel documentatissimo volume dell'on. Michele Achilli (che fu uno dei relatori di maggioranza della legge), dall'eloquente titolo: « Casa: vertenza di massa ». Da tale confronto risulta, ad esempio, che talune norme di maggiore rilevanza della legge n. 865, come quelle relative ai criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si uniformarono proprio alle soluzioni indicate, più di due ·anni prima, in quegli « appunti ». La circostanza potrebbe apparire di importanza marginale: è linvece la chiave di volta per comprendere come si è giunti alla « riforma della casa » ed a quello e non altro tipo di riforma. Ed invero, se sull'analisi dei problemi e sulla loro identificazione vi era un vasto consenso tra le forze politiche, non altrettanto può dirsi circa le soluzioni da adottare. A tale proposito infatti si scontravano due opposte concezioni: quella dell'abitazione com.e oggetto di proprietà individuale e quella che la configura invece quale servizio pubblico. _È di tutta evidenza che dall'accoglimento dell'una o dell'altra tesi in contrasto derivavano una serie di conseguenze in ordine alla stessa impostazione della riforma ed alla prefigurazione delle finalità cui essa doveva essere rivolta. Qualora infatti avesse prevalso la prima delle impostazioni ora 14

Luci ed ombre della « riforma per la casa » menzionate, si sarebbe poi dovuto proseguire per la strada fino allora seguita degli stanziamenti per la concessione di contributi sui mutui ad enti o cooperative edilizie giungendo fino a razionalizzare il sistema e ad inserire tali forme di intervento in un contesto di programmazione. Se invece avesse prevalso la tesi secondo la quale l'abitazione è un servizio sociale, tutto il sistema doveva essere scardinato, dovendosi estendere il regime pubblicistico non solo ai suoli, ma anche agli alloggi in essi realizzati con il concorso o contributo dello Stato. Lo scontro, malgrado la sua asprezza, finì anche quella volta oon un compromesso sui punti più qualificanti e di cui mediatore, per delega del Consiglio dei Ministri, fu l'allora Presidente della Commissione lavori pubblici della Camera, on. Baroni. Il conferimento di tale incarico che, a quanto risulta, non aveva precedenti nella storia delle nostre istituzioni, provava due cose: che non si era potuto pervenire ad una decisione univoca sulla questione nell'ambito del Consiglio dei Ministri e che il Governo non era in ogni caso in grado di avere il consenso della Camera non solo sul disegno di legge presentato al Parlamento ma neppure su una soluzione alternativa. Fu quindi in Parlamento, ed in particolare nella Commissione Lavori pubblici della Camera, che la legge prese vita: il disegno di legge governativo costituì solo la base per una discussione protrattasi per molti mesi e nel corso della quale, sia pure in modo informale, la Commissione ebbe incontri con le organizzazioni sindacali ed imprenditoriali, con le rappresentanze delle regioni a statuto speciale ed ordinario, con quelle degli enti ed istituti operanti nel settore edilizio, con gruppi sociali interessati al problema, come le ACLI, l'UDI, le organizzazioni cooperativistiche, e così via. In quella occasione il Parlamento occupò un'area che non solo quel Governo, ma tutti i Governi che si erano succeduti negli ultimi venti anni, avevano lasciata scoperta. Forse le procedure adottate non rientravano nella più stretta ortodossia del procedimento legislativo; è anzi probabile che la strada delle consultazioni informali in Parlamento di enti e di gruppi sociali possa in generale determinare conseguenze più negative che positive in un sistema istituzionale fondato sulla rappresentanza politica e non degli interessi, comunque qualificati. È certo però che, nella situazione che si era allora determinata, quella scelta 15

