Nord e Sud - anno XIX - n. 153 - settembre 1972

NORD E SUD R i.vista men si 1e dir et t a da Frane es e o Compagna Girolamo Cotroneo, La libertà « ridefinita » - Tullio d' Aponte, I resti del piano chimico - Antonio del Pennino, Le pensioni della crisi - Elio Giangreco, L}Ateneo calabrese: tappe e prospettive - Ermanno Corsi, Da Fan/ani a Scelba e scritti di Giulio Caterina, Luigi Compagna, Francesco Maria Greco, Maurice Le Lannou, Antonio Perna, André Vigarié ANNO XIX - NUOVA SERIE - SETTEMBRE 1972 - N. 153 (214) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI

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SOMMARIO Editoriale [3] Girolamo Cotroneo La libertà « ridefinita » [ 8] Tullio d'Aponte I resti del piano chin1ico [15] Cronache parlamentari Antonio Del Pennino Le pensioni della crisi [26] Giornale a più voci Giulio Caterina / problemi della navigazione interna [33] Antonio Perna L'esodo dalle campagne nel Lazio [40] Francesco M. Greco Gli accordi petroliferi [42] Testimonianze Elio Giangreco L'Ateneo calabrese: tappe e prospettive [49] Documenti Maurice Le Lannou Lo sviluppo econo,nico delle zone costiere e i problemi dell' arnbiente [ 68] André Vigarié L'organizzazione delle fasce costiere [75] Saggi Luigi Compagna La modernità di Tocqueville [84] Cronache e memorie Ermanno Corsi Da Fanfani a Scelba [95]

Editoriale Tutto ci si poteva aspettare dopo che le Can1ere avevano dovuto negare le 3000 lire in più che l'opposizione voleva dare ai pensionati. Tutto ci si poteva aspettare alla vigilia di un autunno sindacale pieno di incognite e che richiede molto buon senso agli stati n1aggiori delle Confederazioni e la poçsibilità che le Confederazioni, appunto, siano in grado di persuadere le federazioni hnpegnate più direttan1ente nei rinnovi contrattuali a non irrigidirsi su « piattaforme» di rivendicazioni incompatibili con la grave situazione economico-finanziaria del paese. Tutto ci si poteva aspettare quando i licenziamenti ed i passaggi di operai a cassa-integrazione, la potatura dei « rami secchi» della Montedison, la crisi dell'industria tessile_. e non dell'industria tessile soltanto, concorrono a dra,nmatizzare il problema della disoccupazione, di una disoccupazione che con1incia ad incrudelire anche in regioni che dalla seconda metà degli anni '50 potevano vantare una condizione di più o meno consolidata piPna occupazione delle forze di lavoro. Tutto ci si poteva aspettare nel mo,nento in cui l'au,nento dei prezzi erode il valore dei salari e degli stipendi. Tutto ci si poteva aspettare da un governo che può contare su una maggioranza esigua e che avrebbe dovuto guadagnare credito grazie alla prudenza e all'austerità dei suoi comportamenti: tutto, ma non l'avvio di una sperimentazione della televisione a colori; senza nem1n.eno che, dopo le polemiche suscitate, anche all'interno della 1naggioranza, dall'annuncio che le Olimpiadi avrebbero fornito l'occasione per iniziare tale sperùnentazione, sia stato ritenuto doveroso precisare che, con la ceri,n.onia di chiusura delle Olimpiadi, le tras,nissioni sperimentali sarebbero tenninate. Si è parlato, anzi, cla parte della Rai, di trasn1issioni a colori, sempre sperimentali e naturalmente con il PAL e con il SEC.4M, durante l'inverno. E perciò si è pensato, non senza fondamento, a un deliberato tentativo di introduzione strisciante della televisione a colori. Lo stesso Presidente del Consiglio, chianzato ripetutarnente in causa, ha riconosciuto sì le buone ragioni di quanti, socialdemocratici, repubblicani e sinistre democristiane, hanno manifestato la loro disapprovazione nei confronti della inattesa decisione di sperimentare le trasmissioni a co~ lori con i due sistemi, 1na si è ben guardato dal fissare un termine, la data oltre la quale non ci saranno più le trasmissioni che si dicono sperimentali. E tntanto, come ha osservato Arrigo Benedetti, « tutti i giornali che in qualche modo hanno lega,ni con gli enti di Stato, attraverso 3

Editoriale il pacchetto azionario o la pubblicità », non solo hanno cercato diretta,nente o indirettamente cli accreditare la tesi forlaniana della « tempesta in un bicchier d'acqua» sollevata dai repubb_licani, ma « si sono schierati per il SECAM senza tener conto delle grandi somme già spese dalla Rai-TV e dall'industria privata per il PAL ». A quest'ultirno proposito, poi, va rilevata la ridicola dichiarazione rilasciata dal tninistro liberale del turismo e dello spettacolo. L'on. Badini Confalonieri è stato l'unico liberale a parlare della TV a colori e bene avrebbe fatto se avesse taciuto. Perché, affermare che l'introduzione del colore è necessaria per dare nuovo respiro all'industria dei televisori, è quanto nzeno un'ipocrisia quando è arcinoto che questa industria aveva interesse all'adozione del sistema tedesco e può essere seria,nente danneggiata qualora si adottasse il sistema francese o il sistema misto. Ci si sarebbe dovuti aspettare comunque dai liberali una presa di posizione conforme a quella dei repubblicani e dei socialde1nocratici; e il faito che abbiano preso una posizione divergente da quella dei repubblicani e dei socialdernocratici dimostra che essi tendono a muoversi ancora nel senso della deviazione malagodiana dal liberalismo, a suo tempo denunciata da Pannunzio, Libonati, Cattani e Carandini, e sono assai poco ricettivi nei confronti di sollecitazioni come quelle che, dall'interno del PLI, sono venute dai Baslini e dagli Altissimo ( recentemente con la « lettera dall'interno del PLI » pubblicata sull'« Espresso» e diretta a Malagodi). Valga, a questo proposito, come spia dell'atteggiamento liberale, anche il tono di appena sottinteso sarcasmo con il quale sono state riferite le prese di posizione contro la televisione a colori dei repubblicani e dei socialdemocratici del corrispondente romano de « La Nazione», Danilo Granchi, notoriamente vicino ai liberali: in stridente contrasto con l'editoriale che sullo stesso giornale aveva scritto Silvano Tosi, editoriale di pieno consenso alla reazione di La Malfa del 16 agosto. Tutto questo ci fa pensare e temere che, dopo gli errori di superficiale sinistrismo dei socialisti, avremo gli errori di superficiale destrismo dei liberali_: e che, come i socialisti erano diventati caudatari delle sinistre democristiane, i liberali stanno diventando caudatari delle destre democristiane, anche se integraliste. Ma, rinviando a migliore occasione il discorso sulla deviazione malagodiana dal liberalismo, torniamo alla TV a colori. - Perché questa « strana fretta »? La difficoltà di dare una risposta precisa a questa domanda, con la quale Giovanni Spadolini ha intitolato un suo « taccuino » su « Epoca », testimonia dopotutto della debolezza di questo governo, che si è trovato esposto in tutta la vicenda 4

