Letteratura che popolo trascinato dal fiume degli eventi entro la matrice dell'incoscienza. In questo senso, le riflessioni che il libro propone, e la problematica che lo vivifica, includono Sklovskij, figura ormai canonica della letteratura sovietica e sinceramente convinto che « siamo alla fine del periodo borghese della storia umana», in un ambito culturale che si potreb be definire « occidentale », ma che più esattamente appartiene a tutta un'epoca, quella che termina alle soglie dell'ultimo dopoguerra. La sua è, insomma, la generazione del dubbio, degli interrogativi, che condivide la « paura » che coglieva Tolstoj di fronte alla constatazione che « Beethoven e Puskin non sono sempre comprensibili». Egli infatti suggerisce un approccio all'arte fedele al modello marxista. Ma insieme non nasconde l'intimo disagio di chi sente incolmabile la frattura tra cultura e non cultura, onde afferma che « per capire bisogna sapere»; nonché il dubbio, tormentoso per ogni intellettuale, sulla reale « utilità» del passato, dubbio che è risolto, pur se non tarda a ricomparire, puntualmente confessato e registrato, secondo uno scoperto umanesimo scolastico. Così, egli parla di Apuleio e di Boccaccio, così lontani da noi « perché è più facile sostenere una analisi su materiale storico» e « perché occorre anche il passato remoto per comprendere l'odierno»; che è, tutto sommato, una excusatio abbastanza scontata. Ma soprattutto li studia, come afferma citando Cernysevskij, perché « occorre domandarsi se in queste bare giacciono proprio dei morti, se non ci siano stati chiusi, per caso, dei vivi ». L'arte secondo lui serve per sentire, comprendere, e in definitiva vivere, in maniera più profonda. È uno strumento dato all'uomo per dilatare i confini del suo regno, perché egli « è stato creato anche per ciò che è eccezionale», e in essa ritrova « ciò che avrebbe potuto essere e, quanto a lui, avrebbe dovuto essere», cosicché, nella tragedia e nello scherzo « muta la pelle della vecchia coscienza». Se tra chi ha letto Boccaccio, o Swift, o Omero, e chi non lo ha letto vi è una barriera di incomprensione, Sklovskij pensa che per abbatterla basti chè conoscerli sia possibile a tutti. È anzi indicativo di un certo clima spirituale, che egli non si chieda neppure se la cultura in cui fu educato sia, davvero, universalmente valida. E qui è suggestivo un accostamento. Garin 6 , parlando delle vicende del « Politecnico» di Vittorini nell'ultimo dopoguerra, lo ritiene legato alla allora comune opinione degli intellettuali che « la cultura per migliorare il mondo nella direzione auspicata, non doveva tanto diventare un'altra cultura, mutare qualitativamente, facendosi altra da quel che era stata; bastava che cercasse di diffondersi, di diventare patrimonio di più uomini, di guadagnare quantitativamente». Tornando a Sklovskij, egli, dunque, è parente dell' « impolitico » Mann, di Camus, di Eliot, della no6 LUPORINI, Rigore della .cultura, in « Società», 1946, n. 5. 125 BibliotecaGino Bianco
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