Nord e Sud - anno XVIII - n. 134 - febbraio 1971

Dino Cofrancesco plice fatto psicologico, una sorta di inganno consapevole ordito dai militari (o da coloro che s'impinguano rifornendo i militari di armi o di viveri) ai danni del popolo, come talora sembra incline a ritenere Moore. Nelle guerre di Luigi XIV, ad esempio, egli vede soltanto un mezzo con cui il Re Sole teneva impiega ti i suoi nobili, distogliendoli da progetti ambiziosi di potere all'interno della nazione. Nel nazionalismo giapponese, ancora, individua il terreno d'incontro di determinati interessi agrari e in,dustriali uni ti dal « settorialismo » ai danni di altri interessi agrari e industriali, nonché degli operai e dei contadini. Certamente, sia nel caso del Giappo,ne che in quello ·della Germania, Moore non ignora che i pericoli esterni erano tutt'altro che immaginari, in certi momenti della loro storia, e tuttavia essi gli sembrano soltanto un buon pretesto per incanalare i rapporti di potere tra le classi nazionali entro certi binari. In Germania e in Giappo 1ne, in altre parole, il « fascista » sembrava esistere già in potenza, anche se solo con la guerra esso è passato all'atto. A mio avviso, sarebbe più esatto dire che la guerra - o meglio lo stato di anarchia internazionale e di reciproca diffidenza in cui si trovano le unità statali --- è il terreno che in particolari condizioni storich~ e sociali (oggetto di profonde analisi da parte delle dottrine politiche tradizionali: da Marx a Einaudi) pt1ò produrre l'uomo fascista. La guerra, in altre parole, non è un deus ex machina che giunge dall'esterno a sbrogliare definitivamente una intestina lotta di potere 126 ~ibl'iotecaginob:anco per vo1gerla a· vantaggio di certi protagonisti, ma costitt1isce il condizionamento strutturale che, fin dai primi tempi dell'organizzazione degli Stati nazionali, ha determinato l'ascesa di certi grup,pi e il tramonto di altri. Che si tratti di considerazioni non peregrine è Moore stesso a dimostrarlo, talora con rara perspicacia. Spiegando, ad esempio, le ,libertà inglesi - che egli non intende affatto minimizzare - scrive: « Più in profondità, la causa va cercata nel fatto che tutta la precedente storia inglese, l'affidare la propria difesa più alla marina che all'esercito, l'uso di giudici di pace non pagati al posto di ftmzionari regi, aveva messo nelle mani del governo centrale un apparato repressivo più debole di quello posseduto, dalle forti monarchie continentali » (p. 500). L'insularità britannica, in tal modo, diviene la causa effettiva del volgersi dei nobili - ·inutili come forza militare - al commercio della lana; il loro imborghesimento, a sua volta, porta ad un'alleanza « liberale » contro l'autorità regia e quest'alleanza conduce alla rivoluzione puritana ed inaugura una lunga storia del Parlamento britannico, custode geloso delle libertà. Ma l'Inghilterra, appunto, era un'isola, a differenza della Germania, della Francia e dello stesso ar, cipelago giapponese, che aveva cessato di essere una fortezza naturale quando il Pacifico aveva cominciato a riempirsi di corazzate, di navi da guerra, di bastimenti. È chiaro che in una ben diversa situazione di potere, diversi so110 pure gli esiti dei conflitti sociali o le direzioni poli ti- . che obbligate delle varie forze che

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