NORD E SUD R iv i·s t a men si 1e dir et t a da Frane e se o Com p a g n a Renato Ghiotto, Una sinistra senza illusioni - Girolamo Cotroneo, Il giacobinismo culturale - Vittorio Barbati, Il costo dell'equilibrio - Francesco Compagna, La forza del dubbio - Gian Giacomo del1'Angelo, La comunità montana e scritti di Autori vari, Tullio d' Aponte, Michele Guerrieri, Ugo Leone, Lorenzo Lupo, Maria Morra. ANNO XIX - NUOVA SERIE - MAGGIO 1972 - N. 149 (210) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI
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SOMMARIO Edit.oriale [ 3 J Renato Ghiotto Una sinistra senza illusioni [9] Girolamo Cotroneo Il giacobinis1no culturale [ 15 J Vittorio Barbati Il costo dell'equilibrio [23 J Documenti Francesco Compagna La forza del dubbio [ 42] Argomenti Autori vari La politica regionale della Comunità Europea [56] G. G. dell'Angelo La comunità montana [61] Tullio d'Aponte / porti turistici [71] Ugo Leone Le fonti di energia e l'Italia [79] Paesi e città Michele Guerrieri Passato e presente di un comune 1neridionale [95] Regioni Maria Morra La pesca in Campania [ 104 J Lorenzo Lupo L'organizzazione del territorio in Basilicata [ 122]
Editoriale Quotidiani e settimanali hanno già ampiamente e ripetutamente commentato i risultati elettorali del 7 maggio. Si è parlato soprattutto della « tenuta » democristiana e del « recupero » democristiano; così come si è parlato dell'indebolirnento subìto dai comunisti in conseguenza della dispersione di più di un milione di voti del PSIUP, del MPL di Labor, del Manifesto e di altri « gruppuscoli » che hanno presentato liste di insidioso « disturbo ». E infine si è parlato dei fascisti che non vogliono essere chiamati fascisti, e che tuttavia sono fascisti an.che e proprio quando cercano di assomigliare a Federzoni più che a Farinacci. Si presumeva che la DC avrebbe pagato a destra il costo di Donat Cattin; e che questo costo sarebbe stato alquanto alto. Ma la DC è riuscita a « recuperare ». Sennonché, il suo recupero è passato sulla pelle del PLI e del PSDI; e quanto ai repubblicani, è evidente che il recupero della DC ha contenuto le loro possibilità di progredire oltre i risultati conseguiti alle elezioni regionali del 1970. Si può dire, quindi, che in queste elezioni del 1972 si è votato prevalentemente contro: che chi vuole votare contro i co1nunisti e contro i democristiani vota per i fascisti, chi vuole votare contro i fascisti e contro i democristiani vota per i comunisti. Del resto, un manifesto della DC e un manifesto dei comunisti anticipavano nel corso della campagna elettorale proprio questo tipo di sollecitazione: chi vota per la DC vota due volte, contro i comunisti e contro i fascisti, e chi vota per il PCI pure vota due volte, contro i fascisti e contro i democristiani. Va notato a questo proposito che sono più numerosi nel Mezzogiorno di quanto non lo siano nel resto del paese quelli che votano per i fascisti contro i den1ocristiani e contro i comunisti; e che costoro sono tuttavia assai meno numerosi nelle giovani generazioni di quanto non lo siano fra gli elettori più anziani. Sono c!,atidi cui va tenuto conto e che meritano discorsi più approfonditi. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, anche un discorso - cui abbiamo già accennato in altra sede - che corregga certe tendenze al nialgoverno manifestate dal centro-sinistra: perché pro:.. prio in quanto non si è potuto esaltare il buongoverno del centro-sinistra, molti elettori hanno dimenticato il tradizionale malgoverno della destra, di cui i segni che porta Napoli dopo le aniministrazioni monarchiche non sono manifestazioni remote. Per quanto riguarda i governi, anche un discorso che ridimensioni _nonsolo 'le ambizioni dell'estremismo di destra, 3
Editoriale ma anche quelle dell'extra-parlamentarismo di sinistra: perché l'uno e l'altro presumevano e dell'uno e dell'altro si presumeva che potessero raccogliere fra i giovani elettori assai maggiori ·consensi di quanti non ne abbiano effettivamente raccolti. Così che, fra i giovani che hanno votato contro, sono stati più numerosi quelli che hanno votato per la DC contro il PCI o per il PCI contro la DC; e gli uni e gli altri hanno votato contro i fascisti, senza sbandare, per malinteso zelo antifascista, nella zona dell'estremismo extra-parlamentare. Anche il PLI ha cercato di sollecitare a proprio favore un comportamento elettorale condizionato dall'esigenza di votare contro. Il PLI, infatti, s'i configurava e aspirava a configurarsi come il contraveleno rispetto al MSI sul piano elettorale e come il contraveleno rispetto al PSI sul piano parlamentare: una posizione teoricamente molto forte, che Malagodi ha cercato di far valere richiamando a sé elettori interessati a caricare di voti un'alternativa centrista al centro-sinistra. Ma la posizione teoricamente molto forte è risultata praticamente piuttosto debole. Perché? A causa della radicalizzazione dei contrasti politici, e in un clima di preoccupazioni per la stabilità come quello nel quale si sono svolte le elezioni, il PLI non ha potuto convincere, anche se ha probabil,nente effettuato un parziale recupero rispetto a quello che avrebbe perduto se non avesse potuto sollecitare un voto a suo favore che valesse contro il centro-sinistra. Ma è difficile in generale, e i risultati elettorali lo hanno provato, concepire il voto per il PLI come un voto contro: quando si vuole votare contro, e cioè quando c'è instabilità politica e preoccupazione per la governabilità del paese, quando i contrasti sono radicalizzati, quando diventano minacciosi non solo i comunisti ma anche i fascisti, allora diminuiscono coloro che votano o che potrebbero votare per il PLI, per il PSDI, per il PRI e anche per il PSI; perché, come si diceva, aumentano coloro che votano vJer la DC contro le due estreme o che votano per una delle due estreme contro l'altra e in pari tempo contro la DC. È vero che il PLI, il PSDI, il PRI e il PSI sono partiti rigorosamente antifascisti; ma è anche vero che, se il fascismo ru1noreggia e riesce ad aggregare la protesta _di destra, è il PCI che richiama più voti antifascisti ed è la DC che richiama quei voti che sono di elettori antifascisti, ma anche e forse soprattutto anticomunisti . .Il voto per il PLI, per il PSDI, per il PRI e per il PSI è dunque un voto per, qualificato e differenziato, e non un indiscriminato voto contro; e perciò l'instabilità politica, inducendo più elettori a votare contro, si risolve a danno di questi partiti. Se ne deduce che questi partiti dovrebbero essere i più interessati a garantire le condizioni della stabilità po4
