Nord e Sud - anno IX - n. 36 - dicembre 1962

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna La Redazione, Crisi internazionale e politica estera - Daniele Prinzi, Bonifica e riordino fondiario - ]osé L. Sureda, Il ruolo dello Stato nello sviluppo economicodella Spagna - . Roberto Berardi, La condizionedegli insegnanti1nedi - Sergio Bertelli, Il Vaticano e la prima guerra mondiale. e scritti di Virgilio Andrioli, Tarcisio Amato, Sergio Antonucci, Pino Crea, Carlo Cupo, Vittorio de Caprariis, Ernesto Mazzetti, Esther Piancastelli, Nicola Pierri, Giuseppe Sacco. ANNO IX - NUOVA SERIE - DICEMBRE. 1962 - N. 36_ (97) ? EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Bibliotecaginobiarico

Biblioteca Gino Bianco

,.. . NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO IX - DICEMBRE 1962 - N. 36 - (97) DIREZIONE E REDAZIONE: Napo I i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - N a p o I i - Telef. 393.346- 393.347 Una copia L. 300 - Estero L. 360 - Abbonan1enti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 3.300, semestrale L. 1.700 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli Bibliotecaginobianco

SOMMARIO La Redazione Roberto Berardi Daniele Prinzi Editoriale [3]. Crisi interriazionale e politica estera [7] La condizione degli insegnanti medi [19] Bonifica e riordino fondiario [30] Note della Redazione Dall'esodo all'emigrazione - L'inchiesta sulla mafia - I concorre,1ti di S. Gerinaro [39] Giornale a più voci Virgilio Andrioli Il goliarda salariato [ 48] Pino Crea Decentramento locale e de1nocrazia [51] Sergio Antonucci Meridionalismo a Genova [57] Ernesto Mazzetti Una Mostra in alto mare [63] Giuseppe Sacco L'inquietante sentenza di Liegi [ 66] Argomenti Carlo Cupo Impianti frigoriferi e prodotti ortofrutticoli [68] Documenti José L. Sureda Il ruolo dello Stato nello sviluppo economico della Spagna [79] Tarcisio Amato · Nicola Pierri Vittorio de Caprariis · Esther Piancastelli Recensioni Il Croce di Nicolini [96] La generazione difficile e i suoi maestri [99] L'età di Jakson [103] La dottrina delle fiuttuazioni [ 109] Saggi Sergio Bertelli Il Vaticano e la prima guerra mondiale [ 113] Lettere al Direttore Luciano Tinelli Latino e pregiudizi [ 127] Bibliotecaginobianco

Editoriale Nell'inverno del 1958-59 il governo dell'on. Fanfani, inviso alle destre, fu rovesciato da una con,giura di palazzo, guidata dall'on. Segni. Quella congiura ha fatto perdere al paese anni preziosi e lo ha spinto sull'orlo di una crisi gravissima, per sco1-zgiitrare la quale fu necessario richiamare all'opera l'on. Fa1'zfani e fare appello al senso di responsabilità dei repubblicani, dei socialdemocratici, dei socialisti. Ma sembra che i congiurati di allora - i « dorotei » - non si siano dati per vinti, se è vero che hanno ora ordito una 1-zuovacongiura, la quale, però, f ortunatamente non ha sortito gli effetti della prima. · · Il fallimento della seco1ida co,igiura « doro tea » è il dato positivo che è enierso dalla tanto discitssa riu1iione di novembre del Consiglio Nazionale della DC; ed è itn dato che ci si deve augurare di veder confermato nel prossimo futuro per quanto riguarda quei suoi aspetti che fanno ritenere il fallimento della congiura dovuto anche a uno sfaldamento dei « dorotei ». Ciò che ha rivelato «L'Espresso», a proposito di Taviani e di Cui, che 110n avrebbero partecipato alla congiura, e di Zaccagnini, che avrebbe pilotato verso le posizioni di Moro itn biton nitmero di consiglieri nazionali eletti dal congresso di Napoli come « dorotei », lascia inoltre intravedere la possibilità che nel prossinio futuro la separazione fra « morotei » e « dorotei » si faccia più netta e che i secondi ne risitltino drasticamente ridimensionati dal punto di vista quantitativo: itn evento che sarebbe salutato con soddisfazione da molti, nell'ambito della sinistra democratica, laica e cattolica, perché oramai l'impopolarità di quella corrente politica, tenuta insieme solo da interessi di potere, si è diffusa anche più di quanto non lo f asse fin dai tempi della prima · congiura. Certo duole che uomini come Colombo e Rumor (che sul piano della capacità di governo hanno dato buo1ie prove, e che hanno anche saputo rappresentare il paese in difficili conferenze internazionali, dove si era abititati ad avere a che fare co1i rappresentanti italiani « vuoti » come Pella, o «assenti» come Segni e Piccioni) figurino sul piano della lotta politica italiana sotto l'etichetta di « dorotei »; che essi costituiscano oggi forse la principale carta su cui puntano le destre per · provocare la crisi del governo di centro-sinistra; ? infine che di essi 3 Bibliotecaginobianco

Editoriale si dica perfino che vogliono far intenclere, più o meno sommessamente, ai fautori dell'apertura a sin.istra, che la nuova maggioranza può avere un avvenire, anche come « accordo di legislatura », solo se si sbarca. ·Fanfani e si viene a patti con i « dorotei ». Comunque, dal recente Consiglio nazionale della DC, è venuta anche in questo senso una chiara indicazione: non conviene ai RtLmor e ai Colombo avventurarsi sventatamente· su certe posizioni, ma convie·ne tornare indietro e cercare di riqualificarsi a sinistra, per non essere ingoiati dalla « palude », per non essere confusi con la destra, per poter rimanere all'altezza dei loro migliori precedenti come tlominì di governo e di partito. Si deve, dunque, valutare positivan1ente - come una possibilità di chiarimento ulteriore all'interno dello schieramento democristiano - lo svolgimento delle discussioni al Consiglio nazionale della DC, nel corso delle qz✓tali l'on. Fanfani lia rafforzato le sue posizioni, mentre si sono indebolite qu.elle dei suoi avversari che avevano deciso di giocare una grossa partita. Ma questa partita poteva essere vinta se Saragat si fosse lasciato convincere da Segni e se Moro si fosse lasciato catturare dai « dorotei ». Il Presidente della Repubblica ha cercato, infatti, di preparare il terreno alle manovre « dorotee »; e la stampa che denu.11ciava con tanto vigore i velleitari tentativi di Gro11chi, qiLando quest'ultimo cercava di far sentire il peso del Quiri11ale nelle crisi politiche, si è ben guardata dal denunziare il con.tributo attivo dato da Segni all'attuazione dei piani « dorotei ». Ma a Segni che cercava di convincerlo della utilità, anche elettorale, di un ripiegan1ento del PSDI entro i vecchi schemi centristi, più o meno camuffati, Saragat ha saputo rispondere come si doveva (si veda a questo proposito il citato servizio dell'« Espresso »); e con ciò ha dato ancora u·na volta la misitra del suo stile, e dell'alto senso di responsabilità e di vigilanza democratica cui suole ispirare la sua azione politica (del che 11oi non avevamo mai dubitato anche quando era diventato di nzoda prendersela sempre con Saragat ). E quanto a Moro sembrerebbe che egli si sia reso conto tempestiva111ente, proprio duran.te l'ulti1no Consiglio nazionale della DC, che è forse finito il tempo della segreteria demiurgica; che oramai i « morotei » devono definirsi anclie loro come corrente,· e che tale corrente deve essere alleata di quella f anf aniana, se lui, Moro, non vuole finire /jrigioniero dei « dorotei », disposti 1nagari a spedirlo al posto di Fanfani, per occupare il posto eh.e ora è suo e poi, grazie a questo, anche l'altro. Certo rimane questo uno dei dite punti su cui la parte più scaltrita dell'opposizione al centro-sinistra ce,:cl1erà di produrre il massimo 4 Bibliotecaginobianco