Mario Pacelli dalla Commissione Lavori Pubblici della Camera era l'unica soluzione per creare una « stanza di compensazione » tra forze contrapposte ed alleggerire la pressione esercitata dalle organizzazioni sindacali, che avevano fatto del problema della casa una delle principali rivendicazioni dell' « autunno caldo ». Ora è chiaro che una legge, nata in un tale clima, acquisiva sempre più chiaramente il senso di una dichiarazione di principi, di una sorta cioè di « Magna Charta » per una politica dell'abitazione che fosse quanto più rispondente alle esigenze del Paese. Le preoccupazioni di carattere eminentemente politico erano destinate, in questo contesto, ad avere la prevalenza su quelle di carattere più strettamente giuridico: la formulazione degli articoli risultava oggetto, come emerge chiaramente dal resoconto dei lavori parlamentari, di un compromesso, spesso faticosamente raggiunto, piuttosto che la conseguenza di un organico disegno. Come emerge chiaran1ente dal già ricordato volume dell'Achilli, il blocco che si realizzò fra tutta la sinistra marxista riuscì a condizionare largamente il contenuto della legge nei suoi punti politicamente più qualificanti, come quello del regime pubblicistico delle aree e della successiva utilizzazione delle abitazioni realizzate con il concorso o contributo dello Stato, ma non ad infrangere le resistenze frapposte, in particolar modo dalla D.C., alla totale ed incondizionata affermazione di quei principi. Analogamente accadde a proposito delle procedure di programmazione degli interventi e degli enti incaricàti di realizzarli. Le due opposte tesi della prevalente competenza, rispettivamente dello Stato e delle regioni, che al momento in cui la legge n. 865 fu discussa avevano da poco iniziato a funzionare, fu risolta con un ulteriore compromesso, onde una frammentazione e sovrapposizione di attribuzioni variamente ritagliate che finivano certamente per dare ragione sia ai regionalisti più accesi che a quelli .... più tiepidi, ma nelle quali invano si ricercherebbe un criterio di razionalità. Nel contempo, la soppressione, con il 31 dicembre 1972, di tutti gli enti ed istituti pubblici operanti nel settore dell'edilizia residenziale veniva stabilita senza la contemporanea previsione di nuove strutture organizzative, nella invero illuministica illusione che di esse ben si sarebbe potuto fare a meno in un sistema fondato sull'azione degli Istituti autonomi per le case popolari e sulle cooperative edilizie a proprietà divisa ed indivisa; e senza tenere quindi 16

Luci ed ombre della « riforma per la casa » conto che il nuovo sistema che si andava ad introdurre, fondato sul metodo della programmazione degli interventi, richiedeva ben più complesse e tecnicizzate strutture. Una volta stabilito nella legge che ogni intervento, per poter essere attuato, doveva inserirsi in un ben preciso contesto programmatorio, si tralasciava di creare una qualsiasi struttura permanente di progran1mazione nel settore, forse come reazione, non invero immotivata, ai più di cento enti pubblici fino a quel momento esistenti che esplicavano la loro azione nel settore dell'edilizia residenziale. Il punto focale della discussione fu però costituito dal regime dei suoli urbani e delìe abitazioni realizzate con il concorso o contributo dello Stato e dai criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione. Il compromesso raggiunto a tale proposito ha certamente una sua intrinseca validità: estensione del regime pubblicistico dei -suoli urbani, cessione del solo diritto di superficie -- e non della proprietà - delle aree espropriate ed urbanizzate per la costruzione di alloggi economici e popolari, in tr,oduzione di vincoli alla disponibilità di tali alloggi, corresponsione ai proprietari delle aree espropriate di un indennizzo parziahnente depurato dalla rendita urbana costituiscono i punti più qualificanti di una legge che voleva essere soprattutto una legge di riforn1a e quindi, come tale, innovativa rispetto alla situazione preesistent~. Sono contenuti, questi, cui può essere attribuito un significato eversivo della proprietà privata solo quando si parta dal presupposto di una sua assoluta intangibilità, tesi questa invero difficile a sostenersi in un sistema istituzionale quale quello italiano, laddove la Costituzione, all'articolo 42, secondo comma, demanda alla legge di assicurare la funzione sociale della proprietà privata e di renderla accessibile a tutti. La legge n. 865 è, sotto qaesto profilo, la espressione di una politica riformistica avanzata, che rientra nella strategia propria di un Governo e di una maggioranza parlamentare di centro-sinistra. Le difficoltà che incontra la sua applicazione non potrebbero quindi essere ricondotte ad un preteso contrasto tra il suo conte:. nuto ed i principi su cui è fondato tutto il sistema: esse derivano bensì dalla struttura stessa della legge, dalla complessità delle soluzioni in essa accolte e da una loro illuministica « coloritura ». È certo, ad esempio, che le vicende che caratterizzarono la discussione della legge in Parlamento non esplicarono effetti posi17

