Nord e Sud - anno XII - n. 64 - aprile 1965

.I Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Rosellina Balbi, l'investimento nel futuro Aristide Savignano, Le due anime della magistratu:ra - Ernesto Mazzetti, La questio1ie universitaria - Giulio De Luca, Napoli e la 16 7 - Gioacchino Forte, La "persuasione" a fumetti. e scritti di Giovanni Aliberti, Umberto Caldora, Vittor lvo Comparato, Giorgio Granata, Gaetano Greco-Naccarato, Francesco Ottomano, Antonio Rao, Giuseppe Sacco, Alfonso Scirocco. ANNO XII - NUOVA SERIE - APRILE 1965 - N. 64 (125) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI iblioteca Gino Bianco

Biblioteca Gino Bianco

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XII - APRILE 1965 - N. 64 (125) DIREZIONE E REDAZIONE: N a po I i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.309 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità : EDIZIONI SCIENTIFICI-IE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - N a po I i - Telef. 393.346- 393.309 Una copia L. 400 - Estero L. 500 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuaie L. 4.000, semestrale L. 2.100 - Estero annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli BibliotecaGino Bianco

SOMMARIO Editoriale (3] Rosellina Balbi L'investimento nel futuro [7] Aristide Savignano Le due ani1ne della magistratura [20] Ernesto Mazzetti Francesco Ottomano Giorgio Granata Giuseppe Sacco Note della Redazione Il « gruppo• di Bari » - « Punti franchi » - L'uomo giusto al posto giusto [30] Giornale a più voci La qu.estione universitaria [37] Cronache costititzionali [ 43] Esperienze di geografia applicata [ 47] Gollisti, co,munisti e « vecchi partiti » [ 51] Inchieste Antonio Rao La «conurbazione» napoletana [58] Paesi e città Giulio De Luca Napoli e la 167 [80] Argomenti Gioacchino Forte La « persuasione » a fumetti [93] Umberto Caldora Giovanni Aliberti Vittor Ivo Comparato Alfonso Scirocco Recensioni L'antologia che nzancava [108] Meridionalisti conservatori e democratici [ 111] I moderati e il brigantaggio dopo l'Unità [117] Uomini e cose del vecchio regno [122] Lettere al Direttore G. Greco-Naccarato L'Università in Calabria [126] Biblioteca Gino Bianco

Editoriale Il recente congresso del partito repubblicano h.a fornito una nuova riprova dell'importanza che le minoranze coalizzate intorno a punti programmatici di grande rilievo, svolti con la necessaria chiarezza e coerenza, e guidate da leaders tanto cultural1nente provveduti quanto politicamente responsabili e risoluti, possono esercitare in un regime di democrazia di massa, anche quando, per avventitra, le loro forze siano o appaiano esigue sul piano elettorale ed organizzativo. Nel caso del partito repubblicano, i punti program1natici che hanno dato e danno ad esso la possibilità di inserirsi ed agire alla giuntura di articolazioni decisive dello schieramento politico italiano sono stati sviluppati, come è noto, nell'ambito dell'originaria forn1azione e ispirazione rrLazziniana del partito, sulla falsariga di quelli cl1e l'esperienza del rrro1zdocon.temporaneo ha dimostrato essere in Europa e in Italia i compiti irrinunziabili di una democrazia moderna, che non voglia né trascinarsi come ordinaria amministrazione di un regime di fatto, senza le civiche sollecitazioni al progresso che sono proprie dei sistemi politici dotati di effettiva vitalità, né abdicare in anticipo per crollare di schianto dinanzi alle pressioni antidemocratiche alimentate dalla vita contemporanea il giorno in cui esse dovessero superare un determinato punto critico. È così che il partito repubblicano ha le sue posizioni sui grandi problemi del nostro tempo e del nostro paese e che l'europeismo, il meridio-nalismo, la solidarietà atlantica, la resistenza democratica alle pressioni di destra e di sinistra, il rinnovamento istituzionale, lo sviluppo economico, il progresso sociale, la tradizione laica e risorgimentale hanno trovato in esso una forza elaboratrice e propulsiva che, tenuto conto delle dimensioni, non si è rivelata seconda ad alcun altro gruppo politico italiano ed è anzi stata assai spesso all'avanguardia o su posizioni di rigorosa intransigenza, attendendo e ricevendo dal tempo la convalida dei propri atteggiamenti. Le previsioni di coloro che annunciavano una rapida dissoluzione della consistenza del partito nella stretta delle maggiori_ forze politiche . e nella logica del sistema proporzionale in una democrazia di massa non si sono perciò avverate e, al contrario, il partito non solo ha dimostrato di aver iniziato, dopo il pitnto più basso toccato nelle elezioni del 1958, un movimento di ripresa elettorale ed organizzativa che sembra suscettibile di considerevoli sviluppi, ma ha anche superato nella sita distribuzione territoriale quell'accentuata presenza in alcune regioni e centri 3 BibliotecaGino Bianco

Editoriale tradizionali che lo ha a lungo caratterizzato e si è co!lfigurato come una forza piccola, n,za dotata di una struttura e di una capacità rappresentativa veramente nazionali. Il fatto nuovo di quest'ultimo congresso è stata indubbiamente la parte di responsabilità politica e ideologica che si sono assunta i giovani del partito maturati intorno a La Malf a e nella suggestione della sua azione. Il documento congressuale da essi prese1ztato è un non. comune esempio di sensibilità e di intelligenza dinanzi ai problemi della società contemporanea e, insieme, un non coniune esempio di capacità di non siLbire deterministicamente q11elle che appaiono le spinte di fondo del movimento storico, ma anzi di accettarne la sfida replicando ad esse con una coraggiosa i-niziativa. Il fatto che le posizioni sostenute da questa nuova generazione di repubblicani siano state sostanzialmente accettate dal congresso è, a nostro avviso, la confern1a di quella vitalità del vecchio partito risorghnentale alla quale abbiamo già accennato. Ma ciò che ci sembra più importante è la coscienza dei propri compiti e delle proprie respo11sabilità nelle prospettive politiche attuali del nostro paese che il partito ha dimostrato sia nella elaborazione fattane nel documento testé ricordato sia nel discorso congressitale dell'on. La Malfa, indubbiamente uno dei migliori che il leader repubblicano abbia pronunciato nella sua lunga niilizia politica. Potra sembrare a qualche osservatore frettoloso o superficiale che parlare di autonomia del partito anche dinanzi alle prospettive di unificazione socialista o di articolazione unitaria della sinistra italiana che si pongono da qualche tempo sia, da parte dei repubblicani, una prova di presunzione non giustificata né dai rapporti di forza né dal calcolo e dall'opportunità politica. E in effetti discorsi in questo senso sono stati fatti anche al congresso del partito. In realtà non è su questa base che il discorso va condotto, perché l'autonomia cfze i repubblicani in anticipo sosterzgono per sé non è quella che deve servire ad un'azione isolata di rivendicazione o di affermazione politica, ma è precisamente quella che si pone come una base costruttiva e uno sforzo di mediazione proprio in vista della più larga articolazione denzocratica possibile dello schieramento politico italiano. Naturalmente, è implicito in questa posizione un preciso giudizio politico e ideologico, per cui si prevede che lo syiluppo della società contemporanea consentirà sempre più di uscire dalle dramn1atiche antitesi senza alternative del recente passato e di oggi: capitalismo-socialismo, rivolu.zione-reazione etc. Ma chi potrà negare che la collaborazione tra le forze den1ocratiche del cattolicesimo e del socialismo italiani sia la sola prospettiva realisticaniente valida per tutto il futuro prevedibile della lotta politica nel nostro paese? Chi 4 BibliotecaGino Bianco