Editoriale sforzo: risulta chiaro dall'editoriale del « Corriere della Sera» dopo il Consiglio nazionale della DC, significativamente intitolato: « La marcia di Fanfani». Questo editoriale cercava di mettere in evidenza non il pericolo che Moro fosse catturato dai « dorotei », ma quello che fosse catturato dai « fanfaniani ». È evidente che questo è un modo sbagliato, e tendenzioso, di porre il problema dei rapporti fra « morotei » e « fanfaniani »: perché è un proble~ia che non si pone in termini di cattura, e nemmeno di pressioni e di infiuenze determinanti degli uni sugli altri, o viceversa; ma si pone in termini di alleanza per una politica iniziata in comune e cl1e deve essere proseguita in comune. Diverso, invece, è il caso dei rapporti fra « dorotei » e « morotei »: non a caso i pri1ni furo110 assenti a San Pellegrino, dove c'erano « morotei » e « fanfaniani »; la verità è che Moro deve farsi seguire dai « dorotei » - e c'è riuscito finora - e questi cerca110 oggi di frenare Moro, per esautorarlo don1ani, quando fossero riusciti ad esautorare Fanfani. È per questo che la destra punta sui « dorotei » e cerca di prestare la sua opera per inserire un cuneo fra Moro e Fanfani. La manovra, fallita oggi, potrebbe riuscire domani, magari dopo le elezioni, o grazie a qualche inte~iperanza socialista, o ancora grazie a una qualche virata di bordo da parte di Saragat. Ecco, infatti, l'altro dei dite punti su cui l'opposizione di destra cerca di far leva: il patriottismo di partito della socialdemocrazia. Anche a questo proposito è significativo un editoriale del « Corriere della Sera», pubblicato alla vigilia del Congresso socialdemocratico e inteso a dimostrare conie e perché l'apertura a sinistra abbia « diminuito il peso e l'infiuenza » di un partito che « ha avuto finora una funzione importante ». Il fatto è che questa « funzione » della socialdemocrazia è oggi tanto più « importa11te » proprio in quanto ha consentito e consente i nuovi sviluppi politici, mentre si sarebbe esaurita qualora non avesse saputo cogliere l'« occasione storica» fornita dalla disponibilità del PSI per una politica che i socialdemocratici avevano sempre auspicato di poter portare avanti. E senza dubbio la stessa unificazione socialista non può essere considerata dal partito socialdemocratico come un suicidio - o una abdicazione, se si preferisce - ma come il conseguimento dell'obiettivo che esso si è proposto fin dal momento in cui è nato. Si è· ritenuto a torto che l'unificazione socialista fosse una condizione dell'apertura a sinistra; intelligentemente Saragat e Nenni hanno invece capito cl1e la strada dell'unificazione, per quanto lunga e impervia si voglia credere che sia, passa necessariamente per l'apertura a sinistra. E questo rimane vero anche se i risultati elettorali dovessero infiiggere all'una o all'altra ala del socialismo 5 Bibliotecaginobianco

Editoriale italiano una perdita in voti e seggi (ma non è esèluso che, come è avvenuto finora, i risultati elettorali vengano a premiare e l'una e l'altra). Comunque il Congresso socialdemocratico ha confermato che ~aragat · non è disponibile per una virata di bordo. Il consiglio nazionale della DC e il congresso del PSDI sono du,nque venuti a deludere per ora le speranze della destra. E anche per qitanto riguarda il programma, il Governo ha fatto ciò che doveva fare; per il momento, alla destra, noti resta che sperare in Vecchietti e Valori, per intorbidare le acque della maggioranza; e nella palude democristiana delle Camere, per frenare l'attuazione del programma, magari pure col concorso di un anticipo delle elezioni ad aprile. Se in agosto scrivevamo che un « round » della lotta politica si era chiuso, e che la maggioranza di centro-sinistra rze era venuta fuori vittoriosa, a maggior ragione possiamo scrivere lo stesso a proposito di quest'altro « round », che si è aperto con la congiu,ra « dorotea » e si è chiuso con il Congresso del PSDI. Ma proprio per questo è probabile cl1e andian10 incontro a una battaglia elettorale che sarà combattuta da destra con la massima cattiveria, ricorrerzdo a tutti i mezzi. E tuttavia, malgrado l'offensiva della destra e dei siLoi esponenti, gli uomini che interpretano in prima fila le esigenze della politica di centro-sinistra sanno bene che questa politica non nasce per u11 gioco meschino di vertici (come gli avversari 1nirano spesso a far credere, parlando dell'« ambizione » di Fanfani o della « sete di potere» dei capi del PSI), ma ha le sue origini in un nodo di problemi politici e civili, economici e sociali, al cui scioglimento forze mature e consapevoli della società italiana un po' da tutte le parti ormai decisamente aspirano. Errata corrige Nel numero precedente, alla fine dell'articolo di Giovanni Cervigni (p. 14), si legge che dal convegno di S. Pellegrino risultavano « assenti », insieme ai « gonelliani » ( e ai « dorotei » ), anche i « sulliani ». Ciò è contraddittorio con quanto si legge nelle pagine precedenti (P. 10); ma il lettore avrà letto giusto, « scelbiani » e non « sulliani ». 6 Bibliotecaginobianco •

