Nord e Sud - anno VIII - n. 13 - gennaio 1961

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna AUGUSTO GRAZI&~I, Non bastano le opere pubbliche GILBERTO ANTONIO MARSELLI, Gli assistenti sociali in Italia PAOLO SYLOS LABLNI, Problemi di sviluppo dell'economia siciliana LUIGI AMIRANTE, I fratelli Parondi in città FRANCESCO -COMPAGNA, Ricciardetto e la questione meridionale e scritti di ROBERTO Dr STEFANO, CARLO FAINA, VITTORIO FROSINI, GrusEPPE GALAsso, FRANCO SIMONCINI , ANNO VIII · NUOVA SERIE · GENNAIO 1961 · N. 13 (74) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE · NAPOLI Bibiiotecaginobianco

SOMMARIO Augusto Graziani Gilberto Anto11io Marselli N.d.R. Franco Simoncini Roberto Di Stefano Luigi A1nirante Francesco Compagna Paolo Sylos Labini \/ ittorio Frosini Carlo Faina Uno copia L. 300 - E!tero L. ~60 Ahhoua,nent i Soste a i tore L. 20.000 Italia r.nnuale L. 3.300 ,emeetral«" L. 1. iOO Estero annuale L. 4.00Q semeetrale L. 2.200 Effettuare i versamenti 1ul C.C.P. 6.19585 intestato a Ed. Scientifiche Italiane S.p.A. Via Roma, 406 Napoli Bibiiotecagi nobianco Editoriale [ 3] Non bastano le opere pubbliche [8] Gli assisten,ti sociali in Italia [ 22] GIORNALE A Più VOCI La trappola frontista [ 58] Le partecipazioni statali e la politica di sviluppo [ 61] Il 1iuovo Politecn,ico di Napoli [68] I fratelli Paroridi irt città [70] Ricciardetto e la q'uestione 1n,eridionale [74] DOCUMENTI Problemi di sviluppo dell' econo1nia siciliana [87] CONGRESSI E CONVEGNI Il XXXIX Congresso Nazionale di Storia clel Risorgi11iento [ 105] J_jETTERE AL DIRETTORE Gli ìndiistriali e il Mezzogiorno [112] CRONACA LIBRARIA [120] DIREZIONE E REDAZIONE: Napoli - Via Carducci, 19 .. Telef. 392.918 Abbonamenti, distribuzione e pubblicità : EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Roma, n. 406 - Napoli - telef. 312.540 - 313.568

Editoriale L'iriiziati.va di alcuni cleputati democristiani, molti dei quali appartenenti all'esile gru.ppetto scelbiario, di presentare un emendam.erito al « Piano per la Scuola)>, allo scopo di provvedere ad un finanziamento pubblico clelle scuole private, questa iniziativa è un fatto di estrema gravità. Innanzi tutto perchè, come è stato senipre rilevato quando un tale problema è venuto in discitssione e come s'è ripetuto ancora una volta nelle ultime settimane, quell'emendamento è chiaramente contrario alla lettera ecl allo spirito della Costituz-ione. Il terzo capoverso dell' articolo 33 della nostra carta costitiizionale è, in proposito, fin troppo esplicito: « Ent-i e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazio11e, se11za oneri per lo Stato >>. Se proprio i firmatari di quell' emeridanierito che s'è detto riteneva,no indispensabile che si provvedesse a spese del p;ubblico agli istituti privati di insegnamen.to, dovevano non, già intervenire in sede di normale attività legislativa, ma chiedere la revisione dell'articolo 33 della Costituzio1ie. O dobbiamo pensare che essi ignorassero il dettato della Costituzione stessa, che dei legislatori, eletti clal popolo, non conoscessero il quadro entro il quale deve tenersi la loro attività di legislatori? Ma, comunque ignoranti o scie·nti violatori clella lettera e clello spirito del dettato costituzionale, il risultato resta lo stesso: l' i-niziativa di quei deputati scelbiani è manifestazione e prova, insieme, di un malcostume politico, che ferisce al cuore le nostre istituzioni. Uria Costituzione -· diceva Thomas Pairie -:- è per la libertà ciò che la grammatica è per una lingua: avere in spregio questa grammatica, equivale ad avere in, spregio la stessa libertà e, quindi, a conculcarla. In secondo luogo, quell'emendamento è graviss,imo per i provvedimenti che tende ad attuare. Sono note a tutti le condizioni disperate 3 Bibiiotecag inobianco

in cui versa la scuola di Stato italiana: scarsità estrema di aule e di attrezzature scolastiche e difficoltà enormi 1iel reclutamento del corpo insegriante sono i mali che più di tutti l'affliggono. Ed è noto, altresì, che proprio per queste ragioni lo Stato non può assicurare a tutti quel completamento clella sciiola dell'obbligo che è previsto clalla C ostituziorie. Non v'è altro, motivo rJer questi mali, o almeno per la scarsità clelle aule e cli attrezzature scolastiche) che le difficoltà di finariziamento. E 1ioi siamo i primi a riconoscere clie queste clifficoltà rio1i sono agevoli da sormontare, come hanrio detto e vanno clice1ido alcurii facili oppositori; sia1no i pri1ni a riconoscere clie lo Stato italiano lia numerosi problemi di estrema gravità da aggreclire conteni1Joraneamente) ariche se credianio clie si debba riconoscere alla scuola una priorità su altre questioni, che possorio oggi parere pitì urgeriti, ma che, in una prospettiva a lunga scacleriza dell'avvenire del paese, sono certarnente meno i1nportanti. Ma quando) in queste concliziorii, si vogliono spendere decine cli miliarcli per la scuola JJrivata, o si è completamente irresponsabili o si vuole JJositivanie11te e scienteniente danneggiare la scuola di Stato. Poichè quelle clecine cli niiliarcli sono ·attratte alla scuola cli Stato alla costruzione cli nuove aule a questa necessaria al fabbisogno cli attrezzature cli cui questa non 7JuÒpiù fare a 1neno. È semplice1nerite riclicolo afjermare, come alcuni fanno, che, poichè la sciiola è un pubblico servizio cu,i provveclo1io i cittaclini pagando le tasse, bisogria far giustizia a quei cittacli1ii i quali mandanclo i loro figli alle scuole private anzichè a quelle pubbliche, pagano per 11n servizio cli cui non usufruiscono, ecl in JJiu devo110 acquistare il meclesi11io servizio, acl un prezzo più alto, presso gli istituti privati frequentat'i dai figli. Quei genitori che evitano ai figliuoli la sc1.tola cli Stato fanno una. scelta che sorio pienamente in diritto cli fare, dal momento che la Costitiizione clichiara esplicitamente che « l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l' insegnamerito )). Ma proprio per questo il loro problema non riguarda più la comunità: rion è clie essi abbiano scelto la scuola privata perchè quella pubblica non esiste o non è in graclo di for1iirc il servizio che cleve for1iire (o comunque, anche se fosse così, bisognerebbe, prim,a di ogni altra cosa, mettere in grado la scuola di Stato di adempiere al sito dovere). La loro scelta è clettata da altre ragioni, clie potremmo forse cliscutere, ma clie rispettianio) a patto che non, interferiscario col pubblico interesse. Vogliamo anche creclere che quelle ragioni sono nobilissime, che non sono un mero capriccio o una manifestazione di un'assurda pretenziosità sociale: bisogna, però, clie qu,ei 4 Bibiiotecaginobianco

