questo livello dell'organizzazione stessa è impotente a difendersi per due efficaci ragioni. In primo luogo, l'organizzazione non lotta contro l'individuo, ma lo seduce con le sue previdenze, con le sue disposizioni affinchè manchino contrasti, difficoltà, tensioni, affinchè tutto sia facile e limpido nel quadro di attività completamente preordinate. « Non sono », « i mali dell' organizzazione che ... mettono in imbarazzo (l'individuo); ma la sua stessa benevolenza. Egli è prigioniero della fratellanza » (p. 17). In secondo luogo, la rete tesa dall'organizzazione riempie orrnai tutti i luoghi e tutti i tempi in cui l'uomo ad essa destinato vive, anche prima di appartenerle. Scuola, selezione professionale, attività di lavoro o di ricerca, rapporti sociali, svaghi, vita privata: tutto nella vita dell' « uomo dell'organizzazione » è investito dal contrasto tra la vecchia etica individualistica e la nuova etica sociale, e la vittoria di quest'ultima è totale su tutta la linea. In tal modo l' adattament'ò del singolo alla comunità in cui egli vive e lavora diventa condizione prima della sua carriera e del suo successo; e agisce al di là della carriera e del successo come stimolo ad un ulteriore allargamento della sfera di adattamento. Sia il curatore dell'edizione italiana che i recensori del libro del Whyte hanno legato L'uomo dell'organizzazione ad altri libri contemporanei sulla società americana: La folla solitaria di D. Riesman e L'élite del potere di C. Wright Mills. Il riferimento è indubbiamente preciso e testimonia dalla fondatezza delle tesi del Whyte sugli sviluppi antiindividualistici di tanta parte della vita americana e sulle ragioni di tali sviluppi. Crediamo, tuttavia, necessaria una ulteriore precisazione sulla posizione del Whyte, che implicitamente H Gallino, ma soprattutto qualche recensore (ad es., G. Giudici, in « Comunità », n. 81) sembrano imputare di velleitarismo. In realtà, il Whyte ha piena coscienza della irreversibilità del processo attualmente in corso. A pagina 16 del suo libro egli dichiara di non averlo concepito « come un attacco all'esistenza della società dominata dall'organizzazione »; e aggiunge, non senza ironia: « Abbiamo abbastanza problemi oggigiorno senza intorbidare H dibattito con nostalgie fuori luogo, e mettendo a raffronto la vecchia e la nuova ideologia io non intendo contrapporre un paradiso a un paradiso perduto, un secolo XVIII idillico a un secolo XX disumanizzato ». E nelle conclusioni del libro, ritornando sulla natura del problema da lui affrontato, Whyte afferma che « il guaio non è da vedersi nelle pressioni della società industriale - in una società agricola si manifestano pressioni altrettanto potenti - bensì nella posizione che assumiamo dinanzi a simili pressioni » (p. 499); e sottolinea significativamente le profonde radici storiche che gli atteggiamenti comunitari hanno nella società americana: « L'enfasi posta sulla cooperazione (non) dovrebbe venir considerata come un rovesciamento del nostro carattere nazionale ... Il nostro paese nacque come una serie di imprese aventi carattere decisamente comunitario, e se è stato forse l'individualista ad aprire la frontiera, fu certo l'individuo cooperatore che la consolidò » (p. 493). Ciò che il Whyte chiede è, in ultima analisi, la difesa dell'individualismo nell'ambito dell'organizzazione e non fuori o contro di essa, poichè « un ideale dell'individualismo che negasse gli obblighi dell'uomo verso il suo prossimo sarebbe chiaramente impossibile in una società come la nosb·a, ed è merito del nostro buon senso che noi, pur predicandolo, non 109 BibliotecaGino Bianco
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