Mario Caczagli una forza di tipo nuovo, questo sì - adatta cioè alla nuova realtà politicosociale, che era scaturita dalla guerra, una realtà caratterizzata dall'affacciarsi sulla scena delle masse popolari, dallo sviluppo tecnico, dai nuovi mezzi di comunicazione (basta pensare alla funzione dei camions per l'azione ·delle squadre punitive ) - ma essa servì a raggiungere obbiettivi di vecchia origine. Obbiettivi vecchi almeno quanto Crispi e Bava Beccaris. Eppure, in una pagina di libro, Salvemini disegna perfettamente i caratteri di quella classe dirigente che espresse e alimentò la reazione fascista. « La classe capitalistica italiana - scrive Salvemini - era di formazione recente; essa doveva la sua ricchezza soprattutto ai dazi protettivi e alle commesse statali, e non aveva ancora acquisito quella coscienza della propria dignità sociale, dei propri diritti e dei propri obblighi, che è il frutto di una lunga esperienza politica ed economica. In particolare i nuovi ricchi creati dalla guerra ... erano incapaci di mantenere le loro posizioni all'interno di un sistema di libera concorrenza e di libertà politiche ». E dal canto loro, erano « ancora più brutali - aggiunge più sotto - gli agrari, che per tradizione secolare erano abituati a considerarsi padroni assoluti delle loro terre e a trattare i contadini come bestie da soma, senza nessun diritto civile e nessun senso della dignità umana». Infine, i militari di professione, coloro che « dettero ai fascisti una organizzazione fortemente gerarchica ». Ma questa precisa diagnosi è troppo isolata per non apparire che uno dei tanti «fatti» che costituiscono questa storia; essa ha una apparenza statica, a sé, mentre le conseguenze storico-politiche che da essa sono deducibili dovrebbero, ci sembra, sostenere un esame, così ricco sotto cento altri aspetti, dell'origine e dell'avvento del regime fascista ed essere il filo rosso che unisse gli avvenimenti nel loro svolgersi. Troppo poco valutato il fascismo come fenomeno dalle profonde e concrete radici (di quella concretezza che a Salvemini sfugge) nella storia italiana, la condanna che se ne dà è piuttosto morale che storica. Sono un intelligenza e uno spirito di rigida moralità che, urtati, insorgono contro la forza bruta, la violenza, l'irrompere di forze irrazionali. La mente di Salvemini condanna i delitti e la soppressione di ogni libertà e le complicità e le connivenze, ma non afferra quel che storicamente, realmente il fascismo rappresenta, cioè antiprogresso, spinta all'indietro delle possibilità di sviluppo democratico del paese. Si avverte poi una_ seconda forma di condanna, non tanto moralistica questa, quanto piuttosto sentimentale, che coinvolge con il fascismo tutte le forze e le condizioni createsi dopo la grande guerra, che provocarono il definitivo crollo del « mondo di ieri ». Salvemini non capì e non si ritrovò nella realtà sociale e politica del dopoguerra (e con lui molti altri del suo tempo e della sua formazione umana e culturale) perché egli rimase attac~ cato al vecchio sistema, a cui pur aveva rivolto feroci critiche. Si vedano gli apprezzamenti e gli elogi e la intima soddisfazione con cui mostra al pubblico americano le conquiste e i progressi dell'Italia postrisorgimentale, la valutazione che egli fà dei suoi uomini e delle sue istituzioni (lui, Salve100 Bibliotecaginobianco
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