Nord e Sud - anno VI - n. 59 - ottobre 1959

punte di schietta suggestione: « Onde, nel vespro, il popolino, ritornato. in paese, capeggiato da vecchi sindaci e uomini del diciannove - tra un grido e una minaccia - divenuti primati, inscenò una pubblica manifestazione, dettata non si sa bene se dalla contentezza della disfatta o dalla tristezza. Stendardi vecchi di cent'anni, sciarpe, collari d'onore furono scovati nelJl. soffitta del comune; e, accese le fiaccole, coi ragazzi caprioleggianti davanti alla grande cassa, si andò rumoreggiando sotto le case dti potenti. Dei quali i più lesti ad accorgersi allo specchio d'aver la coscienza maculata, attraverso porticine segrete subito la portarono ad arieggiare in campagna»~ E' chiaro, ci sembra: il cellinismo di Rea non tanto è localizzabile in questa o quella movenza, quanto lo si ritrova come atteggiamento fondamentale, come aspirazione a una prosa aperta a tutte le soluzioni o, più propriamente, a tutte le libertà; e tale era destinato a restare anche quando, nella sua crescita, lo scrittore avrebbe cercato di render più coerenti quelle sue aspirazioni e quella sua libertà. Tutto ciò s'è voluto dire sia per reagire a molti luoghi comuni circa la formazione di Rea, sia per contrapporre al fascino che sembrano oggi esercitare certe esperienze dialettali quello d'uno scrittore che ben più autenticamente coglie semmai il dialettale (e gli esempi non mancherebbero) all'innesto con la tradizione maggiore della nostra prosa. Ma in particolare perchè reagire al cliché d'un Rea scrittore di puro istinto ci è parso il primo modo di rispondere a quanti sembrano rimpiangere il presunto istintivo dei racconti e lamentare il suo passaggio a misure di maggiore ampiezza e di più densa carica umana: cosa che invece doveva per forza succedere quando si fosse esaurita la fase di più schietto stampo celliniano, ed esaurito il senso dell'avventuroso e la celliniana premoralità delle prime prove .(ed esauriti li si sentiva ormai in « Quel che vide Cummeo »). Ma, per tornare ormai al dibattito sulla narrativa meridionale dal quale abbiamo preso le mosse, ciò che più colpiva nell'intervento di Rea erano alcune frasi, le quali, senza voler essere l'enunciazione d'una poetica, facevano intuire che lo scrittore si dibatteva in una vera e propria crisi, era nel · pieno cioè d'una di quelle svolte fondamentali dalle quali o si smette di scrivere o si esce diversi. Il fatto che egli a~ermasse che « essere uno scrittore meridionale significa ... scrivere tendendo l'intelletto verso il Bene più che al Bello», e che « l'attuale narrativa meridionale si fa perdonare molti gravi errori proprio perchè ha nel suo mondo intenzionale l'aspirazione al Bene, e il passo che le resta da compiere è di fare entrare prefettamente il Bello nel Bene», il fatto che egli aggiungesse subito dopo che « questa unione dà per risultato la realtà, la vita intera, ,il suo dramma, la sua commedia, la sua tragedia; ma questo passo si compie tenendosi attaccati alla terra, cercando la verità, che comporta sacrifici, rinunzie, e molte volte il disprezzo e l'oblio dei contemporanei», poteva stupire solo chi non considerasse che Rea si [65] iblioteca Gino Bianco

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