Nord e Sud - anno IX - n. 26 - febbraio 1962

Recensioni di ulteriormente analizzarlo come usa fare coi trattati e le monografie. Resta invece da dire qualche cosa sul non estrinseco valore del « genere letterario » diaristico, decisamente introdotto dal Paci, col suo volumetto, nella nostra letteratura filosofica, la quale finora, salvo errore, ne era del tutto digiuna. È un tentativo, nel complesso, riuscito, né la perizia letteraria dell'autore poteva- farne dubitare. Certi paesaggi, certe figure, situazioni, sensazioni, sono rese sulla pagina con rara freschezza, immediatezza, bravura; gli stimoli alla riflessione si concentrano e insieme moltiplicano per merito della forma coordinante del dettato, aforistica del concetto. Questi i vantaggi della forma letteraria prescelta dal Paci, che oltretutto ha il merito di rompere coraggiosamente, almeno in un punto, la pesante armatura erudita e accademica del modo universitario di scriver filosofia, che è proprio della tradizione retorica del nostro Paese. Tuttavia nel Diario c'è qualcosa che ricorda piuttosto Péguy e Marcel, che non Pascal o Kierkegaard: si ha l'impressione, insomma, d'una scrittura della memoria piuttosto che dell'immediato, onde l'opera nasce sì, in molti punti, perfino poetica e sempre filosoficamente valida, ma troppo unitaria e coerente per non dare l'impressione, talvolta, che i giorni siano diventati mesi ed anni, inclusi cioè in una prospettiva ulteriore, mediata. Ma queste sono cose che non riguardano, se non di riflesso, la filosofia; e al Paci va reso il merito di averci offerto col Diario soprattutto una prova convincente delle sue capacità di filosofo, che tutte si riassumono, a mio parere, nel · suo saper fare uso della logica dell'infinito, che è poi un necessario potenziamento della dialettica e al tempo stesso il principio della vita morale: « Percepiamo ad ogni istante, perché ad ogni istante lo viviamo, ciò che per l'intelletto è un paradosso: il consumarsi della nostra vita che è nuova vita ... E se non dogmatizzo la mia percezione in un discorso astratto, sento, anche quando non so qual era, che c'è stata un'esistenza sulla terra prima dell'uomo, un'esistenza prima di ciò che si usa chiamare vita, un'esistenza che ha sempre avuto prima di sé un'altra esistenza, all'infinito» (13 aprile '56). È questo il limite del finito e insieme, dialetticamente, il suo affacciarsi sull'infinito e sull'infinità degli altri soggetti, dunque sull'eticità. È questo altresì il vero principio del superamento dell'esistenzialismo in una concezione della realtà che, se pensata in spirito di verità, potrebbe anche, ben oltre i facili eclettismi, coincidere con altre concezioni, se non nei metodi, certo nei risultati. lvla su quest'ultimo punto il nostro discorso è stato iniziato col Paci, e dunque deve proseguire, in sedi più adatte. RAFFAELLO FRANCHINI 89 I Bibliotecaginobianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==