Editoriale alle pressioni dei fanfaniani, i,npazienti di introdurre la televisione a colori e favorevoli al sistenza francese. Perché è evidente che il governo, all'indomani della battaglia parlamentare sulle pensioni, e alla vigilia delle battaglie sindacali per il rinnovo dei contratti, non aveva proprio nessun interesse a sollevare « tempeste», e sia pure in « bicchieri d'acqua ». Se quindi il Presidente del Consiglio ha dovuto subire l'iniziativa del suo Ministro delle Poste e delle Telecornunicazioni, fanfaniano, si dovrebbe ritenere che dietro questo Nlinistro è schierata ed operante una forza condizionante. Si tratta ovviamente di Fanfani in persona, che potrebbe far cadere il governo di Andreotti quando e come lo volesse. Ma si tratta anche della Rai che sempre più palesemente opera come gruppo di pressione sulla classe politica; e che come tale è diventata forse, sotto certi aspetti, anche più invadente di quanto non lo fossero negli anni '50 i « padroni del vapore » di cui Ernesto Rossi andava scoprendo gli altarini. La Rai-TV è una « mela marcia », ha scritto Aldo Santini, documentando questa pesante affermazione (su «L'Europeo ») con precisi riferimenti allo « scandalo del monopolio», allo « scandalo della Sipra », allo « scandalo del colore » e alle responsabilità del direttore generale, Bernabei, « testa di ponte di una corrente della DC forte e dalle enormi ambizioni ». E Guido Bocella (che è uno pseudonimo di Antonio Duva) ha riferito sul «Mondo» della censura frnposta da Bernabei alla presa di posizione con la quale La Malfa ha minacciato di uscire dalla maggioranza se l'introduzione della TV a colori fosse diventata una decisione definitiva: episodio quanto mai significativo, testimonianza di un metodo che potrebbe estendersi, se non contrastato, ad altre e più gravi applicazioni. Comunque sia, è evidente che la Rai, mediante l'introduzione del colore, pensa di poter aumentare il canone e le entrate pubblicitarie, rin1arginando così le ferite al suo bilancio che sono la conseguenza di una gestione deplorevole, condannata dallo stesso Presidente dell'IRJ e a sua volta conseguenza di n1etodi politici non meno condannevoli. A questo proposito, non si possono non condividere le preoccupazioni per la parte della pubblicità accaparrata e accaparrabile dalla televisione rispetto a quella che ri1nane per i giornali e che, dopo l'int1·oduzione del colore, potrebbe risultare ulteriormente ridotta. Il problema della riforma viene quindi in prim.o piano ed esige un impegno lungimiranté da parte delle forze politiche. Pertanto condividiamo pienamente la richiesta dell'on. Granelli: non solo la « sospensione tassativa » della sperimentazione a colori dopo le Olimpiadi, ma· anche e soprattutto il rinvio di ogni decisìone per quanto riguarda l'introduzione del colore a dopo 5

Editoriale la riforma. Così avren10 anche applicato alla riforma della Rai una vis a tergo. D'altra parte, siamo ben consapevoli del fatto che, se non si procede al risanamento anzitutto politico della _gestione, la riforma resta pregiudicata (non è stato Petrilli in persona a convalidare le accuse alla gestione della Rai che da varie parti erano state docun1entate, anche in sede parla1nentare? e non è stato Petrilli che ha implicitamente riconosciuto il non rispetto da parte della Rai dei « principi economici che sono alla base della formula IRI »? e non è stato ancora Petrilli a far capire che l' IRI può far poco per quanto riguarda il richiamo della Rai ad una gestione corretta perché il rapporto fra IRI e Rai è alterato dalle sempre più pesanti interferenze delle forze politiche, interessate alla « lottizzazione» dell'Ente?). Quindi, non ci tranquillizzerebbe un comunque tardivo annuncio di sospensione degli esperimenti che venisse dal prossimo Consiglio dei Ministri. Tale annuncio dovrebbe infatti essere accompagnato dall'impegno che della TV a colori si potrà con1inciare a riparlare soltanto dopo la riforma della Rai. E ancora: se si vuole che la rifonna non resti pregiudicata, via tutti. Via quanti sono responsabili di una gestione che ha pregiudicato e pregiudica la riforma, via Bernabei, Paolicchi, De Feo ecc .. Se si procedesse risoluta,nente all'estirpazione di questo cancro del potere che si è formato alla Rai, allora gli effetti di risanamento non si farebbero sentire soltanto ai fini della gestione e della riforma della Rai, ma anche, in. generale, ai fini di un 111.igliorep, iù corretto funzionamento della nostra democrazia. La questione della TV a colori ha peraltro messo a nudo più di quanto già non lo fossero i rapporti fra la corrente fanfaniana e i condannevoli co1nportamenti dell'Ente radiotelevisivo; e perciò la battaglia per il risanal'nento della Rai è una battaglia contro la tendenza dei fanfaniani ad avvalersi del potere sulla Rai e nella Rai per far valere posizioni integraliste e imporre la cosiddetta versione italiana del gollismo. In questo senso la questione della Rai diventa la pietra di paragone per valutare anche l'atteggiamento di Forlani e dei suoi collaboratori nei confronti di Fanfani: se si tratta di una ben avviata diversificazione effettiva (come ha lasciato intendere De Mita) o di una non sostanzialmente intaccabile subordinazione (cui De Mita è costretto a fornire una copertura). C'è infine l'enigma del docun,:ento pubblicato da « Famiglia Cristiana », a conferma di quanto aveva già dichiarato l'on. Zamberletti (del gruppo di « Europa '70 »,. che non ha mai nascosto le sue propensioni per una riforma in senso gollista della nostra costituzione repubblicana): che, cioè, si deve adottare il SECAM, e subito, se si vuole, in sede di CEE, che i francesi non contrastino le nostre richies'te per il 6