Editoriale potrà negare che i repubblicani hanno già dimQstrato di saper sollecitare nel migliore dei modi quest'incontro e di saperne essere il prezioso cemento? E chi potrà negare che l'autonomia del partito è una garanzia sicura di tale funzione non solo per i repubblicani, ma per tutta la democrazia italiana? L'unità d'azione tra i partiti della sinistra laica e democratica, che l'attitale Presidente della Repitbblica sostenne con tanta lucidità illustrando la necessità che essi badino più alle affinità che li uniscono anziché alle asperità che li dividono, è per noi un concetto normativo del gioco democratico italiarLo, ma non è detto che la n1igliore strumentazione di esso sia l'unificazione tout court di tutti i partiti interessati. Allo stesso modo, una posizione autonon1istica di questo genere presuppone da parte dei repubblicani un irnpegno di revisione assidua delle pro-prie assunzioni ideologiche e politiche ancora più spinto di quanto essi hanno dimostrato in tutti questi anni. Ma è anche indubbio che proprio un tale impegno può continuare ad essere, come è già stato, un fermento prezioso della cultura e della vita politica italiane. Non si può dimenticare che il partito repubblicano ha costituito da venti anni a questa parte un luogo di incontro che si è dimostrato singolarmente favorevole alla convivenza e alla reciproca compenetrazione di moralità mazziniana, di concretezza salverniniana, di cultura storicistica, di moderno spirito radicale. Il « laicismo » del partito è consistito, nel senso più prof onda del termine, proprio e innanzitutto nella spregiudicatezza con la quale una vecchia tradizione è stata innovata, senza venir tradita, e preparata a nuove e non ,-,zenofeco11de rielaborazioni. Quell'opera, apparentemente ambiziosa, di confronto e di revisione critica nei confronti di tutta la sinistra che l' on. La lvi.alfa ha rivendicato, dopo il congresso, al suo partito non è, dunque, nitlla di più di quanto in effetti i repubblicani già fanno da tempo e che sarebbe perduto, con danno di tutti, se, in una prospettiva a più o 1neno breve scadenza, essi vi rinunziassero per confluire nell'ambito di forze che hanno anch'esse proprie tradizioni e ragioni da portare avanti e alle quali un metro indipendente di misura e di confronto è egualmente prezioso. Per quanto riguarda l'attualità politica più immediata, il congresso repubblicano non poteva che confermare nel modo · più energico la adesione alla maggioranza di centro-sinistra e al governo da essa espresso. I commentatori hanno sottolineato, a questo riguardo, una differenza tra la posizione dell'on. Reale e quella dell'on. La Malfa. A noi la differenza non sembra inesistente, ma senzbra consistere assai più nel tono che nella sostanza delle posizioni dei due leaders. L'orL. Reale ha sotto• lineato l'opera concreta, ancorché silenziosa, del governo presieduta 5 BibliotecaGino Bianco

Editoriale dall'on. Moro e la lealtà con la quale esso v!ene a_dempiendo ai suoi impegni. L'o11. La Malfa ha sottolirieato la necessità di imprimere all'azione di governo tln tono più vigoroso, n1a i commentatori interessati hanno dimenticato di osserva.re che questo discorso non si rivolgeva soltanto al governo come tale, ben,sì anc11e e innanzitutto ai partiti che lo sostengorto, ai ceti i1nprenditoriali e ai sindacati operai, e perfino alla stessa opposizione. Ciò posto, il discorso dell'on. La Malfa va visto come un nuovo e giustificato richiamo a quei problemi della società italiana che non possono essere risolti iLnicamente a livello di governo, ma richiedono una previa trasformazione di tutto il nostro costume politico; e in questo senso, lungi dal segnare il germe di una divisione all'interno del partito repubblicano, esso è un appello ad una più coraggiosa assunzione di responsabilità e ad una più approfondita meditazione sulle proprie posizioni da parte di tutte le forze che hanno o possono avere influenza determinante nello svolgimento della vita politica e sociale del nostro paese. ., 6 BibliotecaGino Bianco

L'investimento nel futuro di Rosellina Balbi Non è azzardato prevedere che un capitolo almeno del Piano Pieraccini - e precisamente quello dedicato ai problemi della ricerca scientifica e tecnologica - sia destinato a non incontrare, nel Parlamento come nel paese, riprovazioni troppo severe. Per meglio dire, non è affatto escluso che si levi, in proposito, più di una voce discorde; ma ciò unicamente nel senso che lo sforzo previsto dallo Stato in questo settore sarà probabilmente giudicato troppo modesto, se non altro in relazione alla vastità e all'importanza dei compiti che l'impegno pubblico è chiamato ad affrontare. Non sarà inutile aggiungere, a chiarimento di quanto si è or ora detto, che - una volta completato l'intervento stabilito dal Piano nel settore della ricerca scientifica - l'Italia si troverà a spendere, in questo can1po, quanto - in proporzione - viene oggi speso dal piccolo Lussemburgo (e, poiché è da ritenersi che, nel corso dei prossimi cinque anni, il Lussemburgo aumenterà anch'esso, come vanno facendo tutti i paesi, la consistenza dei propri stanziamenti in questo settore, è legittimo prevedere che le distanze resteranno press'a poco immutate). Quanto agli altri paesi europei (degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica è fin troppo noto lo sforzo gigantesco, anche se, per motivi facilmente intuibili, tale sforzo viene concentrato in alcuni settori della ricerca, a preferenza di altri), possiamo soltanto dire che, a differenza di quanto si è fin qui verificato da noi, in essi non è stata sottovalutata l'importanza della rivoluzione scientifica che ha luogo nel nostro tempo, e la necessità di coordinarne, promuoverne e controllarne lo sviluppo. Del resto, le cifre sono di per sé eloquenti: la Gran Bretagna investe annualmente nella ricerca scientifica il 2% circa del suo reddito nazionale; l'Olanda, 1'1,3; la Repubblica federale tedesca (la quale, peraltro, ha già espresso ufficialmente il proposito di increm~ntare il proprio sforzo), 1'1,2%; la Francia, 1'1%. In Italia, fino a questo momento, non viene superata la percentuale dello 0,3%. Anche la Svizzera e la Svezia, del resto, hanno conseguito, in questo settore, risultati di gran lunga superiori ai nostri. È stato lo stesso Ministro per la Ricerca, senatore Arnaudi, a sottolineare, nel corso di un recente convegno, la posizione di vantaggio che questi due paesi occu7 Bib-lioteca Gino Bianco