cittadini paghino per le loro ragioni. La sola giustizia clie lo Stato deve rendere loro è di garantire che nessuno e nulla li costringerà a manclare i loro -fìgli alle scuole di Stato per ragion.i ideologiche: -fìn qui, e basta. Se, infatti, accettassimo quel ragionamento, se ne clovrebbero fare in-fìn-iti altri, che troviamo ugualmen,te rispettabili: ad esempio, i trasporti cittaclini sono un servizio pubblico, pagato in, buona parte dai cittadini con le imposte; bisogna allora rendere giiistizia a quei cittaclin-iche adoperano le loro automobili private facendo pagare loro meri o imposte; o bisogna rendere giustizia a qiielli che usufruiscono di taxi invece che degli autobus, finanziando, a spese del comu,ne, le compagnie di autopubbliche! Ma forse l'aspetto più grave dell'episodio è che un emenclamento, incostituzionale ecl irrespo11sabile quanto ai suo-i fini ultimi, sia stato suggerito neppure cla un inaccettabile clottrinarismo clericale (nel che, alrrieno, vi sarebbe stata qualche coerenza), rna cla meschine opport11nità di giochi interni di partito, miranti a sconvolgere l'attuale schieramerito dei partiti e ad impedire qiiell' operazione a si1iistra, che si viene preparando con tanta fatica nell'interesse delle istituzioni democratiche e clello sviluppo clel paese. Il senso clella manovra, infatti, è fin troppo evidente, perchè si possano nutrire dubbi in proposito: c·iò che si vuole fare è clislocare l'attuale maggioranza parlamentare, per agevolare la formazione di un altro governo, aperto a clestra. Quello dei finanzia111,entialle scuole private - tale è il ragioriarnento dei piccoli settatori della destra democristiana - dovrebbe esser0 un provvedimento su cui tutto il partito cattolico reagisce unitariamente; e su cui tutto il centrosinistra laico, dai repubblicani ai radicali, dai socialdemocratici ai socialisti, reagisce altrettanto itnitariamente. Uria volta che si fosse interposto qitesto cuneo lacerante tra le forze cattoliche cli centro-sinistra e quelle laiche, si sarebbe non solo respinto in u11,' opposiziorie -intransigente il centro-shiistra laico, ma si sarebbe anche disarmato quello cattolico, lo si sarebbe screditato agli occhi dei suoi alleati naturali, lo s-i sarebbe, final1nente, fatto prigioniero. Le forze cattoliche e laiche del centro-sinistra, unite, rapprese11Jano uno schierarriento potente, capace di imporre una certa svolta politica; separate, esse non desterebbero più nessuna preoccupazione. Pertanto, abbattuto Fanfani sii una quest-ione che pei cattolici è quasi di dottrina, resi inermi il centrosinistra e la sin.istra democristiani, respinti nell'opposizione cli principio i laici, la situazi011e sarebbe matura per un governo appoggiato da quelli de-i liberali disposti a rriettere in soffitta Cavour e Croce, dai monar5 Bibiiotecaginobianco

chici e (percliè no?) dai fascisti; e si sarebbe esorcizzato, una volta per tutte, l'ossessionante f an.tasma dell'apertura a sinistra. A noi corre l'obbligo di ricordare qui un esempio illustre e tragico, che dovrebbe essere un grave ammonimento per tiitti: l'esempio della Francia. Le istituzioni democratiche francesi hanno cominciato a schriccliiolare molto prinia del giorno di Ognissanti del 1954, molto p1·ima, cioè, della rivolta algerina. I primi segni di una crisi grave, che dallo schieramento dei partiti si sarebbe naturalmente ripercossa sulle stesse istituzioni, si ebbero allorchè gollisti ed i.ndipenderiti, nella corsa alla conquista dell'elettorato cattolico, e soprattutto per tagliare il Mouvement Répitblica'in Populaire clalla sinistra, prepararono quel progetto di legge sul firianziarnento clelle scuole private, che non poteva non essere fatto proprio dal partito cattolico, e che, difatti, divenrie famoso col nome di legge Barangé, clal depiitato del "A1.R.P. che fu in qitell'o·ccasione relatore generale sul bilaricio. Questa legge respirise all'apposizione i socialisti e quelli clei radicali che erano restati fedeli alla dottrina della laicità della scuola, e spostò irrevocabilmente a destra i democristiani francesi, irretendoli in q-uelle magg-ioranze conservatrici, nazionalistiche e sostanzialmente avverse al reg-inie, coi gollisti appu:nto e con gli indipendenti e contadini, che segnarono il principio di tante futi,re sciagure. Proprio per la legge Barangé sul firianziamento pubblico delle scuole private (la quale, del resto, assicurava finanziamenti agli istituti liberi, 1na lasciava i-ntatto lo statuto dei professori di questi stessi istituti, e dunque li lasciava preda dello sfruttamento, e non prevedeva un controllo dello Stato sul loro reclutamento, proprio come finirebbe con t accadere in Italia con l'emendamento in questione!) venne meno quell'allea·nza tra M.R.P. e S.F.1.0., tra cattolici e socialisti, che v'era stata prima, e che avrebbe potuto esserv'i anche dopo il 1951, come n1 ucleo propitlsore cli una politica coraggiosa, di sviluppo economico e sociale alr iriterno, di risolute iniziative federalistiche sul JJiano europeo, ed anche di accorta e tempestiva liqttidazione delle passività delf eredità coloniale. La storia non si fa con i <<se»: e dunque nessuno può dire cosa sarebbe accaduto in Francia se non vi fosse stata in Francia la legge Barangé. Quello che si può dire, però, è che il provvedimento iri questione, disarticolanclo e spezzando lo schieramento comune delle forze autenticamente democratiche, preparava anch'esso la crisi delle istituzioni. L'esperienza francese e un'esperienza che va meditata, non tanto da quelle forze all'interno della Democrazia cristiana che in passato 6 Bibiiotecaginobianco