Editoriale litica. Oggi più che mai. Perché, se l'instabilità politica dovesse aggravarsi dopo queste elezioni anticipate, potremmo avere altre elezioni anticipate, o, meglio, fornire alla DC una serie di giustificazioni oggettive per tentare il nuovo 18 aprile, con il recupero della destra e con la compressione delle forze intermedie. E a chi volesse obiettare che tale compressione non potrebbe danneggiare il PSI, 1na avvantaggiarlo, in quanto danneggerebbe il PSDI, si potrebbe rispondere che, a parte tutti i danni che sono già derivati a tutti dalla « guerra civile » fra i socialisti delle due sigle, il danno del PSI ci sarebbe co1nunque, e forse rilevante, perché, quando la DC è in grado di richiamare a sé elettori socialde1nocratici, il PCI è in grado di richia1nare a sé voti socialisti, come il MSI è in grado di richiamare a sé voti liberali. Dunque, attenzione. Se si volessero ripetere dopo le elezioni del '72 errori paragonabili a quelli commessi dopo le elezioni del '68, e tanto più gravi in. quanto ripetuti, a pagarne le spese sarebbero fatalmente i partiti intern1edi, dal PLI al PSI; mentre la DC potrebbe ricavare un vantaggio elettorale di tali dimensioni che ogni possibilità di condizionarla resterebbe preclusa. Ma, se la DC può far valere fin da ora questa minaccia, le possibilità di condizionarla non sono già precluse? È questione di che cosa si intende per condizionamento della DC. Noi intendia1no per condizionamento della DC, nell'attuale quadro politico, anzitutto e soprattutto un'azione di contrasto nei confronti dei pericoli e delle tentazioni che alla DC stessa derivano dalla sua anima integralista e un'azione che possa invece dar forza e spazio e respiro all'altra anima della DC, che è l'anima europea. E comunque sia, è evidente che ora, dopo il 7 maggio, disponiamo di segnalazioni che inducono a rifiettere anche le correnti più laiche della DC e che inducono alla cautela quei partiti che rappresentano le correnti storiche dell'Italia moderna e che corrono il rischio, se dovessero commettere errori di comportamento e di valutazione, di ve~ dere se non cancellata quanto meno affievolita la loro presenza e la l'oro incidenza. Di qui l'interesse che presenta oggi la proposta dei repubblicani per un governo che fronteggi la situazione di emergenza con un programma preciso di risanamento finanziario, di ripresa della produzione e degli investinienti, di avvio della programmazione (e naturalmente di rivalutf:1,- zione dei più rigorosi criteri democratici cJ,iinterpretazione della legalità repubblicana, evitando da un lato i cedin1enti del recente passato e dall'altro degenerazioni repressive del genere di quelle un cui sintomo potrebbe esser.e la recente perquisizione del « Corriere della Sera»). Se si vuole e si deve guadagnare tempo ai fini di scelte come quelle che i chia5
Editoriale rimenti congressuali della DC e del PSI potrebbero facilitare o condizionare, non sarebbe assai rneglio guadagnarlo, questo tempo, con un governo a cinque, o con il cosiddetto governo a tre più due, e comunque con un governo a larga base di solidarietà democratica, piuttosto che cercare di guadagnarlo con un governo rnon.ocolore, che, quando le cose andassero male, comporterebbe che tutte le colpe sarebbero addossate ai partiti che ne fossero rimasti fuori per non contaminarsi fra loro, e che, quando le cose andassero bene (un autunno più tranquillo del te1nuto, per esempio), comporterebbe che tutti i 1neriti sarebbero attribuiti alla DC? Questo interrogativo si pone soprattutto ai socialisti. I quali, invece, potrebbero essere propensi a garantire la loro astensione per un governo monocolore; e questa loro astensione provocherebbe anche quella del PRI e del PSDI, perché, se questi partiti votassero contro il monocolore, diventerebbero poi direttamente responsabili di un passaggio al centrismo, la cui fragile consistenza numerica comporta pericoli di contaminazione da destra non sopportabili da partiti di tradizione e vocazione antifascista. D'altra parte, una scelta centrista anticipata rispetto al congresso socialista fino a che punto comprometterebbe l'esito di questo, dal quale pure ci si potrebbe attendere una liquidazione del discusso stile 1nanciniano e una riscossa autonomista? È questo un in.terrogativo fondamentale, la questione delle questioni. Va tenuto presente altresì, che l'ared dell'autonomismo socialista sembra almeno potenzialmente avviata ad un ripopolamento. Ci sono, infatti, tra i demartiniani, coloro che non sottovalutano « i rischi che comporta una crescent~ polarizzazione del quadro politico attorno ai due partiti più grandi ». Così Mariotti che giustamente ritiene « necessaria una diversa collocazione dei due partiti operai, il PSI ed il PCI, se si vuole salvare la democrazia » e perciò invita ad essere più cauti « coloro che, nel tentativo di porre in evidenza il successo elettorale del PSI, confondono il partito con il risultato conseguito dai comunisti, in una unica percentuale del 40 per cento » ( Mancini) e « anche coloro che tendono a recuperare i voti dei gruppuscoli extraparlamentari e del Manifesto » (Lombardi): a recuperarli « non. si sa bene a quale linea politica, anche se per la natura di questi voti la si può intuire ». E se Mariotti si muove nella direzione di un ritorno allo spirito originario dell'autonomismo socialista e quindi del centro-sinistra autosufficiente di legislatura, nella stessa direzione hanno fatto passi significativi sia Giolitti che Lauricella, nzentre nella direzione opposta sembrano volersi rnuovere il solito Bertoldi e forse anche Vittorelli. Il chiarimento socialista dev'essere atteso e, se possibile, sollecitato. Si deve aprire uno spazio reale agli autonomisti. Si deve evitare tutto ciò che