Crisi internazionale e politica estera a cura della Redazione La gravissima tensione russo-americana sorta alla fine di ottobre per il tentativo sovietico d'installare a Cuba una base di missili a media gittata e il conflitto aperto tra la Cina comunista e l'India neutralista sulle frontiere india11e forniscono il punto di partenza per un ripensamento della situazione internazionale in generale e di quella europea in particolare. Non v'è dubbio che entrambi questi avvenimenti hanno alterato pr~fondamente i dati cl1e si potevano tenere per acquisiti fino a tre o quattro mesi fa, non solo per ciò che riguarda l'equilibrio delle forze e la 1nanovra d'infiltrazio,ne comunista nell'emisfero americano o per ciò che riguarda i rapporti tra indiani e cinesi, ma per tutti i problemi internazionali di rilievo, da qL1ello di Berlino all'altro dei rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti, dalle prospettive di una politica di costruzione europea alla questione dell'atteggiamento del « terzo mondo » e della revisione da parte dei paesi cosiddetti non-impegnati di un neutralismo il più spesso ingenuo, che finiva col portare questi paesi su posizioni sostanzialmente filo-comuniste. Per quel che riguarda la crisi cubana, conviene sgombrare il campo pregiudizialmente da alcuni equivoci che hanno fuorviato sovente anche - i più acuti e meglio informati osservatori della politica internazionale. Prima ancora che la crisi scoppiasse si poteva leggere nell' « Observer » che i dirigenti statunitensi stavano dando alle vicende dei Caraibi una impostazione assolutamente sbagliata: se gli americani vogliono veramente la coesistenza - tale era, in sintesi, il ragionamento del settimanale inglese - devono rassegnarsi ad essa non solo alla frontiera russo-turca ma anche a cento miglia dalla Florida. Questo ragionamento, che nell'ultima settimana di ottobre abbiamo visto ripreso da molta parte della stampa europea e che ha colpito l'opinione per la sua logica • apparente e per la sua forza semplificatoria, è fondato, in realtà, su una concezione affatto aberrante di una politica di coesistenza. Qui è opportuno un chiarimento, perché equivoci ed errori in siffatta materia possono verame11te oscurare del tutto non solo la posta in gioco nella gara tra le due maggiori potenze del mondo contemporaneo, ma anche i termini reali dei problemi. Non è stato certo l'Occidente ad inventare, nei laboriosi negoziati tripartiti che ebbero luogo prima ancora che 7 Bibliotecaginobia co

La Redazione terminasse il secondo conflitto mondiale, le sfere d'influenza o d'interesse; fu piuttosto la diplomazia sovietica, furono Stalin e Molotov, ossessionati dalla mitologia dell'accerchiamento capitalistico, a precisare l'estensione della zona d'influenza russa, a chiuderla ermeticamente negli anni tra il 1945 ed il 1948 ed a tentare, poi, di estenderla ulteriormente (e qui il blocco di Berlino e la guerra di Corea vengono spontaneamente alla memoria). Ciò che ha caratterizzato in politica estera il decennio della destalinizzazione non è stato tanto il venir meno della pressione sovietica su certi punti particolarmente delicati ed importanti della frizione tra i due blocchi (ancora Berlino, la penisola indocinese, la penetrazione nel mondo arabo ed in Africa e, finalmente, il tentativo d'infiltrazione nell'emisfero americano), quanto il fatto che i nuovi' tentativi di alterare l'equilibrio delle forze in questi punti di frizione venivano condotti all'insegna di una dottrina che escludeva l'inevitabilità di una guerra tra il fronte del capitalismo e qu~llo del socialismo ed affermava, esplicitamente, la possibilità di una gara pacifica tra i due sistemi. Ma si deve aggiungere che la dottrina comunista della coesistenza prevede un epilogo che Krusciov non ha mai dimenticato di sottolineare e che il ventiduesimo congresso del PCUS ha proclamato solennemente, ossia la vittoria finale del comunismo, e prevede, quindi, che i comunisti facciano il possibile perché tale epilogo vi sia veramente. E non vi è chi non veda che questo semplice corollario può alterare profondamente il concetto di gara pacifica tra i due sistemi : in effetti, ad una coesistenza così intesa le democrazie occidentali sarebbero costrette inevitabilmente a contrapporre che la vittoria finale sarà d·ella concezione democratica, con l'esplicita cons,eguenza di riconoscere a se stesse il diritto di fare il possibile per agevolare tale vittoria. È chiaro che, se sovietici ed occidentali formulano visioni della coesistenza così contrastanti nelle conseguenze pratiche e ad esse ispirano la loro concreta azione, si può verificare in politica quel fenomeno molto temuto dai teorici delle guerre del futuro, che si chiama di solito dello « scalamento », ossia del passaggio graduale da conflitti armati di tipo tradizionale e di portata limitata alla guerra universale e nucleare: in politica si avrebbe la transizione da tensioni limitate e di pòrtata locale a tensioni generali, che condurrebbero al limite della guerra. Pertanto, la sola concezione della coesistenza accettabile per entrambe le parti e che pare capace di evitare il rischio cui si è appena accennato è un'altra: che, cioè, si intendano bloccate allo stato attuale le posizioni dei due grandi raggruppamenti di potenze e che, intanto, si cerchi di negoziare una soluzione pacifica e conveniente per 8 BibliotecaGino Bianco