sono parse disposte a tutto, perfi11,oalla squallida avveritura coi fas cisti, 1Jur di assicurare la realizzazione dei loro progetti politici; quanto da tutti i rlemocratici in seno alla D.C .. Poichè è evic!ente che la manovra è rivolta in primo luogo contro di essi, e tende a paralizzarli c ome forza politica efficiente. Se i democratici della D.C., da Moro a Fanfa·ni, a Pastore, a Sullo, ceclono a/; ricatto clericale, essi non solo avranno compromesso tutta la loro azione politica passata e le ragioni di essa, rna avranno anche abdicato come gruppo dirigerite del partito. Qui non si contrappo11gorio un dottrinarisrno laico ed uno cattolico, ma due politiche: l'una cli allargamento dell'area clen1ocratica, di difesa e rafforzamento delle ist·ituzioni, cli riforme economiche e sociali, di ap profonclimento dello spirito liberale; l'altra cli retriva chiusura, di g retta clifesa cli privilegi, di i1nmobilità. Che la destra, dentro e fuori la De mocrazia cristiana, abbia scelto come terreno di battaglia contro le f orze della sinistra, laiche o cattoliclie che siano, proprio il terreno del fi nanz-iamento pubblico delle scuole private, è una prova di più, se ma i ve ne fosse stato bisog110, della sua accortezza e spregiudicatezza tat tica, e ·insierne clel sito assoluto clisinteresse non solo per la causa delle istit-uzioni democratiche, e clella stessa lotta al comunismo, ma anche per quella del progresso e del benessere del paese. Ai suoi occlii 11011, è il µroble1na cli principio, su cui tenta di far l'uriità dei cattolici, che co nta, quanto il risultato di parte che se ne ripron1ette. Proprio per q,uesto i dernocratici della D.C. devono avere il coraggio ed il senso di responsabilità di opporsi a questa squallida ed irresponsabile manovra, di denunciarne i secondi fini, di evitare, insomma, che essa comprometta i risultati di t,na politica unitaria rli tutta la sinistra dernocratica, laica e cattolica, che si sono potuti fin qui conseguire. 7 Bibliotecaginobianco

Non bastano le opere pubbliche di Augusto Graziani La polemica sl1l Mezzogiorno si è riaperta. Il decennale della Cassa per il Mezzogiorno e la pubblicazione dei primi bilanci economici regionali hanno dato esca a t1n ampio dibattito che, iniziatosi st1lle colonne de Il Monclo, si è esteso ad altre sedi ed ha dato la stura a una serie di vivaci interventi. Nella discltssione, già di per sé accesa, si è ora inserito uno scritto della signora \l era· Lutz, apparso dapprima in una rivista britannica, st1ccessivamente tradotto e pubblicato in Italia (Mondo Economico, 1960, n. 44). Mentre gli interventi precedenti alternavano in varia misura critiche e consensi, lo scritto della signora Lt1tz è del tt1tto pessimista; e per di più di un pessimismo che non si riferisce alla particolare politica di sviluppo fin qui attuata 11el ,Mezzogiorno, ma alle possibilità stesse di attuare una politica di sviluppo nelle regioni meridionali. Una presa di posizione così autorevole e sconfortante 110npuò essere ignorata: è necessario prenderla i11 attenta considerazione. 1. - Ripercorriamo brevemente lo scritto della sig11ora Ll1tz. Dopo t1na introduzione descrittiva, riguardante la struttura economica del .. Mezzogiorno e la natura degli interventi ivi effettuati, la Lutz si chiede per quali ragioni la politica meridionalistica abbia registrato un insuccesso. La risposta, a nostro modo di vedere, esatta, è che la creazione di infrastrutture e gli incentivi fiscali non sono sufficienti di per sé a dare ravvio a un processo di sviluppo. Senoncl1é, invece di trarre la conseguenza che altri e più adeguati strumenti dovrebbero essere utilizzati, la signora Lutz, con procedimento logico piuttosto sommario, passa alla conclusione che non è possibile attuare nel Mezzogiorno una politica di sviluppo che abbia speranze di successo. Dj consegl1enza 8 Bibliotecaginobianco

bisognerebbe prendere 1n considerazione un processo di emigrazione (o di deportazione?!) in massa verso le ricche regioni del Nord, abbandonando definitivamente le povere contrade del Meridione. Quel che colpisce di più i11 questo atteggiamento è che esso manifesta la sfiducia più assoluta non contro la politica effettuata finora, ma contro qualsiasi genere di interventi che si possano concepire a favore del Sud. A ben vedere il pessimismo della signora Lutz ha due radici distinte. L'una è cl1e lo sviluppo del Mezzogiorno abbia senso solo se esso possa essere ottenuto mediante investimenti rapidamente fruttuosi, così che esso non debba costituire un costo per la collettività. La seconda è che il Mezzogiorno sia semplic mente una regione non suscettibile di sviluppo. Il primo è un punto di importanza basilare, e per giudicare della sua fondatezza, è necessario richiamare e av re b ne l)resenti i principi fondamentali della politica meridionali ta- nonché direbbero gli e onomisti, i lJrincipali « giudizi di valore » che sta1 no alla bas di essa. Ci riserviamo dunque di tornarvi u nella s cor da l)arte di questo scritto ove cercheremo di chiarire che 1 svilu1JI)Odel Mezzogiorno com1Jorterà necessariamente un costo 1Jer la coll tti ità e che questo costo non sarà ripagato, in termini di renclimenti materiali se non in un futuro più o meno prossimo o pjù o meno lontano· ma he d'altro canto la diffusione al Sud del si t ma indu triale italiano rappresenta una meta giustificabile anche e motivata da coi sid razioni cl1 non hanno a che fare col vantaggio conon1ico immediato. La signora Lutz, nel prendere posizione così recisamente contro ogni politica meridionalistica di qualsiasi specie, crede forse di apportare al dibattito la parola imparziale dell'economista, e di mettere in guardia l'uomo politico contro eventuali passi falsi. Questa è per lo n1eno una ingenuità. Da buona economista la signora Lutz dovrebbe sapere che non esistono azioni che possano essere raccomandate o sconsigliate in base a pure considerazioni economic]1e. Ogni indicazione di una 1neta da perseguire implica una scelta, e come tale una decisione sul terreno politico. Caso strano, nel prendere Je sue posizioni, la signora Lutz presceglie proprio l'atteggiamento tipico di taluni ambienti conservatori che considerano la politica di interventi nel Sud un mero spreco di pubblico denaro e vorrebbero che tale politica non fosse mai stata concepita e posta in atto. Una volta chiarita la natura strettamente politica della posizione assunta dalla Lutz, possiamo lasciare ai politici il compito di valutarla. 9 Bibliotecaginobianco