Rosellina Balbi pano, rispetto all'Italia, per quanto si riferisce al settore dei bre, etti, nonché la forte concorrenza che essi sono in: grado di esercitare nei nostri confronti sul mercato internazionale. D'altra parte, le questioni da risolvere, in questo campo, non sono di ordine puramente finanziario. Vi è, naturalmente, un problema di scelta politica; e no11 si può non ricordare, a questo punto, la limpidezza della visione del Premier inglese Wilson e la fermezza di certe sue dichiarazioni: « In una recente intervista mi venne chiesto a quale parola soprattutto associassi il socialismo di oggi. Risposi che, se questa parola esisteva, essa non poteva essere che la ' scienza'... La preparazione degli sci·enziati, la mobilitazione della ricerca scientifica e l'applicazione della scienza all'industria: saranno questi, io credo, gli obiettivi fondamentali del socialismo britannico nella prossima generazione ». E ancora: « La rivoluzione scientifica determinerà automaticamente una rivoluzione sociale ed economica... sarà la rivoluzione di tutto il nostro popolo » 1 • In Italia, prima ancora di porci il problema di come controllare la rivoluzione scientifica, dobbiamo chiederci in qual modo potremo superare la situazione di vera e propria ·paralisi in cui, con un limitatissimo numero di eccezioni, versa attualmente il lavoro di ricerca. Dicevamo che i problemi da risolvere non sono di natura puramente finanziaria (e comunque, non si tratta soltanto di spendere di più, ma anche di spendere meglio); molti di essi investono la struttura stessa della ricerca: certe disfunzioni dei nostri istituti universitari, la situazione di « sudditanza » dei ricercatori che non abbiano conquistato una cattedra, nei confronti dei Direttori di istituto, il fatto che molto spesso non esiste rapporto alcuno tra la produttività scientifica dello studioso e le sue prospettive di carriera, l'insoddisfacente livello delle attrezzature tecniche (appena un terzo degli istituti scientifici che svolgono ricerche applicate si dichiararono forniti di attrezzature soddisfacenti), certe lungaggini burocratiche, l'inadeguatezza delle strutture organizzative. Accanto a questi problemi « veccl1i » non ancora risolti, se ne pongono dei nuovi, e di importanza tutt'altro che trascurabile. Vi è, per esempio, il problema delle priorità (in quali settori della ricerca concentrare gli sforzi) e quello - che, a nostro avviso, si ricollega al precedente - delle scelte territoriali. Ci spieghiamo subito. Per quanto riguarda i settori da stimolare con impegno particolare, il Piano Pieraccini è esplicito: « .. .lo studio dell'approvigionamento idrico, con speciale riguardo ai procedimenti d.i desalinizzazione; dell'industrializzazione del1 HAROLDWrLSON, La politica dei laburisti, Ed. Comunità, 1964. 8 Biblioeca Gino Bianco

L'investinie11to nel futiLro l'edilizia; della meccanizzazione integrale delle aziende agricole; delle risorse marine e del fondo del mare; della biopatologia sperimentale e in particolare della virologia; dell'automazione dell'industria meccanica, con speciale riguardo al settore delle macchine utensili; dello sfruttamento delle energie endogene ». E si dice anche che non ci si dovrà limitare a rafforzare e riorganizzare le unità di ricerca esistenti, ma occorrerà anche creare strutture nuove « nelle località e nei settori dove esse sono particolarmente carenti ». Noi avremmo così completato la frase: e dove il loro insediamento risulta particolarmente vantaggioso. Intendiamo riferirci, con ciò, all'opportunità di creare i nuovi centri di ricerca in località del Mezzogiorno; e questo per un complesso di considerazioni. Anzitutto, il programma di ricerca previsto dal piano è tale da interessare in modo particolarissimo il Mezzogiorno (si pensi soltanto agli studi relativi ai processi di desalinizzazione dell'acqua di mare - studi che già oggi vengono condotti con notevole impegno a Bari - o allo sfruttamento delle risorse marine). In secondo luogo, non bisogna dimenticare l'ubicazione delle centrali termo-nucleari, che rappresenta di per sé un preciso punto di riferimento per qualsiasi nuovo insediamento nel settore scientifico e tecnologico. In terzo luogo, va sottolineato il fatto che già esistono, nel Mezzogiorno, istituti scientifici di altissimo livello e di fama internazionale, anche fuori delle Università (come, per esempio, il Laborator.io internazionale di genetica e biofisica, a Napoli, e, sempre a Napoli, la Stazione Zoologica - o Aquarium -, dove lavorano studiosi provenienti da ogni parte del mondo). Finalmente, occorre tener presente lo stretto rapporto di interdipendenza che, alla luce di quanto è avvenuto in altri paesi, può e deve stabilirsi tra lo sviluppo dell'attività di ricerca e la valorizzazione « turistica » di certe zone: in Francia, per esempio, le regioni dotate di una forza di attrazione « turistica » hanno ma11ifestato una maggiore capacità di richiamo, rispetto alle altre, nei confronti delle élites scientifiche, e quindi nei confronti degli insediamenti delle industrie di avanguardia; mentre, a loro volta, i centri di ricerca scientifica hanno contribuito notevolmente alla valorizzazione turistica delle località in cui sono stati insediati. Per tutti questi motivi, dunque, il ~iscorso sulla creazione di nuove strutture per la ricerca scientifica dovrebbe essere inserito nel più generale discorso sulla creazione, nel Mezzogiorno, di << poli » e di « assi » turistico-industriali. . Come si vede, dunque, l'argomento è estremamente complesso, e merita di essere approfondito nei suoi molteplici aspetti. Per conto 9 BibliotecaGino Bianco