Editoriale vino, per il granoturco, per gli ortofrutticoli, per la politica regionale. Di questo docuniento il governo francese ha rifiutato la paternità che gli era stata attribuita. _4 noi sembra comunque che una in.tesa fra l'Italia e la Francia in sede cornunitaria potrebbe essere veramente costruttiva se, a proposito della politica regionale, ci si accordasse per un impegno a diffondere l'indus'trializzazione verso il Sud e l'Ovest, che sono il Sud italiano e l'Ovest francese, le regioni più periferiche, il cui sottosviluppo, rispetto alle regioni centrali, risulta non solo evidente, ma anche minaccioso. C'è infatti una solidarietà italo-francese che può diventare operante se ci si convince anche a Parigi della necessità di una politica comunitaria per le regioni periferiche, di una politica dell'Europa che promuova l'industrializzazione dell'Ovest e del Sud come lo hanno promosso nel corso degli ultimi decenni gli Stati Uniti. Altro che SECAM e paesi arabi! Tanto più che per una politica europea delle regioni periferiche occorre il concorso della Germania occidentale; e anche per lo sviluppo del Mezzogiorno occorrono capitali tedeschi più che francesi, onde si comprenderebbe se mai un do ut des con il PAL e non si comprende quale contropartita possano dare i francesi per il SECAM (al di fuori di un consenso generico a Bruxelles cui potrebbe corrispondere una dichiarazione di non disponibilità da parte dei tedeschi). Ha ragione comunque « La Voce Repubblicana » quando, con riferimento alla nota di Andreotti pubblicata da « Concretezza », osserva che « si nega un po' troppo facilmente che i colloqui con Pompidou abbiano avuto la benché minima influenza sulla vicenda della TV a colori». Ma ad affermarlo non è stata l'opposizione, è stato l'on. Zamberletti; e poi c'è stato il documento _pubblicato non da «Paese-sera», ma da « Faniiglia cristiana ». E infine sopravviene Saragat a scrivere che « il motivo vero di un incontro ad alto livello a Lucca fra l'Italia e la Francia » è stato quello di concordare le scelta del SECAM, « prodotto tipico della politica franco-sovietica di ispirazione gollista ». Dopo il 16 agosto ci si è domandati se La Malfa non avesse esagerato nel minacciare di uscire dalla maggioranza per una questione come quella della TV a colori. Qualcuno ha fatto anche dell'ironia. La risposta più convincente è venuta quindici giorni dopo da Saragat: « il probtema è ben più grave di quanto da taluno si finge di credere ». Con la battaglia di arresto che hanno ingaggiato, repubblicani e socialdemocratici hanno ancora una volta dfrnostrato che la loro funzione di vigilanza democratica è insostituibile e che la loro presenza è per così dire democraticamente condizionante e qualificante. Se ne rendono conto i socialisti che parlano di incontro con i cattolici come se repubblicani e socialdemocratici fossero forze superflue o addirittura di qualche disturbo? 7

La libertà ''ridefinita,, di Girolamo Cotroneo Habemus igitur una nuova definizione della libertà: che finalmente questa volta è quella giusta e definitiva. Per secoli e seco1i i filosofi hanno cercato di definire questa suprema categoria, questo ideale per il quale milioni di uomini hanno lottato e sofferto; per secoli e secoli i teorici della politica, i giuristi, gli uomini di governo, hanno tentato di organizzare gli ~tati in maniera da concedere ai cittadini tutte le possibili garanzie, affinché essa trovasse pratica realizzazione. Ma tutto è stato sempre inutile o quasi: nessuno finora ( tranne una inascoltata scuola filosofica dell'antichità, quella degli stoici) aveva mai intuito il vero principio capace di garantirla efficacemente e definitivamente. Ma adesso finalmente ci siamo: il teorico del neofascismo contemporaneo, l'uomo di punta della rinnovata cultura di destra, il filosofo Armando Plebe - ispirato dalla let_tura dei frammenti degli Stoici antichi -, ha risolto con pochissime parole, si potrebbe dire con una sorta di formula algebrica, uno dei problemi più gravi che l'umanità, nel corso della sua lunghissima storia, abbia n1ai dovuto affrontare: quello, appunto, della libertà. Ma andiamo con ordine: è noto che Croce, anch'egli con una brevissima formula, dietro la quale, però, si nascondeva il dramm.atico travaglio dell'uomo e del filosofo che di essa aveva fatto l'oggetto di tutti i suoi pensieri, aveva parlato di una libertà « senza aggettivi ». L'espressione non piacque mai ai teorici del marxismo che la ritennero (e forse la ritengono tuttora) una sorta di mistjfìcazione, in quanto non riuscirebbe a chiarire in concreto i problemi del contesto socio-politico entro il quale soltanto la libertà potrebbe realizzarsi. Libri come La libertà comunista di Galvano Della Volpe o La libertà dei moderni di Umberto Cerroni rappresentano un momento dello sforzo compiuto da parte marxista per opporre all'icastica espressione crociana un progetto sostanzialmente tendente a giustificare un modo di intendere la libertà assai lontano (e assai più limitato nonostante il tentativo di indicarlo come più esteso o comunque più concreto) da quello crociano (il quale, presentandosi come onnicomprensivo, ritiene di contenere già in sé tutte le possibili definizioni della libertà). Che da parte marxista si sia tentato (e il discorso non è certo 8