Editoriale potrebbe « bruciare » il centro-sinistra. Ma si deve evitare anche tutto ciò che potrebbe « bruciare » il centrismo. Poiché, quando si fossero bruciate le due formule possibili, non resterebbe ohe la giustificazione _oggettiva per la DC di chiedere al corpo elettorale la maggioranza assbluta: con le conseguenze elettorali e politiche che ne deriverebbero per tutte le altre correnti storiche della democrazia italiana, liberali e socialiste. Se dunque non fosse possibile altra soluzione, per il momento, che quella di un governo che consenta di attendere i chiarimenti d'autunno ( « a traguardo », si è detto), sia almeno un governo a targa base democratica, con i repubblicani e con i socialden1ocratici carne garanti per quanto concerne i contenuti del progra1nma di questo governo e per quanto concerne gli schieramenti da definire dopo i congressi. E sia un governo che limiti i danni dell'attesa e quindi abbia nelle condizioni della ripresa economica, già indicate da Giolitti, i suoi fondamentali punti di riferùnento . . È, anzi, significativo che un discorso coerente sulle cose, su quelle possibili e su quelle ilnpossibili, un discorso con1e quello avviato da Giolitti sulla ripresa economica abbia trovato i consensi che ha trovato: i consensi non devono disperdersi in quello sfibrante « minuetto delle formule » di cui ha parlato Alberto Sensini e che e già con1inciato. Tuttavia, da quel discorso sulle cose possibili e sulle cose hnpossibili non si puù più prescindere. Anche le Confederazioni sindacati hanno parlato di un indirizzo « realisticamente commisurato ad un disegno generale ». E Larna si è spinto fino ad affermare che non si devono « dran1matizzare le lotte contrattuali » e che è necessario evitare degenerazioni niassimalistiche della piattaforma rivendicativa, perché, « se rallenta ancora la velocità del meccanismo di sviluppo, non ci riprendia1110 più ». Questo significa che le Confederazioni sindacali sono sensibili alle compatibilità segnalate da Giolitti. Ma non sembrano altrettanto con.sapevoti e responsabili le Federazioni, a giudicare dall'atteggia1nento e dalle richieste dei chirnici. Di qui la necessità di un governo che abbia tutti i requisiti per far fronte alla situazione di emergenza, per garantire non solo le condizioni dei chiarimenti congressuali attesi per l'autunno, ma anche e soprattutto le condizioni di una ripresa economica che rassereni l'at1nosfera politica, anche e soprattutto un autunno sindacale nel corso del quale il buon senso delle Confederazioni possa itnporsi alla logica co_rporativa delle Fede razioni. Se si dovesse arrivare al monocolore per stanchezza, le Confederazioni sarebbero più deboli, probabilmente;. e comunque l'atmosfera politica non sarebbe rasserenata, né rasserenabile. Anche perché al monocolore si arriverebbe dopo un più che mai estenuante « minuetto delle for7
Editoriale mule » e dopo avere subordinato ancora una volta il discorso sui contenuti al discorso sugli schieramenti, il discorsio sulla compatibilità fra le cose che si vogliono o si devono fare al discorso sulla -compatibilità fra i partiti che possono concorrere a forrnare una maggioranza di solidarietà democratica, e di sicurezza democratica. E allora, se il ritorno al centro sinistra, dopo la campagna elettorale di scontro fra DC e PSI, dovesse risultare, come scrive Sensini, « psicologicamente difficile », n1a in pari tempo non impossibile a più o 111eno breve scadenza, dopo adeguati chiarinienti, la soluzione consigliata resta quella del governo a tre con l'astensione dei socialisti e magari dei liberali: soluzione preferibile a quella del monocolore. Sarebbe un grave errore dei socialisti, se essi dovessero invece preferire il 1nonocolore. 8
Una sinistra senza illusioni di Renato Ghiotto ::• Il debito culturale della sinistra italiana consiste nella persistenza del suo marxismo; debito di cultura, esso è di conseguenza un debito politico. I molti intellettuali italiani che si dichiarano comunisti o votano comunista sembrano voler ignorare a quali necessarie conseguenze conduce questa soggezione a uno schema del passato. Nelle loro pubbliche adesioni alla sinistra marxista, essi ripetono di condannare la società attuale, con la sua ingiustizia economica e i suoi difetti alienanti, ma di non approvare senza riserve i modelli di società che si sono formati in quei paesi, nei quali il socialismo marxista-leninista ha preso il potere. Sembra dunque che gli intellettuali di cui parliamo credano possibile una via italiana al socialismo, una trasformazione della nostra società secondo un processo originale, che la stacchi sia dai . modelli occidentali che da quelli dei paesi sovietizzati. Non otteniamo, su questo progetto, nessuna vera informazione, poiché coloro che lo suppongono esistente, si rimettono per la sua descrizione e per la sua attuazione al partito comunista. Il quale partito accenna sì volentieri ad un socialismo umanista e democratico, ma non ci dice affatto quale sia la società che progetta, né quale sia il cammino per arrivarci .. Né ci risulta che abbia abbandonato la vecchia ideologia per elaborarne una nuova, capace di risolvere le contraddizioni tra un'ispirazione rivoluzionaria e una tattica riformista. Esso continua anzi a considerare assolute le contrapposizioni tra capitalismo e socialismo, tra proletariato e borghesia, rifiutando una analisi realistica della società in cui viviamo, che imporrebbe il distacco da una dialettica tanto artificiale. Anche l'ideologia è evidentemente uno strumento di potere e si deve continuare ad attribuirle una validità universale e permanente. Questo ostinato attaccamento a una filosofia, cioè a un tentativo di spiegare l'universo, che sa di feticismo e di difesa psicologica, provoca un cronico difetto di visione critica nell'esame di una * Intervento svolto al Convegno del « Mondo» sul tema: Politica e cultura: i debiti della sinistra, tenuto a Roma nei giorni 18 e 19 maggio. 9