Mario Pacelli tivi sulla formulazione delle norme in essa contenute: ciò vale in particolare per l'articolo 8, laddove sono stabiliti i casi in cui può procedersi alla espropriazione per pubblica utilità in base alle norme contenute nella legge stessa e che, malgrado la interpretazione autentica recata dall'articolo 1 ter della legge 25 febbraio 1972. continua a formare oggetto di contrastanti interpretazioni circa la sfera di applicazione. Analoghe considerazioni valgono a proposito dell'articolo 35, relativo alla cessione in proprietà o in superficie delle aree espropriate ed ai vincoli di indisponibilità degli alloggi realizzati sulle aree stesse: anche qui la formulazione della norma è tale da aprire spazio a interpretazioni non sempre oggettivamente motivate. Sarebbe stato, d'altra parte, solo frutto di ottimistiche illusioni ritenere che ciò non sarebbe avvenuto: colui che deve applicare una norma giuridica largamente innovativa è sempre portato a dare alla norma stessa il senso più restrittivo possibile, in quanto maggiormente aderente al sistema normativo precedente. Nel caso della legge n. 865, tale tendenza è obiettivamente facilitata dalla non perfetta formulazione di talune norme in essa contenute, per i motivi prima indicati; appare pertanto indispensabile un'attenta riconsiderazione di tali norm·e, per eli1ninare, entro i limiti in cui ciò sia possibile, i dubbi interpretativi che esse possono far sorgere in chi debba applicarle. Certamente dare attuazione ad una legge di riforma presuppone anche la esistenza di una volontà politica in ·tal senso: sarebbe però fare della demagogia ·richiamarsi a quest'ultima per risolvere ogni problema in uno Stato di diritto, e nel quale ciascun organo dell'apparato statuale deve operare conformemente all'ordine normativo esistente. Più sostanziali modifiche è invece necessario introdurre alla legge citata laddove essa regola il meccanismo della programmazione degli interventi. Il punto di maggiore incertezza è certamente quello dei poteri da attribuire alle regioni nel settore dell'edilizia residenziale pubblica: non sembra al riguardo sostenibile la tesi secondo la quaìe la competenza regionale sarebbe da ritenersi inclusa in quella della materia urbanistica, attribuita alle regioni per il perseguimento di finalità tutt'affatto diverse. Si tratta perciò di fare una scelta, che è indubbiamente di natura politica, circa la delega alle regioni di potestà amministrative per quanto concerne l'edilizia residenziale pubblica: è però 18

Luci ed ombre della « rif arnia per la casa » assurdo che il programma degli interventi e delle relative localizzazioni debba andare dagli organi statali a quelli regionali e viceversa prima di giungere alla definitiva approvazione. Altro e forse più i111portante problen1a da risolvere riguarda la concreta realizzazione degli interventi previsti. Essa, nella legge n. 865, è strettamente collegata alla pianificazione urbana ed alla preventiva urbanizzazione delle aree in cui gli edifici devono sorgere. Tale collegamento è senza dubbio necessario per non ripetere taluni errori del passato: c'è però da chiedersi se proprio l'esperienza non abbia din1o'Strato la insufficenza della « macchina » amministrativa a far fronte ai compiti che le vengono così assegnati. La co1nplessità delle procedure è spesso un alibi che serve a mascherare una inefficenza di cui potranno pur trovarsi delle giustificazioni, ma che tuttavia resta un dato di fatto difficilmente confutabile. Le nostre strutture am1ninistrative possono forse « produrre » atti, ma sono certamente inadeguate a « produrre » servizi. E allora non resta altra, seppure poco consolante, soluzione ohe attribuire agli organi amministrativi ai diversi livelli funzioni di controllo su attività da altri svolte: è quanto si è fatto, in sostanza, per i piani di lottizzazione previsti dalla legge n. 765 del 1967, e che sono ora divenuti veri e propri piani particolareggiati di iniziativa privata. Perché non tirasferire gli stessi princjpi nella legge n. 865 ed attribuire la possibilità di procedere alla espropriazione delle aree, alla loro urbanizzazione ed alla realizzazione degli alloggi ad organismi regionali, costituiti sotto forma di società per azioni o di enti pubblici, previa convenzione con i Comuni e sotto il controllo di questi ultimi? Né potrebbe obiettarsi che tale funzione potrebbe più opportunamente essere svolta dagli I.A.C.P ., una volta che si sia proceduto alla loro ristrutturazione, secondo quanto previsto nel titolo I della legge n. 865; tali enti, infatti, sarebbero pur sempre costretti ad operare in base a criteri che male si conciliano con la ,speditezza dell'intervento e che invece bene possono trovare applicazione nei momenti della programmazione del controllo. Tutto ciò, tuttavia, rischierebbe di risultare inutile qualora non venissero, nel -contempo, create le condizioni idonee ad investimenti pubblici e privati nel settore dell'edilizia residenziale. Pensare di risolvere il problema dell'abitazione solo con stan19