La libertà « ridefinita » chiuso) di fornire una teorizzazione del concetto di libertà è certamente spiegabile, al di là della prassi politica da essa finora realizzata. Il marxismo, infatti, si è presentato come un « sistema della libertà» e ha indicato in quest'ultima la meta da raggiungere al termine di un preciso iter, il solo capace di portare ad essa. Che poi in pratica questo non sia affatto accaduto, né mostri segno di accadere, è un altro discorso; come un altro discorso sarebbe quello di indagare criticamente e seriamente, senza limitazioni propagandistiche, se ciò è successo per l'incapacità di « gestire il marxismo » da parte di chi ne aveva il compito, oppure per difetti di fondo contenuti nella dottrina stessa. Ma, a parte questo (che pure non è poco), rimane ampiamente spiegabile l'interesse che, a livello teorico, gli studiosi del marxismo hanno dimostrato per la libertà, della quale, pur fra mille contraddizioni, hanno tentato la definizione e indicato i modi per perseguirla. Molto meno spiegabile apparirebbe invece l'interesse per Ja libertà da parte fascista che, al di là di alcune proposizioni hegelianeggianti di Giovanni Gentile, non ha mai mostrato (né poteva, data la sua natura) alcun interesse verso di essa. Ma il « nuovo » fascismo vuole trascendere la sua antica eredità politica e culturale: essendo la libertà diventata l'istanza assoluta del mondo moderno, esso vuole mostrarsi capace di recepirla e di inserirla nella trama della propria ideologia. Così Armando Plebe, il Gentile in sedicesimo della situazione, scrive a furia per dare i nuovi fondamenti teorici della libertà, adeguandola ai princìpi socio-politici che ispirano la dottrina da lui entusiasticamente accettata: non è tuttavia difficile darsi a priori ragione della fine che la libertà possa fare una volta inserita in un contesto che per natura la aborre. Veniamo dunque a Plebe: questi - che i suoi nuovi amici definiscono colui che condusse negli anni cinquanta la vittoriosa battaglia contro il crocianesimo - è noto soprattutto per la sua prolificità; qualche tempo addietro il recensore di un suo libretto divulgativo sull'illuminismo rilevava argutamente, vista l'impressionante frequenza con cui sfornava nuovi libri, che Plebe scriveva con1e fosse inseguito da una muta di cani. Né oggi sembra maggiormente portato alla riflessione: escogitata la formuletta risolutiva, la ripete con impressionante frequenza. Infatti sia nel primo che nel te1..:zo numero di una nuova rivista di destrà, Intervento, (e non abbiamo nessun motivo di dubitare che si ripeterà in quelli successivi) Plebe indica con mano sicura la via attraverso la quale la crisi del nostro paese pottà essere risolta e la libertà definitivamente garantita. 9

Girolwno Cotroneo Naturaln1ente, prnna di pronunciare la parola magica, egli indica le cause e la ragione di tutti i mali che affliggono il nostro paese, la cui radice è una e una sola: il sistema democratico-parlamentare. Così infatti ha scritto in un articolo dal titolo Per una definizione della libertà politica: « Anche qui la radice del male risiede sostanzialmente nel mito egualitario, cui il regime dei partiti, o partitocrazia, è strettan1ente connesso. L'attuale regime si proclama 'democratico' perché l'attività legislativa è demandata a parlamentari eletti 1nediante votazioni quinquennali: e i sostenitori di tale regime ritengono che il fatto che il cittadino ogni cinque anni sia autorizzato a porre il voto dentro l'urna coincida con la libertà politica. Si tratta invece di una sostanziale truffa, neppure molto nascosta: tanto che la popolazione ha costantemente il sospetto che i riti della democrazia non siano altro che una beffa ai suoi danni, anche se non sempre è in grado di rendersi conto analiticamente di come essa funzioni ». I concetti qui espressi non hanno bisogno di commenti: data la posizione politica scelta recentemente da Plebe non c'era da attendersi altro. Egli infatti non si limita a criticare gli scompensi, le storture, i malanni di cui oggi soffre il sistema politico italiano: la sua polemica contro la « noia quinquennale » delle elezioni politiche investe la den1ocrazia qua talis; allo stesso modo con cui in un altro articolo dal titolo La Costituzione malata investiva lo stesso principio del sistema costituzionale e non già in particolare la costituzione italiana. Per farlo andava a scomodare pure Marx il quale, quando rilevava l'ambiguità del concetto di costituzione « si preoccupava almeno di un pericolo: che cioè la Costituzione, anziché essere uno strumento per garantire la volontà popolare contro l'abuso dei potenti del n1omento, si trasformi in un ulteriore strumento di potere al servizio di quei potenti, per impedire che l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini possano avere il loro peso ». Il fatto che fosse Marx a criticare il principio stesso della costituzione non ci pare debba significare di per sé la validità di tale critica. Plebe, che ha indicato tutto « ciò che non ha capito Carlo Marx», avrebbe potuto giungere tranquillamente alla conclusione che Marx non aveva affatto compreso il valore del sistema politico costituzionale. Il fatto è che Marx criticava lo stato interclassista dove la costituzione rappresenta il punto di mediazione e di garanzia delle diverse sfere che compongono lo stato stesso: nello stato da esso auspicato (che in segno uguale e contrario è poi quello che auspica Plebe) essendo il potere concentrato in un 10 BibliotecaGino Bianco