Crisi internazionale e politica estera tutti dei problemi più urgenti. La coesistenza si configura, quindi, come una tregua concordata sulla base dell'uti possidetis. Ma se questo è vero, appare in tutta chiarezza l'assurdità del ragionamento che gli Stati Uniti e l'Occidente dovrebbero accettare la coesistenza alla frontiera russo-turca e nei Caraibi: i missili sovietici nei Caraibi costituiscono una palese violazione dell'uti possidetis; ·e non si può chiedere che sia accettata in nome della coesistenza una violazione del principio fondamentale della coesistenza! Si dirà che quella che noi abbiamo tracciata non è affatto la dottrina sovietica della coesistenza: ma questa è un'obiezione che non ha senso. Innanzi tutto perché accettare la coesistenza non può in nessun modo equivalere per gli occidentali all'accettazione automatica della concezione sovietica della coesistenza stessa (in tal caso gli occidentali avrebbero già abdicato ad ogni volontà di contrastare pacificamente l'espansione russa); e in secondo luogo perché solo una coesistenza intesa come stallo forzato di tutti può evitare gravi tensioni internazionali. Un altro equivoco dal quale conviene sgombrare il terreno è quello che pure è fiorito su molti giornali europei nel corso della crisi e che leggiamo formulato con molta chiarezza nell'« Espresso»: « Il completo ed improvviso successo americano non elimina i motivi profondi di disapprovazione per quella parte dell'atteggiamento di Kennedy che sembra essere stata dettata solo dai principii della politica di potenza. Il diritto e le legalità internazionali sono certo delle approssimazioni. Ma un paese che si richiama ai valori democratici non può violare tale diritto e tale legalità in maniera aperta, se non vuol far perdere ogni motivo ideale alla sua polemica contro il comunismo e trasformare lo scontro tra i due blocchi in una lotta tra le due concentrazioni di potenze quasi ugualmente autoritarie e brutali ». Va ricordato innanzi tutto che per quel che riguarda l'emisfero americano v'è una legalità internazionale costituita da intese fra tutti gli Stati americani, e che questa legalità è stata violata piuttosto da Cuba che dagli Stati Uniti. Ma anche dato e non concesso che ciò non sia esatto, è valida l'osservazione che abbiamo ricordata? Certo saremo gli ultimi a sostenere che la politica estera è soltanto uno scontro più o meno brutale di potenza ed a pensare che si possano violare con disinvoltura il diritto e la legalità internazionali. E tuttavia non ci sembra che si possa accettare, così come è stato formulato, il ragionamento dell'«Espresso». Non ricorderemo qui che fu proprio in base a ragionamenti di questo genere che le democrazie europee consentirono a Mussolini e ad Hitler di fare negli anni '30 tutto ciò che volevano fare, e che siamo sicuri che i milioni di europei che soffrirono per molti anni l'oppressione nazista 9 BibliotecaGino Bianco

La Redazione trassero scarso conforto dalla co11sapevolezza che l'Inghilterra non aveva mai violato il diritto e la legalità internazionali (dato e non concesso che ciò sia vero). La verità è che vi sono momenti in cui la lettera della legalità internazionale va sacrificata al suo contenuto ed · alla sua fonte di ispirazione, ossia a concetti superiori come la difesa della libertà e la preservazione dell'l1manità dall'olocausto nucleare (e non v'è bisogno di molta fantasia per comprendere che l'istallazione di missili sovietici a Cuba accresceva invece di diminuire il pericolo di una guerra nucleare). Ciò che persero di vista le classi dirigenti democratiche europee tra il '30 ed il '40, ciò che noi non dobbiamo mai perdere di vista è che diritto e legalità internazionali non sono valori assoluti, librati in un cielo artificiale al di sopra delle nostre teste, ma valori concreti, che trovano il loro posto in una gerarchia in cima alla quale stanno, e non possono non stare, la libertà e la dignità degli uomini e la pace. L'esperienza storica anche la più recente dimostra che la saggezza politica autentica consiste proprio nell'intuire i momenti nei quali conviene realisticamente contrapporre potenza a potenza proprio per evitare che la politica estera si riduca ad uno scontro brutale di potere. Le decisione di Truman di non accettare il blocco di Berlino e di intervenire in Corea, quella di Kennedy dello scorso ottobre non posso110 essere giudicate con il metro formalistico della legalità internazionale, ma devono essere valutate in rapporto ai concetti costitutivi della legalità internazionale stessa. Ciò premesso, possiamo esaminare ora le conseguenze della crisi internazionale cl1e ha preso il nome da Cuba e l'influenza che si può prevedere essa finirà con l'esercitare sui rapporti tra gli occidentali ed il blocco comunista. E qui pure conviene chiarire un concetto fondamentale, nel quale, forse, è la risposta alla domanda che maggiormente l1a imbarazzato nelle ultime settimane gli scrittori di politica estera: la domanda su ciò cl1e può avere indotto il Cren1lino a tentare una mossa così rischiosa ed avventurosa come quella dell'installazione di basi di missili a Cuba. A 11oi sembra cl1e dal 1956 in poi, ossia dal momento in cui è cessata la relativa invul11erabilità degli Stati Uniti e si è diffusa per ogni dove la coscienza cl1e il territorio americano era esposto agli attacchi di missili sovietici intercontinentali, il problema fondamentale è sempre stato quello della credibilità della rappresaglia nucleare statunitense. È stato proprio il dubbio che nell'istante supremo le classi dirigenti americane avrebbero anteposto la salvezza di New York o di Chicago a quella di Berlino Ovest o della frontiera del Re110, ad indurre un De Gaulle a vagheggiare la costituzione di una farce de 10 Bibliotecaginobianco

Crisi internazionale e politica estera frappe autonoma: a torto o a ragione, il presidente francese voleva essere sicuro che colui il quale doveva premere il pulsante fatale, al momento opportuno, l'avrebbe premuto realmente. Sembra illogico pensare che gli alleati degli Stati Uniti si siano potuti porre un problema così grave e che i sovietici non se lo siano posto affatto. Si può dunque essere ben certi che la questione della credibilità della rappresaglia atomica americana sia stata oggetto al Cremlino di approfondite speculazioni; e che proprio sulla soluzione data ad essa sia stata commisurata la politica estera sovietica. Del resto, i dirigenti americani sapevano benissimo ciò e valutavano tutta l'importanza del problema: per mesi dopo la costruzione del muro di Berlino il presidente Kennedy ha ripetuto che i sovietici dovevano convincersi che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti a difendere con ogni mezzo quelle che consideravano le loro posizioni « vitali »: il che mostra· fino a che punto Washington temeva che a Mosca si prestasse poca fede alla determinazione americana e fino a che punto si tenesse per pericoloso un tale stato di cose. In realtà, i dirigenti russi erano stati, per così dire, incoraggiati ad intrattenere tale convinzione: l'allineamento americano con Mosca durante la crisi di Suez, la contraddittorietà della politica degli Stati Uniti che per anni avevano oscillato tra la durezza a parole di 1m Poster Dulles e la transigenza bonaria di un Eisenhower, il fatto· che Eisenhower medesimo avesse definito «anomalous» la situazione berlinese, autorizzando in apparenza le speranze sovietiche di una soluzio,ne vantaggiosa alla Russia del problema, i contrasti profondi tra gli alleati occidentali, la risposta a1nericana al 1nuro di Berlino che, a torto o a ragione, parve ai russi più arrendevole del previsto; tutto ciò persuase Krusciov ed i s11oi amici a credere poco nella determinazione americana di esercitare il potere di rappresaglia nucleare e li incoraggiò a tentare una violazione più scoperta e clamorosa del principio dell'uti possidetis: la costruzione delle basi missilistiche a Cuba. I sovietici hanno sempre misurato e continuano a misurare l'eventuale atteggiamento] americano sul loro proprio: essi non esitarono a soffocare nel sangue la rivolta ungherese, mentre gli Stati Uniti consentivano il muro di Berlino e l'infiltrazione in Africa; 110n esitarono ad imporre ai finlandesi che il candidato socialdemocratico alla presidenza si ritirasse dalla competizione elettorale, mentre gli americani avevano tollerato il castrismo. Giudicata alla luce di siffatte esperienze la decisione sovietica di mandare missili a Cuba appare assai meno assurda di quel cl1e si potrebbe pensare a prima vista: l'attivo dell'operazione (tenere più di un terzo degli Stati Uniti sotto la minaccia della distruzione ato,mica con soli tre minuti di preavviso, e quindi possedere una formidabile arma di 11 Bibliotecaginobiarico