Rosellina Balbi nostro, ci ripromettiamo di tornarvi sopra al più presto, tentando di avviare un discorso che sia sufficientemente articolato, anche in rap- - porto alle esperienze di altri paesi. Per il momento, ci sembra interessante soffer1narci sul clima « psicologico » nel quale si dà avvio a questa operazione di rilancio (o, se si preferisce, di modesto lancio) della ricerca scientifica in Italia. A qualcuno, forse, questo potrà sembrare un aspetto marginale del problema. Pure, è innegabile che certe scelte possono tradursi in realtà vive ed operanti nella misura in cui vengono accettate e fatte proprie dall'intera comunità: non è quindi inutile, riteniamo, chiedersi se esista, nel nostro paese, quella che si definisce « coscienza scientifica ». Per quanto riguarda la classe economica, la risposta non può essere che affermativa. Le maggiori industrie italiane - sia pure perseguendo fini di natura particolare, e quindi entro limiti ben precisi - investono già da tempo, infatti, cifre considerevoli negli studi di ricerca applicata (arrivando a spendere, talvolta, fino al 4% del proprio fatturato annuo). È probabile che il professor Giulio Natta non sarebbe riuscito, a completare i propri studi sulle macromolecole (e ad ottenere, di conseguenza, il Premio Nobel), se non avesse potuto contare sul sostegno della Montecatini: « Durante un anno delle mie ricerche » rivelò lo stesso professor Natta ad Alberto Cavallari « io ebbi tre milioni dall'università e quattrocento dall'industria privata » 2 • E se, come da più parti viene suggerito, si disponessero esenzioni fiscali per il capitale impiegato nella ricerca - seguendo in ciò l'esempio degli Stati Uniti d'America - non v'è , dubbio che l'industria privata accentuerebbe vigorosamente il suo sforzo in questa direzione (tranne che nel settore degli studi farmacologici, dove la vigente legislazione, non prevedendo brevetti, finisce per annullare qualsiasi stimolo alla ricerca : ed anche questo è un discorso che, un giorno o l'altro, bisognerà pure decidersi a fare). Anche al livello della classe politica l'importanza della ricerca scientifica comincia ad essere avvertita in tutto il suo peso: nel senso che si va facendo strada la consapevolezza che i gravi problemi da affrontare - dal nostro paese così come dall'intera comunità umana - potranno essere risolti solamente grazie agli strumenti che la scienza e la tecnica sono in grado di offrire; e che, viceversa, questi stessi strumenti possono determinare effetti catastrofici, se non vengono convenientemente controllati. Sono cose, queste, che nessun politico può permettersi di ignorare. Basti pensare alle spaventose proporzioni che. potrebbe assumere la disoccupazione, una volta portata a termine la rivoluzione dell'automazione: Wilson ha scritto che, secondo taluni calcoli, « per con2 ALBERTO CAVALLARI, L'Europa intelligente, Rizzoli, 1963. 10 BibliotecaGino Bianco

L'investimento nel futuro servare il pieno impiego, gli Stati Uniti dovranno creare, entro il 1970, quaranta milioni di nuovi posti di lavoro » 3 • Ma qual è l'atteggiamento dell'uomo comune? Qui non si può fare distinzione tra ciò che accade in Italia e ciò che accade negli altri paesi di analogo livello civile. Il tema della ricerca scientifica non è mai stato tanto popolare in tutto il mondo. Più che di « coscienza scientifica », peraltro, si deve parlare di una vera e propria « mitizzazione » della scienza. Di fronte alla pubblica opinione, lo scienziato si configura press'a poco come il genio della lampada di Aladino: un dispensatore di prodigi, che, grazie a un satellite artificiale, ci consente di vedere con i nostri occhi, e senza muoverci da casa nostra, i Giochi olimpici che hanno luogo all'altro capo del globo; che ci ha fatto vedere l'altra faccia della Luna; che ci ha liberati dall'incubo di malattie, il cui solo nome, in tempi ancora recenti, era sinonimo di terrore e di morte. E non basta. Siamo tutti profo11damente convinti che quanto non è stato ancora conquistato dalla scienza, lo sarà tra poco: i viaggi interplanetari stanno per avere inizio, e forse ci troviamo anche alla vigilia - perché no? l'ottimismo scientifico non conosce confini - della vittoria sui mali che ancora oggi vengono definiti incurabili. Scienza e fantascienza si confondono dunque in una specie di abbagliante girandola; si direbbe quasi che siamo ritornati all'epoca in cui gli uomini si affidavano ciecamente, per risolvere i loro personali problemi, all'astrologia ed a11a magia. D'altra parte, il nuovo linguaggio della scienza è sufficientemente esoterico per suonare, ad orecchi profani, press'a poco come dovevano suonare le antiche formule cabalistiche agli orecchi dei nostri antenati del Medioevo. È pur vero che, oggi, l'uomo non ignora che i risultati scientifici sono fondati sull'osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione razionale; egli sa che la liberazione di energia nucleare, ad esempio, non è il segno dell'ira di una potenza sovrumana, sa che « l'antica notte di Valpurga » è finita per sempre. E tuttavia, anche se la sua visione del mondo è cambiata, non per questo l'uomo è in grado di sentirsi direttamente partecipe della grande impresa volta a dominare la natura; col passare del tempo, anzi, le sue possibilità di comprensione sembrano farsi sempre più ridotte. Quando ai nostri nonni veniva detto che la tubercolosi non è provocata da uno spirito maligno che si impossessa del nostro corpo, bensì dall'azione di un organismo vivente, essi potevano - naturalmente entro certi limiti - sincerarsene direttamente, osservando il bacillo di Koch nel 3 H. WILSON, op. cit. 11 BibliotecaGino Bianco