I.a libertà « ridefinita » solo punto, l'idea di costituzione elaborata dal pensiero politico del sette e dell'ottocento non poteva certo essere assunta a segno e garanzia di libertà per tutti. Perciò, quando conviene alle sue tesi, Plebe non esita a utilizzare e accettare il discorso di Marx. Ma veniamo alla « libertà »: Plebe inizia il suo discorso con una capziosa distinzione fra libertà politica e libertà etica o psicologica. Come si vede qui ritornano gli « aggettivi » di comodo che servono per condurre il discorso alla conclusione voluta: per Plebe infatti è delle libertà « etiche » che le forze politiche si servono per giustificare la soppressione delle libertà « civili »; così, in virtù del concetto etico del « progresso » il terrorismo della Rivoluzione Francese « poté imperversare in nome della libertà »; e in virtt1 dell'astratto concetto dell'« egualitarismo » nei paesi sovietici si limita o elimina la libertà. Jl discorso potrebbe anche reggere: ma la critica di Plebe è così superficiale da renderlo vano anche quando si avvicina al vero. Infatti, pur citando frequentemente Hegel e in particolare la Fenomenologia dello Spirito trascura un punto fondamentale che si evince da quell'opera, soprattutto dalle pagine dedicate alle figure dell'Autocoscienza: cioè che la libertà non è soltanto il terminus ad quem di tutta la storia umana, ma coincide con la stessa ricerca della libertà. Che Hegel non abbia poi saputo trarre (o ha tratto in maniera inadeguata) tutte le conseguenze in1plicite nel risultato da lui stesso raggiunto, è un fatto certo: ma ciò non toglie ad esso nulla della sua validità. Ma è proprio su questo che Plebe preferisce sorvolare: perché allora dovrebbe ammettere che le idee di « progresso » e di « eguaglianza » (nei confronti delle quali sono state mosse critiche ben più acute e pertinenti che non quelle da lui proposte) se pur sono miti e entità metafisiche, nascono da bisogni e passioni morali e politiche che li configurano in quel modo: sciogliendoli dalle contingenze particolari che li alimentano, la critica li trasforma in aspirazioni reali, in incentivi concreti per il progredire etico-politico dell'uomo. Intorno ad essi, _invece, Armando Plebe preferisce esercitare una critica sbrigativa, ad effetto, liquidandoli con l'approssimativa definizione di concetti etico-metafisici della libertà, distinti dalla libertà stessa (che sarebbe invece, come vedremo, tutt'altro). Andiamo avanti: anche a voler dare per buona l'aggettivazione data da Plebe alla libertà; anche a volere ammettere che l'impulso etico sia qualcosa di diverso da quello politico (in quanto, come egli dice, « la libertà politica » dovrebbe avere « il solo scopo di permettere all'individuo di essere eticamente e psicologicamente libe11 BibliotecaGino Bianco

Girolanio Cotroneo ro »; anche a voler accettare tutto questo, dicevamo, resta aperto il problema di fondo: che cos'è la libertà politica? In un primo rnomento Plebe si limita a definirla negativamente: « La libertà politica - scrive infatti - è qualcosa di contrario e di avverso alla teoria e alla prassi della democrazia [ ...] ; sì da esser portati a dire che un'autentica libertà politica debba essere (in questo senso) antidemocratica ». E così ci siamo arrivati: la parola che fino a questo n1.omento probabilmente gli si strozzava in gola, Armando Plebe è finaln1ente riuscito a pronunciarla. Quale sia il contrario della « democrazia » è noto almeno fin dai tempi di Platone: perciò a questo punto non ci sono più dubbi (se mai finora ce ne siano stati) sul sistema politico proposto da Plebe in sostituzione di quello democratico-parlamentare. Ma il teorico della « nuova destra » non arriva al punto di esporre brutalmente la sua ultima convinzione. Perciò pone il problema in maniera più insinuante: lo si vede nel mon1ento in cui, dopo avere definito negativamente la libertà, passa a dare di essa una definizione positiva che vorrebbe essere, come abbiamo detto fin dall'inizio, la formula magica, il principio risolutivo di ogni controversia: « Un regime politico - scrive dunque Plebe - può dirsi libero se in esso i poteri sono affidati ai più competenti e se le sue decisioni legislative, giudiziarie, esecutive vengono prese in base a ragioni dettate dalla competenza, anziché in base a criteri ideologici che spesso mascherano dei rozzi giochi di potere ». Tutte le definizioni sono a questo punto superate, tutte le controversie risolte. Dopo secoli e secoli per merito di Armando Plebe sappiamo finalmente che «libertà» significa «competenza»: nient'altro. Si potrebbe a questo punto dire che, nonostante le citazioni erudite, l'autorevolezza dottrinaria che per lunghi tratti l'accompagna, il discorso di Plebe desinit in piscem, tanto sconfortante è questa conclusione. Sconfortante, ma subdola, come vedremo. Prima ancora, però, vale la pena rilevare l'infondatezza dello stesso rifed1nento storico-culturale sul quale egli la poggia. Cita infatti il Plebe una frase di Epitteto: « Chiunque abbia la volontà di essere libero, deve astenersi dal pretendere o dal rifiutare quello che non è di sua competenza pretendere o rifiutare ». Nonostante un ammiratore di Plebe abbia scritto sul Roma, in polemica con Alfredo Parente, che il teorico del neofascismo è talmente colto da leggere Aristotele in gr~co traducendolo simultaneamente in latino, la proposizione del celebre autore del Manuale è citata a sproposito. Per il filosofo stoico, infatti, il sustine et abstine non riguarda affatto la libertà politica: esso è un principio etico con il quale si vuole spingere 12

La libertà « ridefinita» all'indifferenza verso le cose esteriori che non dipendono da noi (e sulle quali quindi siamo « incompetenti»), verso tutto ciò su cui la volontà umana non può influire, come per esempio la morte propria o quella dei familiari (è celebre l'invito a considerare la morte della moglie alla stregua della rottura di una pentola di coccio). La « con1petenza » di cui parla Epitteto non ha quindi il valore empirico-pragmatico che Plebe intende darle: il quale Plebe, inoltre, se è vero il suo stesso assunto circa la « competenza », dovrebbe essere assolutamente incompetente a parlare di libertà, visto che sia la prima che la seconda delle scelte politiche da lui compiute si sono rivolte verso quelle parti che della libertà (di quella vera, senza aggettivi) non sembrano proprio sentire l'esigenza. Ascoltiamo comunque la conclusione del suo discorso: « Un parlamento costituito fondamentalmente su base corporativa potrebbe essere una via per realizzare tale libertà politica: in esso le discussioni avverrebbero tra uomini che hanno effettiva conoscenza dei problemi che affrontano e che sono quindi in grado di stabilire coscientemente quali cose è opportuno che siano affidate alla libera decisione di un gruppo di cittadini e quali ad un altro ». Sentire avanzare nell'età della tecnologia un discorso così stantìo da uno studioso che talora ha pure mostrato una certa, anche se discutibile sempre, vivacità intellettuale, lascia un'impressione quasi penosa. Si comprende chiaran1ente che con queste affermazioni sulla « competenza », diventata ormai il suo cavallo di battaglia, Plebe vuole alin1entare il qualunquismo politico di un certo strato - culturalmente fra i più poveri - della nostra società, che ritiene tutti i mali d'Italia dovuti al fatto che il ministro della Sanità non sia un medico e quello dell'Istruzione un professore (ma di quale grado: universitario, medio, oppure elementare?). Ma c'è ancora dell'altro: la formula di Plebe « competenza uguale libertà» non è solo infondata, ma addirittura l'esatto contrario di quanto lascia intendere ai più sprovveduti. « Co1npetenza », infatti, può essere garanzia soltanto di « efficienza »: n1a « efficienza » è forse sinonimo di « libertà »? o non è spesso invece il contrario? Perché uno stato può benissimo essere efficiente (facendo viaggiare, ad esempio, « i treni in orario ») e al tempo stesso tirannico: anzi, è proprio in nome dell'efficienza che spesso si giustifica la tirannia, sotto la quale non si spreca il tempo in lunghi dibatti ti parlamentari, non si perdono ore lavorative a causa degli scioperi e così via. E non è finita, ché anzi « il veleno dell'argomento » appare soltanto adesso, rivelando in quella di Plebe un'autentica teoria 13