La Redazione ricatto per altri negoziati; mostrare tutta la potenzà sovietica nell'emisfero an1ericano) giustificava un rischio che si valutava assai minore di quanto 110n fosse i11realtà. Se la nostra analisi è esatta bisogna dedurre che la crisi dello ·scorso ottobre ha restaurato pienamente la credibilità della rappresaglia nucleare americana: e questa è un fatto che va ben al di là del caso concreto dei missili sovietici a Cuba. Ciò che a molti europei sfugge ancora è che la pace non è garantita soltanto dal materiale equilibrio di potenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dal fatto che ognuno dei due interlocutori sa che l'altro possiede la quantità di megatoni sufficiente ad annientarlo. Perché non vi sia una guerra nucleare occorre che a questo pareggio matematico si aggiunga un pareggio psicolo,gico: che, cioè, ognuno degli interlocutori sia convinto che in certe condizioni l'altro è deciso a dar fuoco alle polveri e ad adoperare i suo megatoni. La crisi dello scorso ottobre l1a dimostrato che i sovietici non erano convinti della possibilità di una rappresaglia nucleare americana e che restava un margine per errori assai pericolosi; ed è servita, altresì, a fare acquistare ai sovietici piena consapevolezza della determinazione degli Stati Uniti a difendere con ogni mezzo i loro interessi vitali. Se i dirigenti russi avranno la saggezza e la forza di rinunciare ad ogni velleità di ritorsione in altri settori, gli avvenimenti dell'ultima setti111ana di ottobre avranno contribuito a schiarire ulteriormente le posizioni reciproche degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, e per ciò stesso avranno reso più concreti eventuali negoziati su problemi come quelli di Berlino o del disarmo. E bisogna aggiungere subito che la presa di coscienza da parte di Mosca della credibilità della rappresaglia nucleare americana potrebbe alterare in mo,do 11otevole la versione russa della dottrina della coesistenza. I dirigenti sovietici, in effetti, sapevano benissimo che essi potevano svolgere una politica conforme alla loro versione della coesistenza, ossia una politica mirante ad alterare di continuo lo status quo, solo perché dubitavano della determinazione americana ad intervenire con ogni mezzo: l'erosione ai margini del sistema occidentale, la pressione nei punti di frizione per rovesciare a vantaggio della Russia l'equilibrio delle forze, erano possibili solo se si scontava in principio la transige11za degli Stati Uniti. Venuta meno questa sicurezza, aggiuntasi alla parità aritmetica dei megatoni quella psicologica sull'impiego di essi, diventa sempre più difficile puntare su una politica intraprendente ed attiva, che rischierebbe di produrre proprio quello « scalamento » delle tensioni internazionali a cui si accen11ava al principio. E l'improvvisa e a tutta prima stupefacente risoluzione sovietica di aderire alla richiesta americana di smantellamento 12 Bibliotecaginobianco

Crisi internazionale e politica estera delle basi missilistiche cubane dimostra non tanto che Krusciov abbia accettato la dottrina di Monroe, che pure aveva data per sepolta un anno fa, quanto che dal Cremlino si è dato l'avvio ad una revisio·ne della dottrina sovietica della coesistenza, che potrebbe portare la Russ~a ad un'accettazione della sola impostazione ragionevole della coesistenza stessa, quella che abbiamo accennata di sopra e che si fonda sul principio dell'uti possidetis come punto di partenza di un negoziato sincero ed approfondito. Del resto, la logica di una politica che vuole evitare la guerra nucleare porta a questa concezione della coesistenza; e se i sovietici non ha11no mai accennato esplicitamente a questa coerente co·nclusione del loro ragionamento, ciò non vuol dire che essi non l'avessero intravista: la tradizione dell'internazionalismo proletario, dell'esportazione della rivoluzione, non mai spente nell'escatologia comu11ista, impedisce troppo franche prese di posizione in materia. Ma che nel campo comu11ista si fosse intesa questa possibilità di sviluppo è dimostrato largamente dalla lunga e tenace opposizione cinese alla politica di coesistenza: la Cina, per la quale primeggiano problemi di riconoscimento di un nuovo status, oltre che problemi di leadership dei paesi non-impegnati, aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare da una politica che, se sviluppata con coerenza, avrebbe portato al riconoscimento dello stallo forzato ed alla condanna di ogni innovazione. E non v'è chi non veda che tutto ciò, se era vero prima della crisi dello scorso ottobre, è ancora più vero dopo che quella crisi v'è stata e si è chiusa nel modo cl1e tutti sanno e che, come abbiamo detto, sembra segnare un passo ava11ti ve~so l'accettazione russa di una più razionale concezione della coesistenza. Il vero, importante problema che ha innanzi l'attuale ceto dirigente russo non è quello della perdita di prestigio e di forza nell'agone internazionale dopo la ritirata da Cuba (questo, semmai, è un prol1lema che riguarda i partiti comunisti nei paesi a regime democratico), poiché a livelli di potenza con1e quello dell'Unione Sovietica o degli Stati Uniti le perdite di prestigio hanno relativa importanza; il vero ed importante e grave problema di Krusciov e dei suoi colleghi è t1n altro: che la soluzio 1 ne della crisi potrebbe accrescere le tensioni all'interno del sistema comunista. In effetti, a mano a mano che l'Unione Sovietica si accosta ad una coesistenza del tipo che abbiamo definito, gli avversari comunisti di tale politica accresceranno le loro pressioni cd i loro sforzi per arrestare ed invertire il processo, e più profonde e larghe si faranno le divisioni tra i vari paesi a regime comunista. I russi accuseranno sempre più fortemente i cinesi di troskismo, e i ~ cinesi renderanno più aspro il loro processo al revisionismo di destra 13 Bibliotecaginobianco