• Rosellina Balbi vetrino di un microscopio. E, come scrive J. R. Oppenheimer, « parecchi degli aspetti trattati dalla legge di Newton: erano ragionevolmente - accessibili all'esperienza comune », così come si può supporre che « la comprensione dell'opera di Darwin non presentasse, per il profano, difficoltà insormontabili » 4 • Parimenti, « nella scossa provocata da Freud ci siamo trovati nuovamente di fronte a una situazione in cui il suo lavoro si rifaceva largamente... a esperienze che la gente poteva verificare ». Ma oggi? Oggi, se vi sono scienze - quale, ad esempio, la biologia - che parlano tuttora un lingl1aggio largamente comprensibile al profano, ve ne sono altre - e proprio quelle che in più larga misura incidono sulla nostra civiltà - che sembrano fluttuare in un'atmosfera rarefatta, in una specie di terza dimensione. Uno scienziato ,di formazione umanistica, come J acob Brono\vski, sostiene che non è tanto l'uomo comune ad essere « sordo », quanto lo specialista ad essere « muto» (onde sarebbe la pigrizia, o un pregiudizio infondato, a privarci degli « intensi piaceri intellettuali della scienza »). Ma se possiamo concordare con Bronowski sul fatto che esiste un unico tipo di attività creativa (nell'arte come nella scienza: e si badi a non confondere la scienza con la tecnica), come pure sul fatto che non a caso i periodi di fulgore artistico hanno sempre coinciso, in passato, con quelli di un vigoroso progresso della scienza, dobbiamo esprimere qualche riserva sull'affermazione di Bronowski, secondo la quale tutti sarebbero in grado di ascoltare la scienza. Vi sono infatti delle scienze, come la fisica, che si trovano oggi « in anticipo » non soltanto rispetto alle altre, 1na rispetto alla possibilità stessa di stabilire una comunicazione con coloro che non appartengono alla c-erchia degli « iniziati ». « Noi fisici », scrive ancora Oppenhei1ner, « parliamo di cose che in nessun modo entrano a far parte dell'esperienza di un profano. La maggior parte delle cose di cui parliamo nella nostra vita professionàle non entrano a far parte dell'esperienza neppure dei chimici e dei biologi ». Questa inaccessibilità della fisica sarebbe dovuta, per Oppenheimer, al fatto che si tratta di una scienza antica e specializzata. E tuttavia, vi sono altre scienze almeno altrettanto antiche e specializzate: la medicina, per esempio. Pure, la medicina si avvale tuttora di un linguaggio che non si discosta poi molto da quello del « s·enso comune ». Come spiegare, allora, questa specie di « sperequazione semantica»? Qualcuno potrebbe attribuirla al fatto che la medicina è una scienza volta all'esplorazione del mistero umano· - è, per 4 Cfr. Scienza e cultura oggi, a cura di Gerard Holton, Boringhieri, 1962. Così per le altre citazioni di Oppenheimer. 12 BibliotecaGino Bianco

L'investù-nento nel futuro così dire, una scienza « animata » -, mentre la fisica, malgrado le sue applicazioni, così terribilmente concrete, resta pur sempre una scienza esterna all'uomo, « inanimata ». O forse lo squilibrio, nel campo del linguaggio, deriva da quello squilibrio di « tempi », al quale or ora accennavamo, tra il progresso della fisica e quello delle altre attività umane. Che lo squilibrio ci sia, appare comunque innegabile: e quello semantico ne maschera uno più sostanziale. D'altra parte, proprio perché il precipitoso progresso della fisica ha rivoluzionato, in un breve volgere di tempo, la condizione umana, gli uomini, pur senza comprenderla, non possono ignorarla. V'è di più: agli occhi della maggioranza, la fisica riassume in sé il concetto stesso di scienza. E ciò non fa che qualificare ancor maggiormente l'immagine dello scienziato come quella di un moderno Cagliostro, capace di ma11eggiare (nel bene e nel male) forze sconosciute, e di piegarle al proprio volere. Anche lo scienziato, dunque, ha un suo mito; che non è certo quello dell'eroe di massa: divo del cinema, o cantante di canzonette, o giocatore di calcio. Nessuno vorrebbe identificarsi con gli uomini di scienza; essi appartengono pur sempre ad una « razza di uomini di laboratorio, con occhiali cerchiati di acciaio, con dita ingiallite dagli acidi e senza una casa ». Nessuno si fa calpestare per ottenere un loro autografo, così come può avvenire per Elizabeth Taylor, per Sean Connery o per i Beatles. Nei loro confronti si prova soltanto un rispetto molto distaccato, fors'anche gelido. Ma nella loro opera si ha fede. A questa fede « di massa» nella scienza (e alla ferma volontà di strumentalizzarla, da parte dei Governi) fa riscontro la diffidenza, spesso l'ostilità degli uomini di cultura. Su questo argomento si vanno trascinando, anche in Italia, intern1inabili discussioni, spesso votate alla sterilità. D'altra parte, non va trascurato il fatto che la rivoluzione scientifica, proprio per la sua immensa portata, non può mancare di riflettersi sulla visione che oggi abbiamo del mondo. È un po' quanto accadde nel secolo diciottesimo, dopo le conquiste scientifiche del Seicento: i filosofi di quel tempo, infatti, « ci appaiono impegnati. .. a fronteggiare le conseguenze apparentemente catastrofiche delle nuove idee scientifiche che stavano filtrando nel modo di .pensare dell'uomo della strada, reinterpretando e rielaborando la tradizione umanistica dominante ». La riflessione su questi temi non è dunque inutile. Senza dire che il progresso tecnico, rappresentando un formidabile strumento di liberazione dalla fame, dalla miseria, dal freddo e dalle malattie, pone anche dei problemi di « pianificazione culturale »: basti pensare al problema del rinnovamento delle istituzioni scolastiche, la cui urgen13 BibliotecaGino Bianco •

• Rosellina Balbi za, specie nel nostro paese, è così viva. Si dirà che, di questi problemi, debbono interessarsi i politici. Ma i politici sono pu·r sempre l'espressione di una determinata cultura. Perciò, anche a voler tenere conto unicamente dell'aspetto « operativo » di certe discussioni, non è possibile, ci sembra, ignorarle; e sia pure per auspicarne il superamento. Qual'è, dunque, la radice prima di certi atteggiamenti di rifiuto, nei confronti di un mondo dominato dalla scienza? A ben guardare, sono stati gli stessi scienziati ad alimentare dubbi e scetticismi sulla « verità oggettiva » del pensiero scientifico. Il tempo delle gloriose certezze è tramontato: la teoria della relatività e la teoria quantistica hanno distrutto brutalmente quella che fu definita la « religione cosmica ». Proprio nel momento in cui il suo mito trionfa e si espande, la scienza si è fatta umile: essa è consapevole ·di poterci offrire, tutt'al più, un sistema di previsioni approssimative; le sue leggi sono soltanto le leggi della probabilità. E la probabilità, per chi muove alla ricerca di universali certezze, « ha un suono senza speranza ». Ma non è questo, crediamo, ad avere scavato l'abisso tra le due « culture ». Al contrario, il fatto che, nella scienza, alla « ansia di certezza » sia subentrata « l'ansia di conoscere » ( che, cioè, sia tramontata la concezione della scienza come depositaria di verità assolute, basata su una visione meccanicamente deter1ninistica) ha fatto cadere la necessità - tanto giustamente avvertita, per esempio, dall'idealismo storicistico - di « innalzare una cintura di protezione contro -una visione della realtà che negava ogni iniziativa critica all'uomo, e conseguentemente ogni interpretazione dinamica dei fatti » 5 • Se un conflitto c'è, questo, più che riguardare la questione dell'autonomia della scienza dalla filosofia, riguarda il pragmatismo tecnologico e il pericolo che esso si proponga come esclusivo modello culturale (e in tal modo, come osservava Girolamo Cotroneo su queste stesse colonne, si ripristinerebbe, capovolgendone la disposizione, il vecchio conflitto tra arti liberali e arti meccaniche). E qui, ci perdonino i lettori, no•n possiamo non tirare in causa Charles P. Snow. È certo che, nel dare alle stampe il testo della conferenza da lui tenuta a Cambridge nel 1959, .Snow non immaginava neppure lontanamen~e le ripercussioni, su scala mondiale, che quella pubblicazione avrebbe provocate. E invece, come egli stesso racconta, « non passò un anno, che cominciai a sentirmi nella scomoda posizione di un apprendista stregone »; quantunque già altri, prima di lui, avessero trattato 5 FRANz BRUNETTI, Ricerca scientifica e dimensione storica, Ed. Barbèra, 1964. 14 BibJiotecaGino Bianco