Girolanio Cotroneo dell'assolutismo: chi, infatti, decide della « competenza »? un club di esperti investiti di altissimo potere? E ancora: chi controllerà e designera tali esperti? un computer? o il capo carismatico che ha sempre ragione? Non si tratta naturalmente di fare della facile ironia: che simili idee, che una teoria corporativistico-pragmatica possa essere rilanciata nel mondo moderno, e indicata come soluzione ideale e definitiva, rivela soltanto il basso livello culturale di chi la propone (o più ancora di coloro ai quali è diretta). Perché è ormai chiaro che Armando Plebe scrive tanto da non avere più il tempo di leggere; nemmeno ciò che pubblica la stessa casa editrice che lo ha così clan1orosa1nente lanciato. Proprio in un volumetto pubblicato da Rusconi, infatti, Max Horkheimer ha notato che il pericolo maggiore cui va incontro il mondo moderno è il « dirigismo » che il processo di sviluppo della società industriale esige sempre più prepotentemente (e a questo ha aggiunto che « l'annientamento delle istituzioni democratiche » rappresenterebbe un male peggiore dello stato presente). Plebe vorrà riconoscere che come filosofo della società Max Horkheimer valga un po' più di lui: perciò potrebbe anche meditare le conclusioni alle quali questi è giunto. Comunque sia, per tornare adesso al nostro discorso, è certo che se al di sopra dei tecnocrati, dei « competenti » non esisterà un potere politico emanato direttamente dal paese tramite libere elezioni (il che non significa affatto, come crede Plebe, « scambiare i] diritto umano alla libertà con la costrizione, con il livellamento di tutti gli uomini sotto il segno dell'egualitarismo e della democrazia », bensì potenziare la capacità di giudizio degli uomini, consentendo loro di esercitare quella libertà che si conquista solo con l'esercizio della libertà), allora andremo inevitabilmente incontro a quel regno della « competenza » e dell'« efficienza » tanto caro ad Armando Plebe. Il quale con l'aria di dire cosa affatto nuova viene rispolverando il sistema delle corporazioni medioevali o cercando di risuscitare il cadavere del corporativismo sui cui risultati l'Italia ha già avuto modo di meditare. Ma forse, pur conoscendo bene Marx, ha dimenticato la celebre frase con cui questi inaugurava la sua analisi degli avvenimenti del 18 brumaio: « Hegel disse che gli avveni1nenti storici accadono sempre due volte. Dimenticò però di aggiungere che la prima volta si presentano come tragedia, la seconda come farsa ». GIROLAMO COTRONEO 14

I • resti del • piano chimico di Tullio d'Aponte Il confronto di opinioni che si è andato sviluppando intorno al problema dell'assetto produttivo e ubicazionale della chimica di base è un fatto estremamente positivo al quale abbiamo assistito forse ·per la prima volta nella storia della politica di piano; di quella stessa programmazione che a partire dagli anni sessanta è stata sbandierata come vessillo dell'efficientismo nazionale e che in un decennio raramente ha valicato la barriera delle enunciazioni verbali e delle formulazioni paradigmatiche, conseguendo lo scoraggiante risultato di non aver saputo far seguire le azioni ai propositi e di essere rimasta in una posizione sovente subalterna rispetto allo stesso sviluppo dell'economia nazio:i:-ialeche pur avrebbe voluto orientare, se non dirigere. Al contrario, proprio perché il piano chimico costituisce un concreto esempio di programma operativo e promozionale, alla stessa stregua dei progetti pilota - e dei progetti speciali voluti dalla recente legge sulla Cassa - la programn1azione finalmente diventa lo strumento per l'attuazione di una ben definita politica economica, mentre il dialogo con le forze produttive, del lavoro e del capitale, trova nel CIPE l'interlocutore politico che attraverso le procedure di progra1nrnazione contrattata e le strumentazioni del sistema degli incentivi può essere in grado di orientare lo sviluppo dell'economia nazionale, agendo, a livello settoriale, entro l'ambito definito da quegli sche1ni operativi che a giusta ragione possono deno1ninarsi, come nel caso del programma chimico, azioni programmatiche. Non è questa la sede per affrontare un tema di fondo, che pur meriterebbe essere dibattuto e che concerne l'analisi delle cause e delle responsabilità del fallimento delle procedure di programmazione nel decennio trascorso (che pur nacque all'insegna della politica di piano); tuttavia, le considerazioni che svolgeremo intorno alle vicissitudini del piano chimico, evidenziando taluni atteggiamenti del potere industriale, con il peso delle ipoteche accese da precedenti .nodi insoluti del sistema produttivo italiano, costituiscono episodi di cui è facile intendere il significato emblematico 15