La Redazione dell'Unione Sovietica; nel blocco che già da qualche anno non è più monolitico si produrranno nuove crepe e la pressione dei russi per assicurarsi la fedeltà dei partiti con1u11isti che non sono al potere diventer~ _sen1pre più forte. È estremamente difficile prevedere come l'a!tuale ceto dirigente del Cremlino potrà fro11teggiare e tentare di eliminare queste gravi difficoltà: una cosa sembra, tuttavia, certa, ed è che esso commetterebbe un grave errore cercando facili rivalse di prestigio (le quali, oltre tutto, appaiono oggi estremamente problematiche) per zittire momentaneamente i cinesi ed i loro alleati. U11 ritorno·, sia pure temporaneo ed a soli scopi tattici, ad una politica di rigidezza, rafforzerebbe, invece di indebolire, le posizioni di tipo cinese ed indebolirebbe, invece di rafforzare, un'eventuale strategia sovietica mirante al raggiungimento di un'autentica coesistenza. Considerata la situazione anche dall'angolo visuale delle tensioni e dei contrasti all'interno del sistema comunista, sembrerebbe di poter concludere che la crisi dell'ottobre scorso dovrebbe aver consolidato la volontà sovietica di t1n negoziato sincero. Come si è visto, abbiamo evitato finora di menzionare l'Europa; e l'abbiamo fatto a ragion veduta, percl1é l'Europa merita veramente un discorso a parte. Si è lamentato durante la crisi che ha preso il nome di Ct1ba e nei giorni successivi che gli Stati Uniti abbiano agito da soli, senza consultare preventivamente gli alleati europei, dimostrando così di farne pochissimo conto e quasi mettendo in evidenza il vuoto di potere che v'è oggi nel vecchio continente. In queste osservazioni vi può essere una parte di ragionevolezza: pure, sarebbe stato preferibile che gli europei, invece di abbandonarsi alle querimo11ie sulla mancanza di tatto o di senso degli Stati Uniti, avessero colto l'occasione per un severo esame di coscienza. Questa crisi così grave ha dimostrato molte cose, e molte cose sconfortanti, sull'Europa, le quali, a nostro giudizio, sono ancora più gravi dell'ennesima riprova che l'Europa stessa è un vuoto di potenza politica. Le classi dirigenti europee, in Inghilterra come in Francia o in Italia, l1anno dimostrato la loro fondamentale incapacità di intendere la reale condotta della politica internazionale nel nostro tempo. Gli europei non hanno razionalizzato la guerra nucleare, ossia non hanno preso compiuta coscienza del fatto che la prospettiva di una guerra nucleare ha alterato profondamente i termini e le modalità della politica estera: essi continuano a pensare come pensavano nell' entre-deux-guerres, che, cioè, la cosa da evitare innanzi tutto siano le tensioni improvvise e forti, mentre la verità è che in certi casi ed a certe condizioni un'inflazione della tensione politica può servire a deflazionare i pericoli di gµerra. Ma soprattutto essi non 14 Bibliotecaginobianco

Crisi internazionale e politica estera hanno compreso che il problema principale r1on è quello del pareggio matematico dei megatoni, ma l'altro del pareggio psicologico sulla credibilità n.ell'impiego delle armi nucleari. La conseguenza di questa fondamentale incomprensione è stata di giudicare la decisione americana alla stregua di un colpo di testa, suggerito dall'isterìa dell'opinione pubblica statunitense per Cuba, come una sciagurata risoluzione mirante addirittura ad un baratto di Cuba contro Berlino (l'atteggiamento della stampa inglese è stato da questo punto di vista veramente deludente), mentre essa era, invece, una mossa abilissima sul piano militare e felice su quello politico: i dirigenti americani hanno persuaso i russi della credibilità del loro impegno, scegliendo di farlo su una questione sulla quale avevano l'unanimità del paese ed in una zona nella quale avevano un'indiscussa superiorità strategica. L'azione su Cuba aveva un valo,re di esempio e di avvertimento, la cui drammaticità era dettata dalla possente minaccia futura dei missili sovietici nei Caraibi, ma il cui significato più vero era quello di mostrare la risolutezza del paeseleader dell'occidente a far valere i suoi interessi vitali per ogni dove: la menzione esplicita di Berlino nel discorso di Kennedy era una prova fin troppo evidente di ciò; come, del resto, analogo significato doveva avere il più tardo rifiuto di negoziare uno scambio eventuale dei missili installati in Turchia contro quelli che si stavano installando a Cuba. È ·per lo meno paradossale che proprio coloro i quali, non avendo intuito il significato vero dell'azione americana, sospettavano che dietro di essa vi fosse l'intenzione di abbandonare Berlino, proprio costoro fossero, poi, disposti al baratto sulla Turchia! L'i11comprensione da parte europea del vero significato della vicenda è veramente un segno preoccupante e mortificante. Un'altra brutale rivelazione della crisi dello scorso ottobre è fornita dallo smarrimento e dal panico che hanno percosso buona parte del ceto dirigente e dell'opinione pubblica dell'Europa. Certo i governi ed in qualche caso (quello dell'Inghilterra) anche le opposizioni hanno mostrato, in apparenza, senso di responsabilità; ma per tutti si è trattato di un atteggiamento che mal riusciva a celare no,n soltanto preoccupazioni doverose e pienamente giustificate, ma anche ansie e paure che non avrebbero dovuto esservi; e la stampa si è preoccupata di sottolineare questo stato d'animo non tanto legittimamente angosciato quanto soltanto confuso e smarrito. In questa occasione, insomma, si è manifestata una sorta di nevrosi che è segno di incapacità morale a resistere alle tensio,ni politiche sia pur gravissime del nostro tempo e quindi di mancanza di attitudine a fronteggiarle. In Europa la coscienza della debolezza, la consapevolezza di essere stati come 15 Bibliotecaginobianco