Soffermiamoci piuttosto a considerare la seconda radice del pessimismo che ispira l'articolo della economista inglese: l'idea che lo sviluppo del Mezzogiorno sia una « impossibilità tecnica ». La incongruenza di qt1esta idea deriva dal fatto che la· signora Lutz considera il 11ezzogiorno in blocco, co·me una regione compatta e unitaria, che si debba prendere o lasciare nella sua interezza. In realtà è raro trovare regione così profondamente variata nella ~atura dei suoli, nelle condizioni climatiche, 11ella configurazione orografica, nella civiltà degli abitanti. Dare un verdetto unico di condanna o di salvezza, che sia valido per tutto il Mezzogiorno, è avve11turoso e semplicistico. Può anche darsi che per alcune zone la diagnosi della signora Lutz sia esatta. Attenti studiosi della economia meridjonale (e fra questi il Rossi Doria, di recente, su questa rivista) l1anno riconosciuto che per non poche zone del Mezzogiorno si pone seriamente un problema di abbandono definitivo, dal momento che le condizio11i climaticl1e avverse e la povertà dei suoli limitano granden1ente le possibilità di sviluppo agricolo. Ma i11 altre zone tali possibilità sussisto110; in tutti i terreni in cui sia possibile l'irrigazio11e è anche IJossibile l'introduzione di culture che congiunte agli allevamenti zootecnici, possono dar luogo alla formazione di redditi adeguati. Analogamente, per quanto rigl1arda le attività extragricole, esistono zone ove sono già in atto sviluppi promettenti; il Caserta110, il Salernitano, la regione di Bari, Siracusa, ne sono gli esempi più cospicui. Ma la signora Lutz, nel suo furore distruttivo trascura ancl1e questo. La ubicazione ottima dell'industria, ella ritiene, è nel Nord· l'industria del Sud si allontana dall'otti1no in misura tanto maggiore quanto più essa si discosta geograficamente dal triangolo indt1striale; l'acciaieria di Taranto rappresenta dunque la quintessenza dello scandalo. Sarebbe facile cavillare su queste proposizioni e osservare che il venerando concetto di « ottimo » è valido solo in una situazione statica, ma allo stato attuale della teoria economica perde significato preciso in un sistema che si evolve (cosa che la signora Lutz dovrebbe ben conoscere, da brava economista quale ella è); o 11otare che la distanza dal Nord rappresenta uno svantaggio solo nel caso in ct1i i mercati siano desti11ati a restare in perpetuo quelli del Settentrione (il che significherebbe negare a priori ogni possibilità di progresso nel Sud). Ma non vale la pena di soffermarsi su questi punti minori; è meglio considerare attentamente quel che vi è di ragionevole nelle parole della signora Lutz. 10 Bibliotecaginobianco

Considerato alla luce della ragione, il pess1m1smo della Lutz sì riduce all'idea che non tutto il Mezzogiorno possa essere cc salvato » : un'idea che come si è detto non è affatto nuova alla letteratura meridionalistica, anche se non era mai stata presentata in termini così melo - drammatici. Correttamente interpretata, la proposta della Lutz si riduce a quella di favorire l'emigrazione per quel tanto che è necessario ad accelerare l'evoluzione del Mezzogiorno; e anche questo rappresenta un'idea che è sempre stata richiamata e sottolineata dai meridionalisti più competenti. Se presa alla lettera, dunque, la diagnosi della signora Lutz è semplicemente inaccetta 1 bile, perché no11dimostrata e non dimostrabile. Se ricondotta invece nei suoi limiti di ragionevolezza, e se spogliata della sua veste polemica, essa ripete opinioni familiari della letteratura economica meridionalista. Vi è tuttavia un'altra ragione, e più sottile, per la quale l'articolo della signora Lutz appare fuorviante, specie in quanto destinato a lettori stranieri, e quindi non versati 11eidettagli dell'economia italiana. Le critiche della Lutz, come si è accennato non si rivolgono alla politica meridionalista così come essa è stata finora attuata, ma alla idea generale di effettuare una politica di sviluppo in una regione a suo dire non suscettibile di progresso. Ella riconosce che alla base della politica attuale è stata la speranza riposta negli effetti propulsivi della spesa pubblica, speranza rivelatasi priva di fondamento. Ma questo è l'unico appunto rivolto alla politica di sviluppo seguita in Italia da l 1950 a oggi. Di conseguenza, il lettore ignaro esce dalla lettura con il saldo convincimento che il governo italiano, spinto da generosi propositi umanitari, abbia messo in pratica la migliore politica di sviluppo possibile allo stato delle conoscenze tecniche ed economiche; che gli insuccessi registrati siano da attribuirsi alla natura perversa della regione, che rende vano ogni tentativo di progresso; e che infine, se un consiglio deve essere dato, questo è di ridurre la portata degli interventi, dal momento cl1e ogni lira spesa nel Sud è una lira irrimediabilmente perduta. L'assurdità di questa impostazione risulterà cluara da quanto diremo in séguito circa la natura della politica meridionalistica attuata fino ad oggi. È inconcepibile che un economista serio possa esprimersi senza riserve su questa politica, e per di più qualificarla politica di svi - luppo, quando, come vedremo, essa è stata in buona sostanza solo una 11 Bibliotecaginobianco

politica di infrastrutture; e inoltre, come ogni cosa umana, non è stata esente da pecche. St1 questo punto torneremo più a lungo di qui _a poco. Nel concludere, è difficile non pensare che la sig11ora Lutz avrebbe reso migliore servizio alla scienza se avesse utilizzato la sua indisct1ssa- compete11za per fare una critica sagace dei provvedimenti presi finora e per segnalare le possibili vie di azione per il futuro, invece di considerare lo sviluppo del Mezzogiorno come un equivoco il1felice e 1Jroporre l' abba11{lono definitivo dell'intera regione. 2. - Tuttavia l'articolo della signora Lt1tz, proprio percl1é affronta il problema alla radice, invita a rjmeditare i capisaldi 1naggiori della politica meridionalista, nelle sue git1stificazioni, nei suoi strumenti esse11ziali, 11egli insegnamenti che da essa possono trarsi. Procediamo co11 ordine. La politica meridio11alista si è sorretta finora su tre idee fondamentali, che, con maggiore o mi11ore chiarezza, sono state alla base dell'intervento pubblico nel Sud: a) che lo sviluppo economico del ~1ezzogiorno costituisse t1na condizione necessaria, o quanto meno un fattore stimolante, anche per l'espansione delle regioni già industrializzate del Nord, e che per qt1esta ragione esso dovesse essere considerato 11na 1neta di interesse non regionale, ma nazionale; b) che lo scopo fì11aledella politica di intervento nel Mezzogior110 fosse quello di rendere uguali (o almeno di accostare sensibilmente) i redditi medi delle varie regioni del paese; e) che qt1esto scopo potesse essere raggiunto tramite un processo di deliberata preindustrializzazione ad opera dello Stato, cui sarebbe seguito, ad opera dei privati, il vero e proprio processo di industrializzazione, spontanea o stimolata da incentivi. Ciascuno di questi punti n1erita qt1alche considerazione. Sul primo punto, si deve riconoscere cl1e con ogni probabilità la impostazione del problema meridionale come problema vitale per l'intera economia nazionale fu largamente dovuta a ragioni di strategia politica. Se si fosse data alla politica meridionalista una impostazione diversa, gli ostacoli frapposti alla sua realizzazione sarebbero stati ancora maggiori di quel che furono i11 realtà. Tuttavia è 1Jrol1abile cl1e studiosi accurati clella economia italiana abbiano sempre riconosciuto (anche se ciò non venne mai ammesso pubblicamente) cl1e le basi logiche di questa 12 Bibiiotecaginobianco