Renato Ghiotto società già evoluta, come la nostra, soggetta a un nervoso movimento di trasformazione; ed è la causa del ritardo culturale per cui il comunismo coltiva la propria mitologia sotto il ·nome di scienza. È certo difficile liberarsi dal fascino di una teoria che pretende di dare un'interpretazione completa della storia, ricavando da leggi immutabili, ritenute valide quanto le leggi della scienza fisica, il filo finalmente visibile che sgroviglia il passato e prospetta una finalità al futuro, una finalità iinmanente e felice. Il materialismo dialettico solleva questa intuizione, assoggettando alle stesse leggi la storia e l'universo e rivelando la spiegazione totale di cui lo spirito umano avverte l'esigenza: il sistema si chiude, scientifico ed esaustivo, già religioso nel1a sua presunzione di dare risposta a tutte le domande. Chi intenda contribuire alla liberazione dell'uomo senza condividere un'idea filosofica, che è una favolosa ontogenia come tutte le altre, si esclude automaticamente dalla comunità dei credenti nel marxismo-leninismo, e quindi dalla forza politica di sinistra più grande e più massicciamente militante. Ma come si può chiedere un voto della fede a chi non crede? Se per noi materialismo storico e materialismo dialettico non sono che una delle tante forme con cui l'uomo ha cercato di placare la sua angoscia esistenziale, non potremo non avvertire il vuoto di cultura che toglie autorità alla sinistra e ci allontana da un movimento che rivendica come attuali le condizioni del passato, che ci chiede l'adesione a un sistema, l'accettazione di un'autorità filosofica, offrendo _in compenso le consolazioni che ogni religione promette a una testa spaventata. Poiché la difficoltà è insuperabile, c'è chi compone il dissidio con una specie di accettazione condizionata, attribuendo al comunismo Haliano la capacità di rivedere, un giorno o l'altro, e di modificare i suoi dogmi; e c'è chi abbraccia il con1unismo cercando e, a quanto sembra, trovando in esso un sollievo di natura religiosa. Nella lettera con cui chiede di essere riammesso nella chiesa del suo partito, Romano Bilenchi dice: « Se un uomo vuole arrecare un contributo anche minimo al progresso del proprio paese, non può farlo che attraverso il partito con1unista, discutendo ogni que~tione prima che altrove nell'ambito del partito, confrontando le proprie idee con quelle della classe operaia e dei suoi esponenti. Rimanendo al di fuori, comprendo, e non da ora, che ogni pensiero si mutila, quasi si annulla. Si diventa delle vere e proprie anime morte». 10
Una sinistra senza illusioni La paura della solitudine (e la scoperta che l'uomo è solo e senza destino è oggi un segno di coraggio intellettuale) induce qui a una dichiarazione di gregaria umiltà, alla disperata convinzione che il pensiero non sia niente, annullato, morto, quando non sia annegato in un pensiero collettivo, in una corale preghiera della mente. L'immersione nella classe operaia è una delle illusioni carismatiche che la sinistra propone agli uomini di cultura, negando loro il rigore delle operazioni critiche. I miti dell'autenticità, le macchine mistiche per risalire il corso del tempo allo scopo di ritrovare l'uomo nella sua forma incorrotta, sembrano conservare anche oggi la loro attrazione, per quanto dubitabile appaia l'effetto purificante o illuminante di un confronto tra le proprie idee e quelle della classe operaia in quanto classe. In un diverso quadro emotivo, uno dei nostri grandi scrittori ha affermato che andare a sinistra significa andare verso la vita; e non si tratta di D'Annunzio, che disse la stessa frase con maggiore giustificazione, saltando dai banchi della destra a quelli dello schieramento opposto. Ora, nessuna dubita che la vita sia il contrario dell'avara conservazione, che sia un processo aperto allo sviluppo, e che soprattutto la vita spirituale sia un continuo affanno di liberazione. Ma non può rappresentare la mobilità della vita quella sinistra, che appende se stessa a uno schema, che affida la sua dinamica alla dialettica degli opposti, che ingabbia ancora nella parola classe una realtà come la nostra, nella quale i gruppi sociali si fondono, si aprono, si ricompongono, senza curarsi del materialismo storico che li vorrebbe compatti e contrapposti per legge fisica. A illuminarci sulla funzione consolatoria che ha orinai assunto un'ideologia che volle porsi come scientifica, basterebbe la considerazione di quante e quanto diverse esperienze culturali hanno in essa trovato un porto provvisorio. Il partito comunista ha dimostrato verso gli intellettuali un'indulgenza, per così dire, sperimentale; ha accettato di volta in volta ]e loro mode, le ha fatte proprie, per sconfessarle in un momento successivo; ha ribattezzato i transfughi della cultura borghese, ha appoggiato i gruppi d'avanguardia finché rappresentavano una pattuglia d'assalto contro il potere e la conservazione e li ha poi condannati .in quanto proponevano problemi di linguaggio e quindi la continuazione della cultura come privilegio. L'ansia di chiudere un vuoto, ,di superare da decrepitezza ideologica, ha portato ad accogliere ogni specie di surrogato, a con11
Renato Ghiotto fondere le questioni di tecnica con le idee, la ricerca espressiva con la politica. Una deforn1azione critica, suggerita da schemi antichi e mai abbandonati, ha inclinato i comunisti a una speciale simpatia verso quei movimenti innovatori che si presentassero come movimenti di gruppo, forniti più di manifesti che di opere. La diffidenza, lo scherno, il rifiuto sono stati riservati agli scrittori solitari, che non si vergognavano di esprimere la loro sofferenza, di manifestare quella malattia dell'anima che è toccata in sorte all'uomo di oggi, quando ha visto spezzata la trama che ci univa, da sempre, a tutte le spiegazioni totali dell'universo. Il lavoro di questi scrittori è stato condannato come un soliloquio fatuo o pessimista, le loro interrogazioni senza risposta sono state derise, quali vuote squisitezze psicologiche o colpevoli esibizionismi; poiché essi sono uornini veramente contemporanei, tormentati da un'idea della conoscenza che il passato non ha mai posseduto, sono stati fatti passare per spiriti vecchi, sono