L'investi1nento nel futuro lo stesso tema, sembrò che, con quella sua conferenza, Snow avesse fatto saltare la diga di un torrente. Non abbiamo alcuna intenzione di soffermarci sul significato che lo scrittore inglese dà al termine « cultura », e neppure addentrarci nelle polemiche sulla legittimità, o comunque sui limiti, del suo discorso. Ma c'è una frase di Snow che ci sembra, pur nel suo semplicismo, abbastanza illuminante. Egli dice, infatti, che mentre gli scienziati « hanno il futuro nel sangue », la risposta degli umanisti sarebbe quella di auspicare « che non ci sia il futuro ». Può essere interessante ricordare che un punto di vista non troppo dissimile è stato espresso da un un-ianista, e precisamente da Howard Mumford Jones, professore di inglese a Harvard. Jones si rifà ad una sua lontana esperienza (siamo negli anni trenta) in un « gruppo di ricerca» - composto da scienziati e da letterati - dell'Università del Michigan. « Se in un certo a11no », racconta lo studioso, « cadeva l'anniversario di un grande scienziato o di un grande letterato morto e sepolto, il gruppo di ricerca dedicava una delle sue sessioni mensili alla vita e alla carriera dell'illustre scomparso. E fu precisamente a questo punto», continua Jones, « che ebbe inizio la mia educazione al problema della comunicazione, o dell'assenza di comunicazione, fra lo scienziato e il letterato. Mi sembrò, infatti, che quando il programma costringeva uno scienziato a parlare del lavoro di un genio morto e sepolto, quello si sentisse quasi invariabilmente a disagio; mentre, quando il programma esigeva lo stesso tipo di discorso da parte di un umanista, questi esultasse per tale compito». Jones cerca di individuare le cause del disagio manifestato dai suoi colleghi scienziati, nel volgersi a contemplare il passato; e con molta acutezza ne ravvisa una nella difficoltà cl1e un uomo di scienza solitamente incontra, quando deve collegare « l'opera del genio al pensiero vivo dell'epoca che lo aveva prodotto »: che è a dire, nella mancata consapevolezza di una dimensione storica della verità scientifica. Vi è comunque dell'altro; e consiste, per Jones, nello scarso interesse che gli scienziati nutrirebbero per coloro che li hanno preceduti: « •. .lo scopo principale della scienza, sembravano dire, era di stare nel presente e di scrutare nel futuro, non di vivere nel presente e di volgersi risolutamente _alpassato ... Questo nasceva dall'impegno che gli studiosi della scie11za mettono nel distruggere l'errore che costituisce una parte della nostra eredità ... Quanto più rapidamente si correggeva o si dimenticava l'errore, vale a dire quanto più efficacemente si cancellava qualche parte del passato, tanto più in fretta si sarebbe arrivati non solo alla verità, ma anche alla sua applicazione». E Jones così conclude: « Mi pare che in questa differenza 15 Bibroteca Gino Bianco

Rosellina Balbi tra la concezione della verità come di qualche cosa che è, e la verità come di qualcosa che diviene, sta il maggiore ostacolo alla comunicazione fra scienza e spirito umanistico. In senso più vago e generale, l'umanista domanda: 'Come si è fatta strada questa verità?', mentre lo scienziato domanda: ' Dove andiamo di qui?' » 6 • Subito dopo, Jones si affretta a riconoscere che la sua è una generalizzazione che pecca di semplicismo, ricordando come le verità della geologia siano « coinvolte nel tempo e nella storia », mentre le verità di certa critica letteraria « sono così freneticamente aggiornate da rendere inutile anche la più elementare conoscenza storica » (sul che non possiamo non essere d'accordo). Potremmo aggiungere che mai, come oggi, la scienza si è volta con tanto interesse al passato: sono in corso ricerche che riguardano addirittura la creazione della terra, ossia risalgono fino a circa sette miliardi di anni or sono. È chiaro, tuttavia, come ciò che conta non sia la collocazione nel tempo dell'oggetto della ricerca, bensì quanto il ricercatore si promette di ricavare da essa. Potremmo dire che, in fondo, lo scienziato si ripromette sempre di strumentalizzare (e sia pure nel miglior senso del termine) il proprio lavoro; anche quando si tratta di ricerca « pura », questa vuol essere sempre un contributo a,d una più vasta impresa, diretta a conseguire ben precisi obiettivi. Lo scienziato sente, in altri termini, di far parte di una «cordata»; l'umanista nutre (e talora coltiva con compiacimento) la sensazione di essere un solitario. Lo scienziato ha quella che Argan chiama una « vocazione missionaria», mentr~, secondo l'espressione dello stesso Argan, « la cultura umanistica ignora la carità ». Questa differenza di « prospettiva» può intendersi anche meglio, quando si vada a rileggere ciò che scriveva un matematico inglese del secolo scorso, William K. Clifford: « Ricordate, allora, che il pensiero scientifico è la guida dell'azione; che la verità a cui giunge non è quella che possiamo idealmente contemplare senza errore, ma quella in base alla quale possiamo ·operare senza paura ». La scienza viene dunque concepita come azione; e, come rileva in proposito Bronowski, « l'azione guarda in avanti, si distingue dalla contemplazione perché guarda verso il futuro » 7• Se ciò era vero nell'Ottocento, figurarsi oggi, quando ogni invenzione scientifica trova immediata applicazione pratica. Scrive Max Born: « noi non troviamo pilastrini ai crocicchi, ma le nostre pattuglie avanzate li costruiscono per aiutare gli altri » 8 • 6 Cfr. Scienza e cultura oggi, cit. 7 JACOB BRONOWSKI, Il senso comune della scienza, Ed. Comunità, 1961. 8 MAXBoRN, Filosofia naturale della causalità e del caso, Boringhieri, 1962; cit. in BRUNETTI, op. cit. 16 BibliotecaGino Bianco