Mario Pacelli ziamenti nel bilancio dello Stato è assurdo: occorre quindi creare un sistema di incentivi, nel più generale quadro dell'utilizzazione programmata di tutte le risorse disponibili, affinché il capitale privato e quello degli enti pubblici sia investito nel settore. I mezzi per realizzare tale obiettivo non mancano certamente: la garanzia dello Stato del capitale investito, e di un determinato reddito, potrebbe essere uno di questi. Altri strumenti attengono ai vincoli di utilizzazione delle riserve degli enti previdenziali ed assicurativi, al reimpiego dei capitali derivanti da alienazioni di immobili, ecc. Si tratta, in sostanza, di assun1ere scelte politiche circa l'utilizzazione delle risorse disponibili e le relative - ed effettive - proprietà. Grave errore sarebbe invece quello di riattivare i vecchi sistemi di intervento che darebbero probabilmente positivi effetti immediati per quanto riguarda la ripresa dell'attività edilizia, oggi in forte crisi, ma che ben presto riprodurrebbero, ad un grado più elevato, i precedenti squilibri. La legge n. 865 ha costituito, come si diceva, l'occasione per affermare taluni principi di ordjne generale circa la politica dell'abitazione. La necessaria autocritica che si impone su taluni contenuti della legge stessa non comporta un quasi automatico abbandono di quei principi, a meno di non volere ad essi sostituirne altri completamente diversi, espressione di un diverso indirizzo politico. Qualora tale sia la strada che si vuol percorr re occorre però eliminare al più presto ogni equivoco ed indicare chiaramente i fini che si vogliono raggiungere ed assumerne le conseguenti responsabilità politiche: « democrazia » significa anche questo. MARIO PACELLI 20

CRONACHE PARLAMENTARI Mezzogiorno e partecipazioni statali di Francesco Compagna ::- Ogni anno si dice che l'esa1ne del bilancio delle partecipazioni statali cade in un ,nomento particolannente significativo. Questa Commissione lo ha detto anche l'anno scorso e non senza fondamento. Ma tale aff errnazione è quest'anno più fondata di quanto non lo fosse tutte le volte che negli anni precedenti la si è voluta e dovuta ripetere. Perché questa volta non si tratta soltanto di rilevare che il sottosiste1na, per così dire, delle partecipazioni statali si è configurato co1ne struttura caratterizzante, e portante, del siste1na di econo111ia mista del nostro paese; né si tratta soltanto, per sopperire alla lentezza ed alle carenze della pubblica amministrazione, di sollecitare ancora una volta, e magari più imperiosaniente, una niobilitazione di capacità imprenditoriali e tecniche delle aziende a partecipazione statale e perciò l'affidamento a talune di queste aziende della realizzazione di infrastrutture civili (edilizia scolastica, ad esempio) e dell'an1modernamento di infrastrutture economiche (porti, ad esen1pio, ed aeroporti), che l'amministrazione ordinaria non riuscirebbe a realizzare e ad ammodernare con efficacia e ten1pestività. Né, infine, si tratta di ribadire quanto altre volte è stato detto - e con1unque va detto ancora - a proposito dell'i1npegno delle aziende a partecipazione statale ai fini dell'impostazione della soluzione di problemi che condizionano l'amplia111ento ed il completamento dell'industrializzazione sia in senso settoriale che in senso territoriale. Si sa co111ee perché questi siano elen1enti di natura tale che non se1npre i gruppi privati avrebbero la convenienza o la possibilità di affrontarli. Ma per poterli affrontare, grazie all'impegno delle aziende a partecipazione statale, è necessario che queste aziende siano efficienti. Possiamo infatti polemizzare quanto vogliamo contro le degenerazioni del cosiddetto efficientismo, rna non possiam.o diventare fautori dell'inefficienza più di quanto lo sia1no dell'efficienza. * Testo dell'intervento alla Commissione Bilancio e Programmazione - Partecipazioni Statali nella seduta del 17 ottobre 1972. 21

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