stati descritti come eroi romantici, che chiudono gli occhi sull'ingiustizia economica per occuparsi di mali immaginari chiedendone conto alle stelle. Non ci si può stupire che una sinistra, legata al n1ito di un'immanenza che si sviluppa secondo un piano necessario e favorevole, fiuti l'eresia in coloro che non possono credere nell'uomo quale protagonista di un progetto universale; la condanna con cui i comunisti colpiscono tali ostinati libertini sanziona l'irreparabilità del loro peccato, simile a quello che la chiesa çattolica definisce « disperazione della salvezza ». Sono, questi uo1nini, i diversi, gli alieni, coloro che bisogna odiare, perché non sono fuggiti di fronte all'unica, autentica novità culturale del nostro seco]o, e con questa scelta si sono allontanati sia da coloro che affidano le loro sorti a una sconosciuta trascendenza sia da quelli che, co1ne i comunisti, hanno ereditato un'ideologia animistica sotto forma di dottrina filosofica. Sono gli uomini ai quali non si può imporre una fede o una speranza che si fondi sulla scoperta di leggi storiche, di fronte alle quali non ci sia altra alternativa che obbedire o scomparire. La loro posizione è, per definizione, sacrilega, poiché tutte le religioni, anche quelle politiche, prendono significato da un'assunzion·e di valori assoluti, mentre oggi ci siamo decisi finalmente a ricordarci che noi stessi abbiamo inventato dei sistemi di valori, che ci permettessero di sopravvivere come animali sociali. Questi uomini sono costretti a concludere che il futuro del so12
Una sinistra senza illusioni cialismo non risiede in una revisione dell'ideologia marxista, ma nel suo totale abbandono. Che questa proposizione possa apparire scandalosa, anche quando è formulata con tali motivazioni, è più strano che triste; essa . non intende affatto negare o diminuire la funzione che ha avuto il marxismo, ma invita a riconoscere oggi l'inautenticità di una dottrina che vanifica la scienza nel cui nome ostenta di fondarsi. È tanto difficile ammettere che la nozione di scienza come conoscenza oggettiva c'impedisce di formulare leggi che siano dei valori in se stesse,· che tendano cioè ad inventare spiegazioni complete e consolanti della nostra sorte e di quella dell'universo? Non si vede nemmeno come la forza d'animo e la lucidità necessarie ad accettare la constatazione che l'uomo è solo in un universo indifferente, possano essere chiamate pessimismo. Sapere che non siamo protetti e in un certo senso giustificati da un disegno cosmico, che ci collochi in una condizione di privilegio fra tutte le altre vite, dovrebbe anzi spingerci a cercare, poiché non possiamo farne a meno, delle forme sociali, nelle quali i valori ereditati dalla nostra tradizione morale richiedano un rispetto immediato invece che un godimento differito, nelle quali cioè le promesse di pieni adempimenti futuri siano sostituite da ragionevoli conquiste attuali. Si può persino dubitare che occorra inventarsi dei valori, costruirsi un'etica, per non rinunciare ad agire politicamente; l'impulso dello spirito umano verso una convivenza che lo assecondi e lo stimoli è tanto radicato, che si può addirittura supporgli una ragione genetica. Sia questa esigenza iscritta nel codice secondo il quale si trasmette la vita o sia essa un'eredità culturale, basta il fatto che la senti amo come necessaria a fare di essa una realtà, che non ha bisogno di essere confrontata col bene e col male. È altrettanto certo che i nostri comportamenti sociali non sono automatici, come avviene nelle società degli insetti. Queste due sole notazioni descrivono l'originalità della nostra situazione: siamo condizionati a vivere socialmente, ma siamo liberi di inventare le forme della nostra convivenza. La storia umana, in questo senso, può essere vista come una strenua e annebbiata sperimentazione alla ricerca di w1 modello di società, ricerca che abbiamo avuto il torto di condurre con spirito antiscientifico, anche e specialmente quando abbiamo creduto di scoprire nella storìa dei nostri errori la legge che doveva· guidarci alla costruzione di una società perfetta. Abbiamo proceduto con la' spreco che si permette nella sua evo13
Renato Ghiotto luzione ciò che chiamiamo vita o natura, ma non con la stessa fredda rinuncia ai tentativi non riusciti, e oggi ancora c'è tra di noi chi guarda alla società in mezzo alla quale viviamo, e la vede non come essa è, ma come la dialettica degli opposti dice che dovrebbe essere. Non si può operare su una realtà, che un pregiudizio sistematico ha già provveduto a deformare; perché la politica nasca dalla cultura e ne faccia parte, deve accettare di essere interamente laica, imparare a muoversi in un modo privo di certezza e di leggi immanenti. Se andare a sinistra significa lavorare per una società migliore, il luogo degli uomini di cultura è oggi una sinistra senza illusioni. RENATO GHIOTTO 14
Il giacobinismo culturale di Girolamo Cotroneo La presente fase della nostra cultura appare certamente più critica che creativa, nel senso che è più ricca di metodologie, di indicazioui programmatiche, di lavori sperimentali, che non di nuovi e definitivi prodotti letterari o filosofici. Saremmo insomma - anche se si tratta di una generalizzazione che va presa soltanto come tale - in un'età paragonabile a quella alessandrina, ricca di poetiche, ma povera di poesia. Naturalmente il ripensamento critico è sempre un momento di rilievo. Le metodologie, i programmi sperimentali, hanno un'importanza cospicua nella storia della cultura, anche se, di solito, i grandi capolavori si attengono ben poco alle indicazioni programmatiche che li hanno cronologicamente preceduti (a quale indicazione metodologica si attenne, ad esempio, Joyce nello scrivere l'Ulisse?), costituendo invece essi stessi la fonte delle nuove teoriche, oltre che della produzione successiva (per restare a Joyce, nessuna « teoria del ron1anzo » ha condizionato il romanzo stesso quanto l'Ulisse). Comunque sia, la fase « critica » non è meno importante, nell'economia di una cultura, di quella « creativa »; a patto, ovviamente, che si intenda la distinzione e non si confonda