impostazione erano per lo meno discutibili. L'esperienza di questo decen11io è vals~ a co1ifer1nare questi dubbi. Per il Nord, il decennio ora compiutosi, è stato un decennio di espansione vigorosa e ininterrotta, ad un ritmo che è uno dei più elevati d'Euro1)a e che non l1a riscontro nella toria passata del nostro paese. Sarebbe difficile sostenere che la 1Jresenza di un Mezzogiorno sottosviluppato abbia frenato lo svilup1Jo industriale del Nor,d; al contrario, se 1nai la prese11za di una riserva di lavoratori disoccupati ha conferito all'industrja italiana taluni vantaggi rispetto ai settori industriali degli altri paesi, che l1anno dovuto far fronte a ri1Jetute « strozzature » prop1io nel settore della manodo1J ra. D'altro canto l'attuazione di una politica di spesa pubblica l)r ordinata stabile nel Mezzogiorno ha certamente contribuito ad ·1lleviare gli effetti delJe recessioni che si sono avvicendate in Euro1Ja e oltre ocea110, e cl1e nel nostro paese si sono fatte sentire solo con forza attutita. Basti ricordare cl1e anche la recessione del 1958 si è 1nanifestata da noi solo come rallentamento nel ritmo di sviluppo; senza l'elemento tabilizzatore costituito dalla s1Jesa pubblica per il Mezzogiorno, le cose sar bbero di certo andate assai diversamente. D'altra parte ancl1e se lo sviluppo del Nord non è stato frenato dalla presenza di un J\1ezzogiorno di tanto più povero, tale svilup1Jo come vedremo, l1a assunto proprio a causa del dualismo regionale che caratterizza il 11ostro paes un andamento tutto particolare, che rende ancora più difficile l' attuazio11e di u11a politica meridionalista su vasta scala. Di fronte a questa situazione è forse giunto il mon1ento di riconoscere onestamente e apertamente che lo sviluppo del Mezzogiorno ràppresenterà un costo 1Jer l'intera collettività nazionale. Occorre che la collettività sia disposta ad investire parte delle sue risorse in regionj i11cui gli investimenti sono meno 1Jroduttivi i11termini di reridimento irnmediato e sia preparata q11indi ad affrontare un sacrificio per poter raggiungere lo scopo. Questo equivale a riconoscere che le ragioni per le quali si vuole una politica di svjluppo per il Mezzogiorno non hanno a che fare con il vantaggio pecuniario immediato. Esse consistono, oltre cl1e in ragioni di natura umanitaria e politica nella convinzione che sia possibile portare le popolazioni meridionali ad un più elevato livello di benessere piuttosto mediante un processo di sviluppo regionale che non mediante un processo di emigrazione in massa (pur riconoscendo il contributo che i flussi migratori potranno dare all'evoluzione strutBibiiotecaginobianco

turale del Mezzogior110); e nella convinzione che, anche se lo sviluppo del Mezzogiorno non costituisce una conditio sine qua non del benessere delle regioni settentrionali, tuttavia esso rappresenterà un chiaro vantaggio sul piano generale, allargando i mercati, sottraendo l'economia interna alle conseguenze di fluttuazioni che si verificano in altri paesi rendendo possibile una politica economica e monetaria più flessibile e pronta. Anche il secondo punto (pareggiamento dei redditi regionali) merita di essere chiarito. Lo scopo diretto della politica di intervento nel Mezzogiorno non era, e non poteva essere, quello di portare il reddito 1Jer abitante nel ~1ezzogiorno al livello di quello delle regioni settentrionali. Sarebbe stata questa una meta eccessivamente ambiziosa, e, stando a quanto ci insegna l'esperienza di altri paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti d'America, praticamente irraggiungibile. Scopo della politica meridionalista era, o avrebbe dovuto essere, quello di promuovere nel St1d t1n processo autonomo e continuativo di accumulazione e di sviluppo. Se gli strumenti predisposti siano stati adeguati o meno, è questione che cercheremo di esaminare in séguito. Ma occorre che sia ben chiaro alla mente dell'osservatore che il criterio per giudicare i risul~ati conseguiti nei primi dieci anni di intervento non è quello dell'allargamento o accorciamento delle distanze fra le dtle Italie, ma se mai quello della esistenza o meno nel Mezzogiorno di sintomi di un prossi1no « decollo » economico. Da questo punto di vista non si pt1ò certo parlare di insuccesso totale, se si pensa cne la politica di interventi è rit1scita negli ultimi dieci a11nia far procedere Nord e Sud all'incirca allo stesso passo, nonostante il rapidissimo ritmo di sviluppo delle regioni settentrionali. 3. - Con l'esame del terzo punto, viene in discussio11e l'aspetto principale degli interventi nel Mezzogiorno, la politica delle infrastrutture. Dobbiamo premettere subito che non è nostra intenzione discutere qui i risultati ottenuti nel campo dell'agricoltura: opere di bonifica, irrigazioni, trasformazioni fondiarie, sono tipi di investimenti che hanno rivoluzionato l'agricoltura meridionale e le ha11no aperto per la 1)1ima volta la prospettiva di divenire t1n settore agricolo efficiente e n1oder110. Ma per quanto riguarda le infrastrutture come preludio all'industrializzazione (e questo è stato il tema dominante della politica meridionalista) occorre una considerazione più attenta. Nel corso di questi dieci anni non si è 1nai parlato esplicitamente 14 Bibliotecaginobianco