Tullio rl'Aponte in rapporto alla stessa logica della crescita disordinata del sistema economico nazionale e al difficile ruolo che compete ai pubblici poteri allorquando esiste una netta contrapposizione tra quelli che sono gli obiettivi formali di superamento degli squilibri territoriali e quelli che sono gli interessi sostanziali, di potentato e di profitto, del capitalismo privato. L'industria chimica costituisce un settore estremamente eterogeneo, non tanto per la composita realtà tecnica delle produzioni, quanto per la multiforme variabilità ed ampiezza dei comparti merceologici che risultano interessati, più o meno direttamente, al consun10 di etilene e dei grandi « intermedi ». Perciò, il discorso intorno alle linee di sviluppo di un settore industriale che si esprime in una così composita gamma di configurazioni produttive non può essere che complesso, anche se la molteplicità delle visuali sotto le quali è possibile tentare l'approccio alla tematica generale non impedisce che sussistano molti elementi comuni in modo unitario. Unitario è il discorso sul piano tecnico, in quanto esiste una ben definita equazione che esprime il dosaggio dei fattori produttivi nei rapporti ottimali di produzione a monte e a valle; così come comune a tutte le imprese del settore di base è la logica dello sviluppo, in quanto le configurazioni di mercato non lasciano spazio a situazioni concorrenziali interne, essendo la sopravvivenza, ancor prima della crescita, dell'industria chimica italiana misurabile unicamente sul piano della competitività internazionale. Questo carattere di unitarietà che esprime i tern1ini essenziali del discorso chimico, come già abbiamo sostenuto in questa stessa rivista, rende innaturale e contraddittoria la distinzione operata dal piano tra un programma promozionale per l'industria di base e un programma - da stendere - per la chimica fine, sicché la primogenitura del piano per la chimica di base non può che rite~ nersi soltanto accidentale o, se si vogliono accettare le giustificazioni fornite in proposito dall'Ufficio del Programma, contingente: necessaria per evitare errori di localizzazione che l'esigenza di dar corso a numerose richieste di autorizzazione, per cospicui investimenti, giacenti presso il CIPE, avrebbe potuto provocare in assenza di un piano preordinato. Ciò nonostante, su base territoriale, il piario chimico non potrà svolgere alcuna funzione positiva di riequilibrio del sistema produttivo italiano, se, nella saldatura tra le scelte ubicazionali del progetto di promozione per la chimica di base e le scelte ubicazionali del progetto di promozione - ancora 16

I resti del piano chimico indefinito - per la chimica fine, dovesse venir meno quel comune denon1inatore 1neridionalista delle localizzazioni che sembra aver dominato la strategia del documento adottato dal CIPE in adesione di esplicite scelte politiche. A questa considerazione di base, che potremmo definire rnetodologica, per quanto di essenziale vi è in una questione di metodo in un caso come questo, non può tacersi quanto di più radicale sia stato espresso da altri in rapporto alla stessa validità politica del documento. Infatti, dopo aver esarninato gli obiettivi occupazionali previsti dal piano, qualche autorevole commentatore, argomentando intorno all'elevato costo di ciascun posto di lavoro prodotto dall'attuazione del programma, dopo aver evidenziato l'entità dell'onere accollato alla collettività per l'applicazione degli incentivi e la predisposizione di infrastrutture, generali e specifiche, ha ritenuto che si debbano respingere tutte le ulteriori scelte di localizzazioni meridionali di industrie di base ad alta intensità di capitale e che, di conseguenza, sia da rifiutarsi l'intera strategia di sviluppo del settore chimico proposta dal documento dell'ISPE, proprio per quelle localizzazioni meridionaliste degli impianti di steam-cracker che, lungi dal risolvere il problema dell'emigrazione e della disoccupazione nel Mezzogiorno, finirebbero col sottrarre risorse utilizzabili in impieghi produttivi caratterizzati da un più modesto livello del rapporto tra capitale d'investimento e occupazione prodotta. Questa posizione, certamente interessante in linea di principio, dovrebbe essere riesaminata in riferimento al problema specifico che ci interessa, in quanto, nonostante i centri di steam-cracker comportino un enorme grado d'intensità d'investin1ento, il sacrificio che viene richiesto alla collettività potrebbe anche essere accettabile se il piano - nelle sue due parti - riuscisse a garantire un insediamento delJa chimica fine strettamente legato alle localizzazioni delle produzioni di base, in modo che la diffusione delle imprese manifatturiere, ad elevato livello d'occupazione complessiva, possa far sì che il conto globale dell'operazione chimica, in termini politici e in termini sociali, risulti con1patibile con le finalità generali dell'industrializzazione del Mezzogiorno e, contemporaneamente, sia in linea con l'obiettivo di riequilibrio territoriale del sistema produttivo nazionale. · Infatti, mentre nessuno può consapevolmente negare che nel Mezzogiorno è indispensabile sviluppare un tessuto di medie e piccole industrie capaci di assorbire la principale risorsa di questo territorio, la manodopera, è innegabile che i grandi impianti pro17

Tullio d'Aponte duttivi dell'industria di base, lungi dal rappresentare, in ogni caso, quelle « cattedrali nel deserto » alla cui immagine noi stessi, per ben definiti casi, siamo ricorsi, hanno la funzione che è propria delle grandi infrastrutture e che è quella di determinare condizioni favorevoli al successivo sviluppo industriale e alla realizzazione di solide pre1nesse per la riconversione produttiva di ambiti territoriali che trascendono ampia1nente i confini meramente comunali dei relativi insediamenti. E soltanto se, in una visione coerente dei problemi geografici dello sviluppo economico italiano, dovesse dimostrarsi l'esistenza di un labile rapporto tra produzioni chim.iche di base e attività manifatturiere, solo allora, le « cattedrali nel deserto » sarebbero tali e la loro presenza, più che inutile, mortificante. L'impegno meridionalista nel settore chimico è, quindi, inevitabile. Inevitabile per il Mezzogiorno che potrà ospitare gli steam-crackers solo a condizione che sussistano sufficienti garanzie per la contestuale crescita della chin1ica fine nell'a1nbito di quelle aree chimiche interconnesse di cui si ipotizza la formazione; inevitabile per l'Italia che non potrebbe risolvere i proble1ni ubicazionali dei centri petrolchimici in un contesto territoriale già compromesso da un elevato livello di congestione industriale. Di conseguenza, per verificare cosa resti del piano chimico, dopo le obiezioni e le perplessità suscitate dalla sua formulazione, le domande che coerentemente bisognerebbe porsi sono le seguenti: in quale misura la chimica italiana ha bisogno di etilene e di grandi « intermedi »? entro quali lin1iti le scelte ubicazionali delle produzioni di base possono influenzare le localizzazioni manifatturiere? A questi interrogativi, che si riferiscono alla struttura interna del documento, va aggiunta un'ulteriore don1anda, ben più problematica, relativa a ciò che resta del piano chimico dopo i recenti episodi di cui sono stati protagonisti i principali operatori industriali del settore e che potrebbe formularsi nei seguenti termini: in quale misura l'attuale struttura degli incentivi risponde alle esigenze della grande industria e su quale spazio residuale d'azione può ancora contare la media e piccola industria? Sugli obiettivi finali della produzione di etilene e dei principali « intermedi », esiste un sostanziale accordo tra le ipotesi formulate dal documento programmatico e le previsioni avanzate dai gruppi industriali del settore. Tant'è che c'è chi ritiene sospetto tale accordo e non fa mistero del condizionamento che avrebbero subito i tecnici dell'ISPE dalla precedente elaborazione di ipotesi di svi18