l'una con l'altra. Per tornare alla nostra epoca, la fase « critica » che essa attraversa assume talora un carattere di presunzione che rischia di vanificare tutto il lavoro; la parola che più spesso ricorre nella non sempre chiara tern1inologia della « nuova critica » è infatti un brutto neologismo, ormai entrato a fare parte del linguaggio corrente: « demistificazione ». È stato detto, e non da ora, che spesso le parole servono all'uomo per nascondere le cose: proprio dicendo che « la lengua le sirve para n1entir·, inventar lo que no hay y confundirse », il « perro Orfeo », di cui parla Miguel de Unamuno, tesseva l'elogio di Augusto Perez, il « su amo muerto »; ma non sempre è· stato detto con altrettanta chiarezza che· spesso con parole nuove si indicano operazioni vecchie. Il perché è evidente: inventando o coniando un nuovo termine, meglio ancora se quasi incomprensibile, si riesce a dare ai meno provveduti l'impressione che sia nuova e originale anche l'opera~ione con· esso indicata. 15
Gir0Lan10 Cotroneo Nel caso in questione, quell'atteggiamento « demistificatorio » di cui certi ambienti della cultura italiana sembrano andare particolar1nente fieri, è in realtà un atteggiamento ·vecchio quanto il mondo, riscontrabile, se soltanto la si sa leggere, in ogni pagina della nostra storia letteraria, presente in ogni 1nomento delle vicende culturali. Esso risponde inoltre a una precisa esigenza, arriveremmo a dire, pratico-polHica nella più vasta accezione in cui questo termine può essere inteso. Menare perciò grandissimo vanto e - forti del neologismo con cui la si indica - gabellare come originale un'operazione del tutto consueta, è segno soltanto di ignoranza o di malafede. Tuttavia qualcosa di originale nell'odierno processo di « den1istificazione » lo si trova: ed è l'arroganza e la presunzione con cui esso viene compiuto. Arroganza e presunzione che derivano, a nostro avviso, dalla mancata comprensione del significato (storico e teoretico) dell'operazione in atto, che, come già si è detto, rappresenta un momento ricorrente nella storia della cultura di un popolo. Ma prima di passare alla identificazione del significato di questo concetto di « demistificazione » è forse il caso di esemplificare il modo in cui esso viene inteso oggi. L'occasione la offre un breve dibattito, curato per « L'Espresso » da Giovanni Giudici, al quale hanno partecipato Giorgio Petrocchi, Ottavio Cecchi e uno fra i più noti « demistificatori » del panorama culturale italiano contemporaneo, Giorgio Manganelli. Il modo in cui la questione è stata intesa (anche se il famigerato termine non è mai stato adoperato, il si~ gnificato del dibattito era certamente quello) permette infatti di darsi ragione della mediocrità dell'operazione e della superficialità con cui essa viene affrontata. L'argomento riguardava la letteratura italiana, cioè la necessità di ridimensionare quelli che Giovanni Giudici ha chiamato i « busti di n1armo », quella « cresta » di « grandi » che costituiscono il ritaglio del quadro della nostra storia letteraria disegnato, oltre un secolo fa, da Francesco De Sanctis. Sarebbe un sollievo - ha scritto infatti Giudici - « per l'ex scolaro bocciato alla maturità sul Saul dell'Alfieri apprendere con postuma soddisfazione, da nuove fonti autorevoli e autorizzate, che il bollente astigiano era in realtà poco più di un chiacchierone; o per colui che in anni lontani scivolò mala1nente sulla buccia di banana dell'ode All'amica risanata leggersi, comodamente seduto su una poltrona del. soggiorno, una filza di maldicenze sul Foscolo! ». Ci si consentirà di dire che con1e discorso è piuttosto banale. 16
Il giacobinisn10 culturale In effetti, ogni generazione, ogni epoca storica, modificano radicalmente i giudizi tramandati; e lo fanno sulla base di una precisa esigenza. Non c'è proprio nulla di scandaloso, nessuna iconoclastia nel non « sentire » più la poesia di Foscolo o di Alfieri, o nel definire I promessi sposi, co1ne ha fatto di recente Leonardo Sciascia, « un famoso e noioso romanzo italiano ». Se la « demistificazione » sta tutta in questo genere di discorsi, essa si presenta come la più banale e scontata operazione culturale che mai sia stata compiuta; e lo è proprio in quanto è stata « sempre » con1piuta. Valga per tutti un esempio: la storiografia. Ogni generazione ha riscritto, modificandola profondamente, la storia del proprio passato. Fra l'interpretazione che uno storico italiano dell'Ottocento dava dell'età comunale e quella che nel Novecento ne ha data, poniamo, un Salvemini, c'è un abisso. Se questo avviene in una materia, quale la storiografia, che ha a che fare, come usa dire, con i « fatti », :figuriamoci se può non avvenire, ad esempio, con la critica filosofica, che studia le « idee », o con quella letteraria che giudica delle « forme», è soggetta a quel fragile elemento che è il gusto. Avanzare come rivoluzionaria l'eventualità di sostenere che Vittorio Alfieri era un « chiacchierone », significa soltanto non tenere in alcun conto le diverse esigenze che muovevano, ad esempio, un De Sanctis che lo giudicava in tutt'altro modo e quelle che possono muovere un critico contemporaneo, il quale si muove in tutt'altro contesto. Proprio in quest'ultimo punto sta, a nostro avviso, la chiave per la spiegazione del fenomeno. La sistemazione che alla storia della letteratura italiana ha dato De Sanctis rispondeva a una precisa esigenza culturale dell'epoca in cui egli viveva; era il frutto di una sollecitazione che proveniva da una temperie etico-politica con precise caratteristiche, delle quali De Sanctis fu il più valido fra gli interpreti. Diremmo che è del tutto normale che, mutando le esigenze, mutando le sollecitazioni, can1biando la temperie etico-politica, il discorso desanctisiano fosse destinato a sentire l'usura del tempo e che nuove proposte e nuove indicazioni e nuovi giudizi dovevano intervenire, in un primo tempò a rettificarlo, successivamente a sostituirlo (lo stesso Croce, tanto per fare un nome oggi alquanto sgradito, che pure era un desanctisiano, intervenne più volte in maniera critica sull'opera del suo ideale maestro). Il problema, quindi, è un altro: e riguarda quell'arroganza e superficialità che caratterizza certi « den1istificatori » contemporanei di cui sopra dicevamo. Perché una cosa è la revisione critica dettata dalle nuove esigenze d~l presente, un'altra è quella forma di giacobi17