di una politica di industrializzazione deliberata e diretta da parte dello Stato. Il discorso dell'industrializzazione è stato sempre tenuto in termini di incentivi e di stimoli all'iniziativa privata, di creazione di condizioni ambientali favorevoli al sorgere delle attività tra·sformatrici. Come ha osservato di recente il Di Nardi (I provvedimenti per il Mezzogiorno, 1950-1960, in Economia e Storia, 1960, n. 3) quanto si è fatto sinora nel Mezzogiorno è qualcosa di assai meno esteso e 1neno profondo di quanto sarebbe stato necessario per attuare una autentica politica di sviluppo. La politica delle infrastrutture, pur essendo un momento necessario di ogni politica di sviluppo, resta se1npre solo un, aspetto di una politica di sviluppo globale· finora ci si è limitati a questo aspetto, nella speranza che il resto venisse da sé. Questa' non vuol essere necessariamente una critica al n1odo in cui gli interventi nel Mezzogiorno sono stati concepiti: dieci anni or sono molte cose che oggi appaiono chiare in tema di programmazio11e e di sviluppo erano sconosciute, se non ad una cerchia ristretta di specialisti. La maggioranza degli uomini di governo e dei funzionari avevano ancora in mente il problema del Mezzogiorno così come era stato impostato dalla letteratura meridionalistica tradizionale: scatsità di vie di comunicazione carenza di attività industriali carico fiscale eccessivo. Pochi vedevano che questi erano solo i sintomi più appariscenti di un rista·gno secolare che aveva informato di sé ogni IJiÙminuto aspetto della vita sociale, aveva dato una profonda impronta conservatrice alla cultura delle popolazioni, aveva ralle11tato il battito dei cuori. Forse soltanto non si ebbe il coraggio di attaccare il problema del 1,f ezzogiorno sul piano della programmazione totale, e si sperò che una vigorosa azione parziale nel settore agricolo e delle infrastruttt1re, accon1pagnata da blandi incentivi, fosse sufficiente a ingranare la macchina del progresso. Certo è cl1e oggi, quando ci si fa a giudicare risultati e prospettive della politica meridionalistica, occorre avere ben presente alla mente che essa non è stata altro che una politica di infrastrutture, e come tale va giudicata; e poiché molte cose sono cl1iare che prima non lo erano, non mancano stu,diosi competenti - come il Molinari nel recente convegno di Napoli - che avvertono con insistenza della necessità di porre termine agli interventi settoriali e porre in essere u11pia110 integrale di sviluppo del Sud. Alfìne di valutare la politica delle infrastrutture è necessario avere ben presenti alcuni requisiti fondamentali cl1e il settore industriale 15. Bibliotecaginobianco

deve possedere per esercitare t1na azione propulsiva in una regio11e arretrata. !11un paese in corso di sviluppo, la funzione del settore industriale è di costituire un settore ad alta produttività, fortemente ·dinamico, caratterizzato dall'applicazione di tecniche moderne, che inserendosi nell' eco11omia locale attraverso i ca11ali delle forniture e dello s1nercio; provochi una evoluzione struttt1rale anche degli altri settori produttivi e quindi dell'intera eco11omia. :È chiaro che l'i11dustria può assolvere a questa funzione propulsiva solo nella mist1ra iJ1cui essa si j11serisce profondamente nella struttura dell'economia locale, al punto da imporre t1na trasformazione nei metodi di produzione 11ei sistemi di distribuzione, e alla fine nella mentalità stessa degli operatori economici. Gli investimenti industriali non sono necessarian1ente sufficienti a suscitare un processo di evoluzione; occorre cl1e gli investimenti 11ell'indt1stria assumano una particolare direzione e si concentrino in quei tipi particolari di attività che conducono ad u11processo di sviluppo. La storia economica del secolo scorso indica come i paesi che oggi sono considerati sottosviluppati ft1rono sede in passato di notevoli investimenti di capitale. Ma tali investimenti non valsero a mettere in moto jl meccanis1110del progresso in quanto, concentrati com'erano nell' agricoltura delle piantagioni, o nell'industria estrattiva, conducevano a creare imprese avulse dalla strt1ttura economica del paese, e collegate se mai con i n1ercati esteri dove smerciavano i propri prodotti. La coltivazione della ca11na da zucchero in Brasile e del cotone in Egitto, la estrazione dello stagno nel Venezuela e del petrolio nei paesi arabi sono esempi in qt1esto senso quanto mai significativi. Dal momento che tali produzio11i non si rivolgevano al mercato locale, tutti gli investimenti secondari da esse provocati erano modellati in modo da favorire l'esodo dei prodotti verso l'estero; e la str11ttura interna del paese cl1e ne beneficiava se non in misura effimera, durante la· fase della costruzio11e. Strade, ferrovie, centrali elettriche costruite con capitali stranieri in India, in Africa, nel Sudamerica, furono concepite ed attt1ate secondo la logica delle industrie esportatrici 110n secondo la logica· interna dell'economia locale, alla quale di conseguenza rimanevano pratican1ente estranee. L'insegnamento che si trae da questa esperienza è che solo l'industria integrata nell'economia locale, l'industria cl1e acquista e vende sul mercato interno, è in grado di influire sulla evoluzione str11tturale della regione in cui sorge. Non è chiaro fino a che punto questa esigenza di 11nmercato locale 16 · Bibliotecaginobianco

sia stata presente alla mente di economisti e uomini politici che si sono preoccupati delle sorti del Mezzogiorno. Gli orientamenti che emergono dalla pubblicistica meridionalista sono diversi. - Secondo un diffuso punto di vista, l'esecuzione di estesi lavori pubblici ad opera della Cassa per il Mezzogiorno avrebbe prodotto il duplice effetto di accrescere la capacità produttiva delle regioni meridionali, e di accrescere la capacità di acquisto della popolazione allargando in tal modo i mercati del St1d. La creazione di infrastrutture doveva quindi avere il duplice scopo di creare l'ambier te tecnico necessario al sorgere dell'industria e di suscitare una domanda locale per i prodotti di questa. La fallacia di questo modo di argomentare doveva trovare la sua dimostrazione nel corso del decennio di inten,enti: si è visto infatti fino a che punto sia stata finora insufficiente la politica di industrializzazione. In realtà l'argomento della preindustrializzazione non sembra co~- vincente, anche se considerato a priori. Se l'industria deve giovarsi di una rete efficiente di strade, ferrovie, acquedotti. e via dicendo, è necessario che essa sorga dopo che la costruzione di tali attrezzature è stata completata. Ma se l'industria deve sfruttare la domanda creata dagli investimenti pubblicj, essa dovrebbe sorgere nello stesso ten1po in cui le opere pubbliche vengono compiute. L'argon1ento sernbra dunque contenere una contraddizione. Ancor pi 'i esso è contraddetto dall'esperienza storica, anche del nostro paese: gli anni fra il 1860 e il 1880 furono anni di intense costruzioni ferro vi arie; ma il vero insorgere della grande industria si ebbe i11 Italia solo Yerso la fine del secolo, e non fu connesso all'espansione di domanda causata dagli investin1enti pubblici dei decenni precedenti. E infine, se l'insegnamento della logica e della storia non è sufficiente, ancl1e quel po' di jnformazione statistica che abbiamo riguardo alla struttura econornica del J\1ezzogiorno mostra che gli effetti propulsivi della spesa pubblica in questa regione sono minimi. La struttura dell'economia meridionale è tale infatti che la gran parte delle spese ivi effettuate suscitano una maggiore domanda a favore di industrie ubicate fuori della regione stessa, per cui gli effetti moltiplicativi della spesa iniziale svaniscono quasi del tutto. Le strade, le ferrovie, le centrali lettriche non sono elementi sufficienti a far nascere il capitalismo industriale; se mai è il sorgere dell'industria che rende indis1)ensabile la costruzione di strade, ferrovie e centrali elettriche. È vero che una serie di inv stimenti effettuati in una regione produce il ben noto fenomeno delle « economie esterne ». 17 Bibliotecaginobianco ,