.. La Redazione declassati, di essere restati assai indietro nel confronto della reale potenza, rischia di diventare un trauma per1nanente; e questo è un fatto di cui non si può non essere estremamente preoccupati. Non vo,gliamo in alcun modo essere fraintesi: non intendiamo affatto dire che ·i governi e le classi dirigenti d'Europa, a tutti i livelli,. avrebbero dovuto assumere atteggiamenti gladiatorii o che avrebbero dovuto abbandonarsi all'onda di quella retorica vuota e ridicola di cui hanno dato esempio, poniamo, i neofascisti in Italia. Quello che stava accadendo nel mondo in quei giorni era troppo serio perché manifestazioni di questo genere potessero apparire altrimenti che risibili. Pure, ciò che si sarebbe desiderato vedere, t1n raccoglimento severo e misurato, quasi una riflessione su tutto ciò che era in gioco ed una volontà tesa a non abdicare in nulla alla dignità di uomini liberi che affrontano una prova suprema si è visto molto poco o, se si preferisce, meno di quel che si sarebbe voluto e sarebbe stato necessario. V'è una sorta di malattia mor.ale in Europa che ben si esprime nel commento stupito di alcuni giornali inglesi, che, cioè, Kennedy avesse potuto osare tutto ciò che aveva. osato perché aveva dietro di sé un popolo compatto e risoluto .. Noi europei abbiamo visto troppe volte nella nostra storia più recente quanto stupido e feroce insieme possa essere l'invasamento fanatico per ideologie forsennate, percl1é una vena di distacco e di autocritica possa apparirci altrimenti che salutare e benefica. Ma che ci si meravigli · che un paese possa essere unito in un momento di gravissimo pericolo e che si meraviglino proprio quegli inglesi, i quali, venti anni or sono, diedero al mondo un esempio leggendario di risoluta compattezza, ebbene questo no,n può essere altro che un segno della tremenda degradazio·ne del sentimento politico in Europa. Questo è un rilievo tanto più malinconico per chi, come noi, è convinto che la crisi dello scorso ottobre ha eliminato molte incomprensioni ed equivoci che avevano tormentato 11egli ultimi anni l'alleanza occidentale ed ha, insieme, riproposto drammaticamente il tema dell'unità europea. I dubbi di molti europei e soprattutto di tedeschi e francesi nella credibilità della rappresaglia nucleare americana dovreb., bero essere caduti dopo la prova di forza che gli Stati Uniti hanno impegnata un mese fa. E con essi dovrebbe essere caduta quella che a molti è apparsa la sola giustificazione plausibile di una farce de frappe autonoma della Francia. Né vale obiettare che la crisi dello scorso ottobre dimostra che gli Stati Uniti erano risoluti alla prova suprema per difendere l'emisfero americano. Il presidente Kennedy ·ed i suoi ministri hanno più di una volta ricordato, proprio nel corso di questa crisi, che la difesa degli interessi vitali americani ed occidentali costi16 Bibliotecaginobianco

Crisi internazion.ale e politica estera tuisce un tutto affatto indivisibile, e che non sono possibili mercan-- teggiamenti di sorta sulla sostanza di questi interessi. Se i missili sovietici a Cuba rappresentavano una formidabile minaccia militare, una soluzione unilaterale del pro,blema di Berlino costituisce una formidabile minaccia politica: all'infuori dei comunisti e dei neutralisti professonisti, non v'è chi non veda oggi che una sconfitta morale dell'occidente a Berlino avrebbe il valore di molti missili a testata nucleare. La politica sovietica per Berlino è, in realtà, nient'altro che la politica sovietica per la Germania occidentale: ciò che la nostra rivista ha scritto un anno e mezzo fa, alla vigilia della costruzione del muro famoso, è stato confermato dalla costruzione di questo muro e da tutti gli avvenimenti successivi. Per Mosca il problema decisivo resta quello della dislocazione dell'alleanza occidentale facendo leva sui desideri tedeschi di riunificazione: e nella crisi politica che travaglia da qualche mese la Repubblica Federale tedesca, e che è molto di più che una crisi del leadership di Adenauer o una lotta per il potere all'interno del partito cristiano-democratico, la forza delle posizioni nazional-neutralistiche si manifesta sempre maggiore. Sarebbe assurdo pensare che la classe dirigente am~ricana non si sia resa conto di tutto ciò, che essa non abbia pensato a ciò, proprio nel momento in cui impegnava i sovietici per persuaderli, in modo che si spera definitivo, della sua determinazione ad adoperare in caso di necessità la ritorsione atomica. Per paradossale che la cosa possa sembrare, proprio il gesto americano compiuto senza consultazione preventiva degli alleati dovrebbe rassicurare questi alleati e servire a rafforzare l'alleanza. La crisi dello scorso ottobre può essere un punto di partenza per una soluzione definitiva dei problemi politici e strategici del sistema atlantico. D'altra parte, come abbiamo già accennato, si è verificata ancora una volta la necessità della costruzione europeistica: mai, forse, negli ultimi dieci anni come durante l'ultima settimana di ottobre si è visto chiaro che il solo modo di colmare il vuoto di potere politico che si è venuto a creare nel vecchio continente, il solo modo di restituire una volontà politica e morale agli europei, è quello di dare opera a costruire un'Europa unita. La lezione più severa è stata certamente quella che ha ricevuta proprio la Gran Bretagna: informati esattamente come tutti gli altri alleati europei, gli inglesi hanno visto frantumato il mito della « grande famiglia anglosassone », rovinata la pretesa di « rapporti particolari » cqn gli Stati Uniti. Se v'era bisogno di una prova ulteriore del declassamento dell'Inghilterra al livello degli altri paesi d'Europa, questa v'è stata, inequivocabile e addirittura brutale, 17 Bibliotecaginobianco

• La Redazione · e proprio nel momento in cui la relativa solitudine dell'India innanzi all'attacco cinese e l'equivoco atteggiamento di alcuni paesi come il Ghana facevano franare un'altra mitologia, quella dell'unità del Commonwealth. Ma come sbaglierebbero quegli inglesi, i quali innanzi a -questo fatto si lasciassero cogliere soltanto dal risentimento o da una disperata e futile nostalgia del passato di grandezza imperiale del loro paese, così sbaglierebbero quegli europei che si abbandonassero al ricordo delle ironie golliste sui « rapporti particolari » tra Gran Bretagna e Stati Uniti e alla soddisfazione di veder finalmente la stessa Inghilterra al loro medesimo rango. Nell'esame di cos~ienza che gli europei devono fare non v'è, no•n vi può essere posto per simili ~entimenti: l'ulteriore dimostrazio·ne del declassamento dell'Inghilterra è una nuova tragica manifestazione della debolezza europea; e gli inglesi che cedessero al risentimento anti-americano o gli europei che si rallegrassero di questa disgrazia britannica mostrerebbero di non aver inteso la gravità del momento, la vastità dei problemi e la lezione della realtà effettuale. Da qualunque parte si consideri la questione, sembra evidente che il solo modo che hanno gli europei per arrestare il processo di decadenza politica che li travaglia da anni è quello di costruire un'Europa unita: c'è da aug1.1rarsi che l'abbiano inteso· quegli inglesi che pensano con orrore alle rinunce di nazionalità, quei francesi che sognano un avvenire di grandeur per la Francia in Europa, quei tedeschi che si lasciano ipnotizzare dalle regioni dell'Est e che paiono pensare che una politica di neutralismo nazionalistico possa avvicinarli all'unificazione, e finalmente quegli italiani che si lasciano vivere senza preoccuparsi degli affari europei. Bisogna ripetere fino alla noia che il Mercato Comune con l'Inghilterra non è l'Europa politica e potrebbe addirittura diventare una causa di ritardo della costruzione federalistica; bisogna ripetere che un'Europa politica senza la Gran Bretagna e guidata da una Francia che tende a staccarsi dagli Stati Uniti non è una forza, ma una debolezza, e per di più un nuovo fattore di equivoco e di confusione; bisogna ripetere che nella crisi di impotenza dell'Europa il dovere delle forze socialiste europee è quello di abbandonare l'illusione neutralistica e di affiancare le altre forze democratiche nel tentativo di costruzione federalistica, sul quale oggi si proietta, oltre all'ombra minacciosa della sempre più grave crisi francese, anche quella, no11 meno minacciosa, della crisi politica che si va delineando nella Germania occidentale. LA REDAZIONE 18 Bibliotecaginobianco . I