Girolamo Cotroneo nismo culturale, quella gratuita iconoclastia fondata sul puro gusto di fare delle affermazioni paradossali e il cui fondamento critico si rivela spesso, alla prova dei fatti, del tutto inesistente. Si prenda ad esempio l'ultimo libro di quel mediocre quanto incensato storico che è Denis Mack Smith su Vittorio Emanuele secondo, per avere la prova lampante di quanto spesso il discorso « demistificante » sia sommario e superficiale, perché, se veramente uomini come Cavour, come Rattazzi, come Ricasoli, con1e lo stesso Vittorio Emanuele fossero stati così mediocri e moralmente e politicamente sprovveduti come Mack Smith li dipinge, viene davvero da chiedersi a opera di quale santo protettore sia stata compiuta e mantenuta l'unità del nostro paese. La verità è che il discorso demitizzante non può essere elaborato a freddo per compiere un'operazione poco più che commerciale. Esso dovrebbe nascere da spinte etiche sollecitate dall'esigenza di chiarire un problema storico alla luce dell'esperienza presente, e in questo caso ben altro è il valore che verrebbe ad assumere. Per restare nell'ambito del Risorgimento, l'interpretazione che di esso ha dato Gramsci, o quella del Romeo di Risorgimento e capitalismo, ha fatto crollare, da due diversi e opposti punti di vista, tutta l'interpretazione agiografica che il fascismo ne aveva dato. È stata certo una salutare demistificazione, ma affondava le radici in precise esigenze etico-politiche e si trasformava in politica attuale. Tutto ciò è fin troppo ovvio per meritare che se ne parli più a lungo. Se infatti c'è un'operazione culturale. che oggi meriti di essere avviata, è proprio quella di « demistificare la demistificazione », chiarendo una volta per tutte l'inconsistenza che presenta quando la si vuole fare passare per opera rivoluzionaria. Perché essa o è una normale operazione di revisione critica, o una improduttiva forma di giacobinismo culturale che spara alla cieca contro tutto e contro tutti, senza neanche quel sapido umorismo con cui Voltaire, padre di questo tipo di letteratura critica, sapeva condire i propri scritti. Ma torniamo al discorso sulla letteratura italiana quale è stato affrontato nel dibattito da cui abbian10 preso le mosse. Di qui viene fuori un modo tutto particolare di intendere il passato, soprattutto per _merito (o demerito, se si preferisce) di Giorgio Manganelli, il quale si impegna nella sua attività di iconoclasta con un furore degno dei tempi di Leone terzo Isaurico. Il discorso dell'autore dell'Hilarotragoedia, infatti, va bene al di là della revisione critica dei giudizi fondamentali sulla storia della letteratura italiana, inve18
Il giacobinismo culturale stendo lo stesso concetto di storia letteraria. Replicando a un'affermazione di Giorgio Petrocchi, il quale giustamente osservava che pur se oggi « non è assolutamente indispensabile scrivere una storia della letteratura italiana, però è indispensabile pensare in funzione di una storia letteraria, osservare ogni determinato fenomeno in un quadro storico », Manganelli ha dichiarato di non accettare, per entrare nella letteratura italiana, né i binari desanctisiani, né, in generale, un binario « storiografico », ma di preferire un « labirinto » attraverso il quale passare « da uno scrittore a un altro, da un libro in un altro, attraverso aditi, porticine, passaggi che si cancellano appena percorsi, in una situazione estremamente fantasiosa ed irregolare ». A parte il fatto che di solito nei « labirinti » ci si perde, tranne che non si possieda il filo di Arianna (in questo caso il « binario storiografico », non importa se desanctisiano o di qual• siasi altra ispirazione), il discorso di Manganelli presenta un limite che appare fin troppo evidente. In un testo di Borges si parla di « una certa enciclopedia ci• nese » in cui sta scritto che « gli animali si dividono in: a) apparte• nenti all'Imperatore; b) imbalsamati; e) addomesticati; d) maialini di latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione; i) che si agitano follemente j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; l) et caetera; m) che fanno l'amore; n) che da lontano sembrano mosche». Questa tassonomia può anche fare sorridere, ma rivela un modo di pensare assolutamente differente dal nostro. L'autore di Evaristo Carriego non traeva da essa conseguenze di conto; le ha tratte invece Michel Foucault, il quale ha impostato il proprio strutturalismo filosofico sul problema della impossibilità (per noi) di pensare certe cose o pensarle in un certo modo. Ora, Giorgio Manganelli, a nostro avviso, fa proprio questo tipo di discorso: noi pensiamo la letteratura attraverso certe categorie elaborate dalla nostra tradizione culturale (in particolare la categoria della « continuità »); occorre pertanto - per avere una prospettiva completamente nuova - ·rifiutare queste stesse categorie e pensare la storia letteraria con altre e diverse (in particolare, come sembra dimostrare quanto prima gli abbiamo sentito dire, proprio quella foucaultiana della « discontinuità»). Che questa operazione sia intellettualistica ci pare fuori di ogni dubbio; accettare la « discontinuità » (il labirinto, gli aditi, le porticine, i passaggi che- si cancellano appena percorsi) significa togliere dagli studi letterari il problema delle influenze, dei rapporti reciproci, delle dipendenze 19