I resti del piano chi111ico luppo del settore condotte dagli stessi produttori. Poco male: se, nel gioco delle parti, tutti i protagonisti sono concordi nell'assegnazione dei ruoli, non importa se la regia si sia dovuta affaticare di più o di meno, sempre che la recita soddisfi! Accertata la rispondenza dei traguardi produttivi, anche se non sempre il riferimento temporale possa essere valido, specialmente nel breve periodo, c'è da chiedersi se la maggiore quantità di etilene necessaria al fabbisogno dell'industria manifatturiera entro il 1980 poteva essere totalmente, o in gran parte, acquistata all'estero. È questa un'ipotesi che va esaminata, anche se ovvie considerazioni di carattere economico generale, relative al significato strategico della libera disponibilità di materia prima, potrebbero far crollare qualsiasi perplessità e fugare definitivamente ogni dubbio. Senonché, l'Italia, già attualmente, nella chimica fine e nella parachimica, è fortemente tributaria dell'estero e soffre di una composizione molto sfavorevole della bilancia commerciale, per quanto attiene i rapporti di quantità e valore delle voci d'importazione ed esportazione dei prodotti chimici. Pertanto, dirigendo gli investimenti nei settori ad alto valore aggiunto delle produzioni, in cui oggi, almeno in parte, dipendiamo dai mercati esteri, si potrebbero realizzare consistenti vantaggi economici; e si potrebbe anche rafforzare, per te1npo, la struttura produttiva del settore chimico, proprio nei comparti ove maggiore è il ruolo svolto dalla competitività internazionale delle produzioni realizzate. Senonché, a parte il fatto che la struttura produttiva della chimica di base europea - sulla quale abbiamo riferito nel numero precedente di questa rivista - sembra maggiormente orientata in senso di gestione consortile degli etilenodotti, colleganti produttori ed utilizzatori, l'onerosità del trasporto e le difficoltà di stoccaggio dç!ll'etilene, sono fattori preminenti che, nelle ipotesi suggerite dall'Ufficio del Programma, impediscono assolutamente di pensare a mercati distanti. Proprio queste asserzioni, estremamente esplicite, contenute nel documento, e sulla validità delle quali farebbe bene a pronunciarsi l'economista dei trasporti e l'ingegnere industriale, mentre confermano la validità delle ipotesi di sviluppo degli steamcrackers, contribuiscono a delimitare i rischi di un difficile rap-. porto d'integrazione tra localizzazioni della chimica di base e attività n1anifatturiere. Perché, se l'antieconomicità del trasporto e le difficoltà di stoccaggio conducono alla logica delle aree chimiche interconnesse, non è concepibile che dall'ultimo anello della catena si eviti di giun19

Tullio d'Aponte gere all'unica conclusione logica che il tipo d'impostazione seguita dal discorso iniziale con1porta, e cioè che le aree chimiche dell'etilene diventino i poli d'attrazione della chimica fine. Ciò, ovviamente, non significa che con un colpo di bacchetta n1agica l'etilenodotto possa riuscire a recuperare all'industrializzazione chimica intensiva ambiti territoriali privi di altre infrastrutture generiche e specifiche; ma sarebbe oltremodo strano se, una volta che il Mezzogiorno avesse accettato di sostenere l'onere finanziario ed ecologico derivante dall'ubicazione dei centri di steam-cracker, la programmazione dovesse fallire nelle ulteriori azioni programmatiche di promozione della chimica fine e se gli ostacoli ad una politica meridionalista di quelle localizzazioni dovessero sopravanzare i vantaggi precostituiti con la realizzazione delle aree chimiche delle produzioni di base. In questo caso, sia i progetti speciali che i progetti pilota dovrebbero misurarsi con la loro stessa capacità di aderenza alle nuove realtà produttive che si vanno delineando nelle regioni meridionali e la politica degli incentivi dovrebbe essere ripensata in funzione di una consistente azione promozionale in favore della media e piccola industria. Perché bisogna armai convincersi che nella geografia dell'industria italiana le scelte meridionaliste dello sviluppo industriale sono la conseguenza di un'esigenza dell'economia nazionale e un correttivo alla congestione industriale del CentroNord: se nel Mezzogiorno si riesce a creare consistenti fattori agglomerativi per lo sviluppo industriale, ne~ resto del paese si potrà arrestare la tendenza alla degenerazione della concentrazione in forn1e patologiche di congestione. L'atteggiamento dei maggiori gruppi industriali del settore chimico di fronte alle azioni programmatiche promosse dal piano chimico destano vive preoccupazioni; non solo e non tanto per la mancata adesione alle maggiori novità contenute dal documento sul piano della cooperazione, quanto per l'interpretazione unilaterale del progetto che ciascun gruppo va sostenendo, impegnandosi in un braccio di ferro, con gli avversari e con il CIPE, inteso a spuntare considerevoli vantaggi finanziari dall'applicazione delle procedure d'incentivazione. Ma c'è di più: se per la SIR la sperimentata tecnica della formazione di innumerevoli società di comodo, capaci di far lucrare i più elevati coefficienti di finanzia1nento agevolato e di contributi a fondo perduto, è sempre riproponibile, per la MONTEDISON il piano chimico è ben qualcosa di più. Infatti, prigioniera di 20

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