Ma sarebbe inge11uo pensare che la presenza di atrezzature, che in astratto potrebbero produrre economie esterne, faccia nascere dal nulla un settore industriale. Se qt1i11-dtialuno aveva riposto spera11ze nella politica di opere pubbliche come suscitatrice di t1n mercato per le nuove industrie, tali speranze possono ormai essere tranquillame11te accantonate. Ma t1na volta deposta l'idea delle infrastrutture come elemento propulsivo, ci si trova dinanzi alla più grande incertezza di concetti e di orientamenti. Si è fatta strada talvolta l'idea che le 11uove industrie nel Mezzogiorno dovessero trovare il proprio mercato nelle regio11i del Nord. A questo suggerimento si associa spesso l'idea che lo sviluppo del Mezzogiorno debba avvenire in certo qual modo nella scia dell' espa11sione economica delle regioni settentrionali, t1tilizzando come stin1olo l'aumento di domanda ivi provocato dall'aun1ento di reddito. Dal momento cl1e per molte ragioni di carattere ambientale l'industria del Mezzogiorno è in una posizione di svantaggio rispetto a quella del Settentrione, è chiaro che tale svantaggio verrebbe ad essere accresciuto se l'industria dovesse concorrere a tanta distanza con imprese situate in prossimità degli sbocchi. Del resto, suggerimenti di questo genere l1anno provocato in passato reazioni in taluni ambienti, e hanno dato alimento alla sterile e prolungata discussione sul pericolo di creare nell'Italia meridio11ale cc doppioni » di industrie già esistenti nel Nord. Attualmente gli orientamenti ufficiali non sono molto meglio definjti. Una volta constatato il fatto che la politica di esenzioni fiscali e daziarie non rappresenta un impulso sufficie11te al sorgere di 11uove industrie, sembra che il governo si orienti verso strt1menti di natura diversa, quale la concessione di contribt1ti a fondo perduto per la costruzione di nuove imprese (prevista dalla legge 29 luglio 1957 n. 634), o la creazione di aree di sviluppo industriale (prevista dalla stessa legge). Se questi provvedimenti siano atti ad accelerare il passo dell'industrializzazione è questione che non è nostra intenzione di affrontare in questa sede. È necessario tuttavia avere be11 chiaro cl1e quel che si è fatto finora non è sufficiente ai fini di una politica di industrializza-- zione, e tantomeno ai fini di una politica orga11ica di sviluppo. Una autentica programmazione dello sviluppo richiede una serie di interventi organici in tutti i settori della attività economica. Quando poi, come avviene nel Mezzogiorno, lo sviluppo di una regione assume la fisionomia di trasformazione strutturale, è tanto più necessario che gli 18 Bibiiotecaginobianco

interventi siano coordinati in modo da far convergere gli assetti produttivi, i sistemi di mercato, gli insediamenti della popolazione, la formazione culturale, in breve ogni aspetto della vita economica verso quella configurazione che si è prescelta come obiettivo. 4. - Veniamo ora al nostro ultimo punto : gli insegnamenti che si possono trarre dalla esperienza degli ultimi dieci anni. Uno degli inconvenienti che si fanno sentire con forza crescente è la mancanza di coordinazione fra i vari tipi di intervento. Gli investimenti nel Mezzogiorno sono affidati ad una molteplicità di istituti ognuno dei quali è indipendente, nei limiti della sua co1npetenza. La rete stradale è curata dall' A.N .A.S. (per le strade statali), dalla Cas a (cl e si concentra sulle strade provinciali), dagli Enti di Bonifica (per le così dette strade di bonifica); la costruzione di ferrovie oltre cl1e dal Ministero dei Trasporti, è finanziata dalla Cassa; la riforma fondiaria è compiuta, tramite gli Enti di Riforma, dal Ministero dell'Agricoltura· la bonifica è compiuta parte dal Ministero dell'Agricoltura, parte dalla Cassa per il ìvlezzogiomo; l'attività edilizia (anche quella scolastica) è curata dal Ministero dei Lavori Pubblici, ma le case per i la oratori sono costruite dal Ministero del Lavoro (INA-Casa); l'istruzione professionale è di competenza della Cassa, ma i corsi di riqualificazione per disoccupatj sono organizzati dal Ministero del La oro; gli incentivi ai privati nel settore agricolo sono gestiti dalla Cassa, ma il credito industriale è affidato ad istituti specializzati costituiti appositamente per il Mezzogiorno (Isveimer, I1fis, Cis). Nessun inco11veniente sorgerebbe se ciascuno di qt1esti enti fosse soltanto un dipartimento di un unico organismo superiore e facesse capo ad una organizzazione unitaria. Invece ognu110 di essi ha conservato la sua autonomia originaria e come unico elemento coordinatore si è istituito il Comitato dei Ministri per il ì\!Iezzogiorno. Ma i poteri del Comitato sono assai circoscritti e del tutto insufficienti. Solo negli ultimissimi tempi si è avuto qualche progresso verso un effettivo 1Jotere di coordina1nento. Secondo la legge originaria (legge 10 ottobre 1950, n. 646), al Con1itato dei Ministri era demandata la vigilanza sulle sole opere della Cassa, e non anche il coordinamento con i programmi ministeriali; la funzione coordinatrice del Comitato era dunque meramente nominale. Successivi allargamenti nei poteri del Comitato si ebbero con la legge speciale per la Calabria (legge 26 novembre 1965), e con la legge 29 luglio 1957, con la quale l'obbligo di 19 Bibiiotecaginobianco