Girolamo Cotroneo culturali, dell'indagine sulle fonti, addirittura quello della situazione storico-sociale, studiando invece ogni autore « per sé ». Qui siamo addirittura oltre Foucault, il quale lègava entro un « reticolo di necessità » l'intera episteme di un'epoca, ove invece Giorgio Manganelli non vede (o non cerca) nessun legame di necessità fra gli autori che toglie in considerazione. Quali risultati concreti possa dare questo tipo di metodologia è ancora da vedersi. E qui Manganelli ci conferma nell'opinione che avevamo espresso all'inizio intorno alla nostra epoca, ricca di programmi e povera di ricerche concrete o di nuove creazioni. Certo, Manganelli potrà dire che, fino a quando non ci saremo liberati di quelle categorie (la continuità, il divenire, la storicità), pensare diversa1nente è pressoché impossibile. Egli però dovrebbe sapere che le categorie non nascono a caso, ma sono il frutto di un lunghissimo processo di lavoro culturale; pensare di spazzarle via per sostituirle con altre già belle e formate è un'operazione intellettualistica che, come tale, progran1ma molto e produce poco (e tutto ciò senza dire perché mai si debba vedere come assolutamente necessario sostituire la categoria della continuità con quella della discontinuità). Non ci vuole molto per con1prendere che tutto il discorso di Manganelli si sviluppa soprattutto in chiave antistoricistica e antidialettica. La stessa chiave con cui viene sviluppato un altro discorso « demistificatorio », oggi anch'esso di gran moda: quello contro la « gram1natica », rea di essere strumento di classe e di discriminazione. Ha scritto infatti Augusto Simonini sulla rivista « Nuova Generazione» che il ritenere giusto soltanto l'esprimersi secondo la « grammatica » ha un sapore chiaramente « ideologico », pretendendo « di proporre come valori universali quelli che in realtà sono solo espressioni di una classe, a volte di un gruppo ristretto in funzione egemone al vertice della scala sociale ». Discorsi di questo genere avrebbero fatto inorridire (o ridere) Marx, al quale invece essi pretendono di ispirarsi: ma è possibile, viene da chiedersi, che studiosi i quali pensano di potere parlare di questi problemi, che magari riempiono i loro scritti di citazioni di Saussure e di Chomsky, non abbiano mai letto il secondo libro della Scienza nuova di Gia.mbattista Vico, dove avrebbero imparato qualcosa di meglio sull'origine delle lingue e sulla differenza fra « parlati nobili » e « parlati volgari », impedendosi in tal modo di ripetere reiteratamente dei luoghi comuni? La verità è che oggi qualunque tipo di discorso culturale lo si 20
Il giacobinisww culturale vuole a forza incanalare entro uno schema preciso; tutta la « demistificazione » di cui oggi si parla altro non vuole essere che la demolizione sistematica della tradizione culturale europea che sarebbe «borghese», « classista », e così via. Sono luoghi comuni che la più avveduta critica si guarda bene dal ripetere e che sono rimasti nelle mani di certi settori il cui infantilismo politico e culturale (e la cui grossolanità) ha raggiunto ormai forme parossistiche e deliranti. Ma si tratta di un problema che ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento, al quale perciò ritorniamo per vederne la conclusione (la quale, per fortuna, non arriva ad aberrazioni del tipo di quella che abbiamo visto or ora). Essa ci riporta proprio al punto da dove eravamo partiti e cioè al fatto che la tanto decantata « demistificazione » altro non è se non quella normalissima operazione culturale attraverso la quale una generazione modifica antichi criteri per formularne di nuovi, riscopre e rivaluta autori che la generazione precedente non aveva accettato. È un'operazione ricorrente nella storia della cultura, della quale oggi, dopo la lezione crociana sulla « contemporaneità», abbiamo una coscienza che forse le generazioni precedenti non avevano. Ma che sia un'operazione ricorrente non vi è alcun dubbio. Giorgio Petrocchi, infatti, rispondendo « all'invito sulla decapitazione dei busti marmorei », ha detto di credere « che nessun busto possa essere veramente infranto », e che spesso quelli precedentemente infranti « sono poi risorti, magari senza naso ». È un'indicazione precisa, che cog1ie il vero significato della continua revisione critica a cui la storiografia sottopone il passato, cercando in esso le rispondenze che maggiormente appagano il gusto e le tendenze del presente. Così, tutto il discorso, che nell'impostazione originaria voleva essere una frantumazione dei criteri di valutazione che hanno guidato la nostra storia letteraria dal De Sanctis in avanti, si è risolto nell'indicazione della necessità di rivalutare alcuni autori forse ingiustamente trascurati da1la critica precedente e ritenuti, forse a torto, minori. Si tratta di una conclusione che ci pare dia più forza alla nostra tesi: da una parte la nostra epoca non ama più - per precise ragioni storiche - gli « individui cosmico-storici », gli uo.: mini del destino, gli Achilli « che portano nei talloni i fati di Troia»; e questa tendenza si riflette in tutti i campi, non escluso quello letterario. Dall'altra, gli squilibri,· i travagli, le tensioni che viviamo ci allontanano da ciò che ormai è pacifico e cristallizzato in giudizio pressoché definitivo: perciò cerchiamo le figure inquietanti, 21
Girolanio Col roneo ispide, controverse, quelle figure che forse il mondo di Francesco De Sanctis non poteva recepire. Non è quindi un processo sconvolgente che mette in crisi la maniera con cui sinora ci si è accostati alla storia della cultura, visto poi che lo accetta, alla resa dei conti, quello stesso Manganelli che respinge lo stesso modo di essere della storia letteraria come tale. Esso conferma invece un dato costante: anche De Sanctis rimescolava le carte nei confronti di quelli che erano stati il gusto e la tendenza del Settecento europeo. Oggi forse (ma questa è una vecchia operazione: l'aveva già iniziata la scuola filologico-positivistica, quella che Petrocchi ha definito « vallardiana », dei Novati, dei Rossi, dei Flamini; e l'aveva portata avanti, da altra prospettiva, quel desanctisiano del Croce scoprendo e rilanciando tutta una serie di autori « minori ») oggi forse, dicevamo, le carte lasciate da Francesco De Sanctis stanno per essere rimescolate del tutto. Nessuno si sogna neppure di dire che ciò sia un male: solo che per vederlo veramente dobbiamo restare en attendant un nuovo De Sanctis (che speriamo non si faccia attendere alla maniera del Godot di Samuel Beck.ett ). GIROLAMO COTRONEO 22
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