. L'investimento nel futuro Non si è detta, dunque, una cosa inesatta, quando si è paragonato il lavoro del ricercatore moderno a quello che viene svolto nei sistemi a catena dell'industria. Ciò spiega perché, in effetti, è raro che lo scienziato possa pervenire ad una prospettiva che non sia frammentaria: la sua funzione è di far parte di una istituzione collettiva. Perciò, da un lato, lo scienziato non comprende il disagio, anzi « la disperazione » nella quale versano gli umanisti; e, dall'altro lato, gli umanisti temono che la specializzazione possa trasferirsi dal campo delle scienze naturali al campo delle scienze cosiddette umane, impedendo una visione gene~ rale e coerente, e spingendo l'uomo verso quello che è stato definito da qualcuno come uno « stato crepuscolare ». È in questa luce che acquistano un particolare significato le accuse di disimpegno e di ambiguità - o, se si vuole, di incoerenza e di dissociazione - che vengono sovente mosse agli uomini di scienza. Si fa rilevare come uno scienziato, il quale lavora quotidianamente intorno ai problemi più intricati e sottili, possa poi, una volta fuori dal suo studio o dal suo laboratorio, comportarsi in maniera irrazionale, e manifestare - quando, per esempio, gli tocca prendere posizione in campo politico - una specie di cecità intellettuale. Lo scienziato sarebbe, dunque, un cattivo politico; e lo sarebbe proprio per la sua affermata « neutralità » nei confronti della politica (con tutto il bagaglio di disprezzo verso i politici - e verso i letterati - che è una caratteristica costante dei cosiddetti « apolitici »). Certo, le generalizzazioni sono sempre pericolose; e se vi sono scienziati che si sono lasciati strumentalizzare per fini disumani dal potere politico, si possono anche citare filosofi e letterati che a quegli stessi regimi hanno fornito armi ideologiche e propagandistiche (senza potere accampare l'attenuante della « cecità » di cui si faceva cenno or ora). Tuttavia non si può 11egare che gli scienziati corrano il rischio, per così dire, professionale, di vedere restringersi il proprio orizzonte: « lo scienziato, come un cavallo in corsa, si è lasciato mettere il paraocchi alle tempie per vedere soltanto ciò che ha davanti al suo naso ». Che cosa avverrebbe, du11que, se l'« atomismo» che ha frantumato la ricerca scientifica si trasferisse all'intero campo della cultura? Chiusa nel recinto della sua specializzazione, ogni branca della scienza si limita a raggranellare un piccolo numero di fenomeni « e s'ostina a negare che al di fuori, di fianco, al di sotto e al di sopra di essi, vi sia alcuna realtà». Sono parole scritte quarant'anni dr sono da un umanista, Ramon Perez de Ayala; e Vittorio Fagone, che le ricorda, così conclude: « L'al di fuori, di fianco, di sotto, di sopra, appartiene alla realtà di 17 BibliotecaGino Bianco '

Rosellina Balbi tutti gli uomini: n,essuna cultura, che si dichiari um~na, potrebbe ragionevolmente rinunciarvi » 9 • · Bisogna dunque riconoscere un certo fondamento alle preoccupazioni espresse in questo senso dagli uomini della cultura « liberale »; si deve però aggiungere subito come l'astratta posizione di rifiuto, che molti assumono di fronte al vertiginoso incalzare del progresso tecnico, sia totalmente improduttiva: e, più ancora, che un rigoroso esame di coscienza non farebbe poi troppo male, a certi umanisti. La rivoluzione scientifica avrà luogo com11nque, essa costituisce un processo irreversibile; ma non è detto che la sua destinazione debba essere fatalmente « disu1nana ». Che lo sia o meno, dipende anche dalla misura in cui la cultura tradizionale si impegnerà a stabilire con essa un rapporto: ad accompagnarla, fors'anche a guidarla, piuttosto che rassegnarsi a subirla. Rosario Romeo, al quale non si possono certo attribuire simpatie nei confronti del modello culturale « scientifico », scriveva recentemente: « ..• le proposte di una ' trasformazione ' in senso scientifico della cultura, se sono da respingere nelle loro assunzioni fondamentali, hanno tuttavia il merito di richiamare l'attenzione sui nuovi metodi e le nuove conoscenze che la acquisizione di taluni procedimenti o risultati ottenuti dalla scienza può assicurare agli studi umanistici. In tal senso, non v'è dubbio che in parecchi settori della cultura italiana - a cominciare dalla storiografia - si sia ancora ben lontani dall'avere compiuto tutti gli sforzi necessari in questa direzione: ed è da auspicare che tante discussioni servano anche a stimolare il compimento di tali sforzi, oltre che a tener desta quella inquietudine della coscienza e dell'intelletto che è il più umano dei tratti della cultura ' tradizionale ' » 10 • Sono parole da meditare. Non si tratta dunque di comporre una antitesi (artificiosa) tra due culture; si tratta di comprendere e rispettare la diversa funzione di dt1e forme culturali diverse, senza chiusure mentali che non potrebbero non riflettersi negativamente su chi vi soggiace, e cercando anzi di accrescere la propria « disponibilità» verso una più vasta circolazione di idee: dicia1no pure verso un possibile dialogo. Ciò è particolarm,ente importante nel momento in cui il nostro paese cerca di porre rimedio, sia pure con faticosa lentezza, al ritardo scientifico che ci ha così gravemente distanziati dalle altre nazioni. Una politica di questo genere non può essere che una politica a lunga scadenza; il rinnovamento delle istituzioni scolastiche, al 9 VITTORIO FAGONE, Snow e le due culture, «Diogene», dicembre 1964. 10 R. ROMEO, Conclusione alla Tavola Rotonda: Dove va la cultura umanistica? « Il cannocchiale», febbraio 1965. 18 BibliotecaGino Bianco