trasmettere i programmj esecutivi al Comitato fu esteso a tutti i Ministeri, e al Comitato fu attribuito il compito di coordinare i programmi stessi. Successivan1,ente i poteri del Comitato non sono stati più ritoccati. Solta11to nella sed11ta del 30 luglio 1959 il Comitato ha de]iberato di procedere in via autonoma ad un maggiore coordjnamento fra i programmi dei diversi settori concordando talt111iindirizzi di intervento. Si tratta, come ognuno può vedere, di 11na risoluzione unilaterale, ed è djfficile prevedere quali effetti potrà avere sul terreno pratico. Di coordinamento effettivo finora non si può dunque parlare. A sno tempo non si ebbe il coraggio politico di creare t1n organismo unitario che avesse poteri, esecutivi s11tutti i settori di intervento, così da porre le basi concrete per una politica di sviluppo del Sud. Oggi, con grande fatica, per vie traverse, con infinito spreco di te1npo e di risorse, ci si avvia finalmente verso la creazione di un organo coordinatore. Ma sino a che il coordi11amento effettivo secondo una direttiva unica e secondo una visione organica delle mete da raggiungere e dagli strumenti da impiegare 11011 sarà stato raggiunto, la 1Jol'tjca di i11terventi resterà una politica di azioni isolate. La via maestra, indicata a suo te1npo da autorevoli studiosi italiani e stranieri, sarebbe stata quella di istituire un ente di sviluppo, la cui cornpetenza, magari limitata dal punto di vista territoriale, fosse illimitata dal punto di vista settoriale, e riunisse i11sé non solo i poteri di intervento straordinario ma fosse anche competente nei settori di jntervento ordinario, in modo da eliminare i conflitti di attribuzioni, gli scarichi di responsabilità, e le sfasature nei tempi di jntervento che hanno caratterizzato l'azione p11bblica dal 19,50 in poi. La via che si è battuta è stata invece quella di conservare gelosamente le antiche autonomie, ponendole sotto il patronato di un Comitato di Ministri. Questo patronato, da nominale, si è fatto sempre più sostanziale, e verrà forse un giorno in c11i riuscirà a esautorare di fatto le si11gole istituzioni; ma anche quando ciò avverrà, se avverrà, si sarà solo raggiunto tardivamente un risultato che si era cercato accuratamente di evitare all'inizio. Ma sia ben chiaro che per quanto sia oggi urgente procedere ad un maggiore coordinamento di interventi, come si è già accennato non crediamo che con ciò sarebbe risolto il problema della politica di sviluppo nel Sud. Gli ostacoli burocratici non sono i soli che si frappongono alla attuazione di una politica meridionalista completa. Conflitti di interessi 20 Bibiiotecagi nobianco

più sostanziali si nascondono dietro l' appare11te timidezza governativa· nell'affrontare il problema del Mezzogiorno. Il governo italiano si è impegnato a seguire una 1Jo]itica di stabilità monetaria e di contenimento della spesa pubblica. Questa politica è perfettamente rispondente alla struttura economica delle regioni settentrionali, la cui industria si orienta sempre più verso sbocchi esterL Si pensi che nel quinquennio 1955-59, mentre le esportazioni italiane sono state equivalenti in media al 16% del reddito nazjonale netto, l'incren1ento delle esportazioni ha rappresentato ben il 32% dell'incremento di reddito netto; questo basta a dare un'idea cli come l'economia industriale italiana si vada aprendo _empre più erso i mer ati esteri. Con il sistema di pagamenti internazionali oggi in vigore, una economia imperniata sulle espo1tazioni de e fondarsi ueces arian1ent sulla più rigida stabilità monetaria interna. D'altro canto, una politica di svi]uppo richiede necessariamente che l'idolo della stabilit; monetaria sia considerato con minore assolutismo: non vi è ese1npio di sviluppo progra1nmato che abbia avuto luogo col pieno rispetto dei canoni tradizionali di politica monetaria. Voci autorevoli hanno più volte incitato ad un 1naggior coraggio nella politica della spesa pubblica, specie nei periodi in cui la posizione valutaria del nostro paese era particolarmente florida. Tutti ricordano le meditate parole ripetutamente usate da \f enichella per incoraggiare il governo italiano ad un·1 polibca cli 1naggiori investimenti pubblici, in occasione della congiuntura favorevole e della po. izione ccezionale della nostra bilancia dei pagamenti. Tali incoraggiamenti trovarono debole eco negli organi responsabili, sempre ti1norosi di provocare aumenti di prezzi e di turbare il flusso delle esportazioni, compromettendo la prosperità del settore industriale. L' occa ione eccezionale degli ultimi anni sta tramontando,, e nulla di nuo o si è fatto. Con questo non vogliamo dire che i] decennio di politica meridionalista si chiuda in passivo; ma vi sono ragioni per teniere che il passivo compa1irà nel bilancio del prossimo decennio. Sian10 ora ad un punto di svolta; o si avrà il coraggio di dichiarare definitivamente chiusa l'era di una politica fondata soltanto sulle infra·strutture e sugli incentivi~ e aperta quella della programmazione completa dello sviluppo, e nello stesso tempo si sapranno creare gli organismi e reperire le risorse necessarie, oppure la partita dovrà essere abbandonata. Proseguire con il metodo frammentario e casuale applicato finora sarebbe soluzione folle e perniciosa, per il Nord come per il Sud. 21 Bibliotecaginobianco

Gli assistenti sociali in Italia di Gilberto Antonio Marselli ·una nuova professione Tra le professioni nuove che da qualche a11noa questa parte hanno cominciato ad i11teressare il pubblico quella di cc assistente sociale » è <laporre senza dubbio ai primi posti, per un duplice ordine di ragioni: da un lato perchè su di essa si è soffermata spesso la stampa periodica - quella femminile in particolare - per presentarla come una professione piena di possibilità, tale cioè da offrire buone prospettive a quanti sono rimasti delusi per le scarse occasio11i d'impiego offerte da molte delle professioni tradizionali (la stessa stampa non l1a esitato, anzi, a porre l'assistenza sociale - più o meno giustamente - al fianco di tutte quelle altre professioni nuove che hanno ampliato le possibilità di scelta per i giovani, che sono pervenuti alla conclusione dei loro studi medio-superiori: quella della hostess, per fare qualche esempio, quella di assistente turistica, di interprete, di segretaria di azienda, di esperta in human relations, ecc.); dall'altro lato perchè le attribuzioni istituzionali di carattere sociale - più o meno reali - connesse a molti enti, pubblici e privati, che operano in Italia, no11cl1èla stessa natura dei problemi posti al nostro paese dalla politica di sviluppo economico in corso da anni, hanno finito coll'imporre il ricorso all'opera di questa particolare figura di operatore civile. Scopo di questa inchiesta è di rispondere, almeno in parte, ad una serie di quesiti relativi alla nuova professione dell'assistente sociale: di esaminare quali concrete possibilità vi sono perchè si crei in Italia una rete di servizio sociale, e di esaminare la formazione e la funzione degli assistenti sociali come operatori civili. Pur dovendo premettere che una 22 Bibiiotecaginobianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==