La condizione degli • • 1nsegnant1 medi di Roberto Berardi , _Da qualche anno i quotidiani e le riviste più sensibili ai problemi della scuola italiana (in verità 110n sono molti, né gli uni né le altre) hanno segnalato un fenomeno che- va rapidamente crescendo: lo Stato stenta a trovare i prof essori per le scuole medie. Dapprima si è trattato di un fatto ristretto ad alcuni tipi di cattedre, per lo più di materie tecniche; poi pian pia110 si è esteso a settori -ove pareva - dato l'indirizzo culturale prevalente da secoli in Italia - che non vi sarebbe mai stata carenza di perso11ale insegnante: alludiamo alle cattedre di materie letterarie. Nello scorso an110 scolastico, per assicurare il funzionamento di molte scuole, si è dovuti ricorrere dapprima a laureati di materie affini, poi a studenti universitari. Non solo: ma la crisi è tanto estesa che persino nei concorsi a cattedre si nota, nei settori ove maggiore è sempre stato l'affollamento, un notevole calo del numero di concorrenti; e per certe materie tecniche parecchi concorsi sono andati quasi deserti. Il fenomeno, però, non è solo italiano: anzi, per cause che diremo, da noi si è manifestato in ritardo, rispetto alla maggioranza dei paesi occidentali. Anche nella recente conferenza sull'istrt1zione, organizzata dall'ATA a Strasburgo (23-28 luglio 1962), si è insistito sulla generale difficoltà dei paesi dell'Europa occidentale e dell'America del Nord ·a reclutare insegnanti in numero sufficiente ai bisogni delle scuole medie. LE CAUSE.La notizia può apparire incredibile a chi non sia al corrente delle profonde trasformazioni economico-sociali intervenute nella comunità italiana negli ultimi dieci anni. Il fatto che la carenza d'insegnanti si verifichi anche in Francia, nella Germania di Bonn, nel Benelux, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (in questi paesi il fenomeno già si era preannunciato tra le due gt1erre mondiali) ci guida a scoprirne il motivo. Per secoli nei paesi europei i ceti « fornitori » d'insegnanti (e di funzionari statali in genere) furono i ceti piccoloborghesi della campagna e della città (più di quella, invero, che di questa). In un mondo in èui l'attività economica era prevalentemente agricola, o comunque legata alla tèrra, mentre le attività· terziarie non essenziali erano ridotte al minimo, la funzione docente nella scuola 19 Bibliotecaginobianco

• Roberto Berardi media offriva un impiego sicuro, sirfficientemente remunerato in rapporto non al costo della vità in sé ma al tenore di vita dei ceti piccolo f! medio-borghesi, dotato di molta dignità sociale, e tale da offrire, direi .tangibilmente, la sensazione, a chi vi si dedicava, di esplicare una funzione riconosciuta essenziale in vantaggio della società: un impiego quindi che poteva dare non piccole soddisfazioni a chi vi attendeva per tutta la vita. L'accentuata industrializzazione ha modificato il quadro. L'industria ha via via creato un cresce11te numero di posti di lavoro che esigono cultura di livello universitario, e che possono quindi offrire uno sbocco a chi ha coltivato gli studi superiori, e anche soddisfazione a chi ama il lavoro intellettuale. Contemporaneamente sono andate crescendo le attività terziarie (i « servizi » ), anch'esse richiedenti spesso una cultura di qualità superiore. L'accresciuto tenore di vita di larghi strati della popolazione ha poi offerto nuove possibilità di sviluppo a professioni tradizionali (si pensi, per es., all'odontoiatria); mentre le conquiste sociali (le assicurazioni contro le malattie e gl'infortuni, per es.) sono tornate indirettamente a be11eficio di altre (medicina, chimica farmaceutica ecc.). Poiché ·questo sviluppo di attività si è svolto in regime di economia « borghese », u11 insieme di fattori (in particolare, per il libero professionista, la possibilità di fissare lui stesso, in larga misura, il prezzo del proprio, lavoro) ha assicurato, a coloro che si dedicano a tali attività, una remunerazione costantemente adeguata ai bisogni 11uovi del mo-ndo d'oggi, al livello d'un membro della classe dirigente. Viceversa lo Stato non ha seguìto il movimento• ascensionale delle remunerazioni del settore privato; ed ha perciò indirettamente incoraggiato il dirottamento delle energie migliori verso campi più « moderni », verso professioni nuove o no·vellamente potenziate, in una parola verso settori più allettanti. I bassi stipendi, però, non sono, la causa unica del diminuire delle « vocazioni » all'insegnamento: vi hanno gran parte le vie nuove aperte dal mondo moderno all'attività dell'uomo. È certo comunque che il pessimo trattamento economico che lo Stato ha riservato ai professori negli ultimi quindici anni (per restringerci al dopoguerra) ha costituito il fattore decisivo. L' « ESPLOSIONE » SCOLASTICA. A queste cause dirette dell'insufficienza numerica degl'insegnanti medi si aggit1nge una causa indiretta: il rapido crescere del numero degli studenti. Anche qui, in mancanza d'una precisa volontà politica di favorire l'istruzione da parte delle maggioranze parlamentari, è stata l'industrializzazione crescente a provocare il fenomeno. Da un lato il ~igliorato tenore di vita di strati 20 .. Bibliotecaginobianco

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