L'investiniento nel futuro quale accennavamo più sopra, ne costituisce, ad esempio, una indispensabile componente. Si pensi soltanto che, attualmente, i ricercatori italiani (lo ha dichiarato il Ministro Amaudi) sono la quinta parte di quelli francesi, e addirittura la ventesima di quelli britannici: il cui numero, peraltro, sarebbe insufficiente - a giudizio del Primo Ministro Wilson - alle necessità dell'Inghilterra. E lo stesso Wilson attribuisce questo squilibrio ai « difetti cronici » del sistema didattico inglese. Che cosa dovremmo dire, allora, del nostro? Agli umanisti si prospetta, dunque, il compito di « guidare » il rinnovamento della scuola italiana, facendo in modo che il paese possa contare (come è necessario che conti, se non vuole restare paralizzato) su un numero sempre crescente - e su un livello qualitativo sempre più alto - di ricercatori, senza che ciò comporti il sacrificio di quelle istanze culturali, in senso ampio, che sono per noi irrinunciabili. Solo che, per poterlo fare, non basta affermare certi principi, ma bisogna credere in essi e soprattutto bisogna battersi per la loro salvaguardia. Nel momento in cui l'Italia, sulla scia di tutti i paesi di civiltà moderna, sta per dare finalmente avvìo a una « politica scientifica », è necessario che la mobilitazione tecnologica sia accompagnata dalla mobilitazione di tutta la cultura. E questo non può avvenire, crediamo, se non si intende - una volta per sempre - che la destinazione, « umana » o « disumana », della scienza, dipende, in ultima analisi, solamente dagli uomini. ROSELLINA BALBI 19 BibliotecaGino Bianco

Le due anime della magistratura di Aristide Savignano L'affermazione secondo la quale la magistratura deve porsi come un ordine autonomo ed indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato non è certamente nuova. L'opportunità, poi, di assoggettare i giudici solo all'imperio della legge è altrettanto antica, se si pensa che Tocqueville assegnava alla magistratura anche il fine di costituire un limite alla tirannia delle assemblee politiche. E questa esigenza fu particolarmente avvertita in sede di Costituente, tanto più che soccorreva in materia una lunga esperienza (legata alla preesistenza di un organo, qual'era il Consiglio Superiore della magistratura creato dalla legge Orlando del 14 luglio 1907 n. 511, e successivamente modificato da vari provvedimenti fino al decreto legislativo del 31 maggio 1946 n. 511), dalla quale potevano trarsi utili indicazioni. Oltre tutto, essa si innestava storicamente in un contesto che permetteva una visione globale del problema e che poteva perciò stesso consentire l'adozione della migliore soluzione possibile. In tal senso, infatti, premevano per un verso gli avvenimenti dell'ultimo ventennio e per altro verso non solo la necessità di procedere al riconoscimento dell'autonomia e dell'indipenq.enza della magistratura, ma anche e soprattutto l'opportunità di provvedere all'adeguamento dell'ordine giudiziario - sia nel suo aspetto organizzativo che nell'esercizio delle sue funzioni - all'ordinamento democratico della Repubblica Italiana, tenendo particolarmente conto del carattere rigido della nuova Costituzione. Risultava perciò evidente che queste esigenze potevano essere soddisfatte solo sottraendo la magistratura a qualsiasi influenza del potere esecutivo e consentendo che essa si organizzasse autonoma 4 mente in un ordine a sé stante, rappresentato al suo vertice da un Consiglio Superiore, completamente rinnovato rispetto ai precedenti nella sua struttura e nelle sue funzioni, al quale fosse affidato ogni compito relativo alla materia della giustizia, con la sola esclusione delle ~ attività a questa accesso,rie. Senonché, pur essendo il problema nei suoi termini generali estremamente chiaro, non si riuscì, in sede di Costituente, a predisporre una disciplina normativa unitaria e definitiva; e ciò per i contrasti che si manifestarono sulle singole questioni sottoposte ad esame. Se, infatti, vi fu chi propose di sopprimere il ministero di Grazia e Giustizia e di 20 Bi lioteca Gino Bianco

Le due anime della magistratura attribuirne le funzioni agli stessi organi del potere giudiziario, altri ritennero, viceversa, che bisognasse assicurare un necessario collegamento tra i vari poteri; e a tal fine suggerirono di assegnare al ministro della Giustizia la presidenza del Consiglio Superare della magistratura. Non minori divergenze si ebbero inoltre su altri aspetti, non trascurabili, del problema, in quanto si rilevò che lo scopo da raggiungere era « di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della magistratura »; ovvero che, per quanto atteneva alla composizione del Consiglio Superiore della magistratura, bisognava evitare che esso potesse risultare formato esclusivamente da magistrati appartenenti alle giurisdizioni inferiori, pur approvandosi contemporaneamente l'altra norma, per la quale « i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzio·ni ». In sostanza, anche per tale problema appare pienamente giustificata l'affermazione di Calamandrei, secondo la quale « il contenuto della nuova Costituzione rappresenta in molte s11eparti la risultante transattiva, e forse provvisoria, di concezioni contrastanti e di forze contrapposte ». Con un aspetto, però, del tutto peculiare. I principi stabiliti in materia, infatti, non permettono di nutrire alcun dubbio sullo scopo che si è inteso realizzare: assicurare alla magistratura una sostanziale autonomia ed indipendenza nei riguardi degli altri poteri dello Stato. In tal senso vanno infatti interpretate tutte le norme riportate sotto il titolo quarto della Costituzione, ed in particolare quelle disposizioni relative al Consiglio Superiore della magistratura ed alle sue attribuzioni. Per cui, più che di normativa imperfetta, o inadeguata rispetto al nuovo assetto costituzionale, si può tutt'al pii1 parlare, nel caso in esame, di disciplina incompleta, giustificata del resto dall'enorme mole di lavoro ch·e la Costituente ebbe a svolgere in quel periodo: onde il completamento della disciplina giuridica della materia è rimasto demandato al legislatore ordinario. Che tale, del resto, sia la effettiva portata della normativa costituzionale, risulta ancora più chiaro, se si considera che di indipendenza e di autonomia del potere giurisdizionale si può parlare in due sensi, a seconda che ci si riferisca all'aspetto funzionale od ·a quello organiz:. zativo: il primo riguarda l'esclusione di ogni rapporto gerarchico tra i magistrati ed il loro assoggettamento al solo imperio della legge; il secondo, viceversa, si riferisce più specificamente ai criteri ed agli istituti intesi a realizzare tale scopo. Ed è evidente che l'affermazione astratta dell'indipendenza funzionale della magistratura - che si ritrova peraltro, almeno negli ultimi tempi, in qualsiasi tipo di regime - 21 Bib.liotecaGino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==