Nord e Sud - anno IV - n. 30 - maggio 1957

I Rivista mensile ~ diretta da Francesco Compagna ' ANNO IV * NUMERO 30 * M~'\GGIO 19 5 7 Bibloteca Gino Bianco

Bibloteca Gino Bianco olivetti Progetti, metodi, collaudi, ad ogni diverso modello Olivetti danno eguali garanzie di qualità : seri t tura nitida, battuta elastica, costante allineamento, misurata eleganza. Studio 44 Per lo studio privato. Unisce alla mobilità ed eleganza della portatile stabilità e struttura dei modeHi maggiori. Prezzo lire 72 ..000 + r. o. E. Lettera 22 Per la casa ed il viaggio. La portatile completa, discreta leggera agevole alla mano meno esperta. Prezzo mod. LL lire 42.000 + 1. a. E.

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Bibloteca Gino Bianco

SOMMARIO Francesco Compagna Giovanni Cervigni e Giuseppe Galasso N.d.R. Anton Giulio Bragaglia I ,, Vittoria Omodeo Alberto Prozzillo Nello Ajello Editoriale [ 3] La città settentrionale e la campagna meridionale [7] Il Mezzogiorno e il Partito Socialista [241 GIORNAI,EA PIÙ VOCI L'esodo delle i·ntelligenze [39] --- Il teatro come servizio pubblico [ 42] ~ Le borse di Fanfani [51] I giovani comunisti a Napoli [58] Napoli anticonformista [ 64] DOCUMENTI E INCHIESTE Finanziamenti speciali e industrializzazione [70] CRONACA LIBRARIA ~ R. Colapietra, V. Fiore, Attualità politiche [109] R'. Perrone Capano, A. Rendi Ennio Ceccarini Una eopia L 300 • E1tero L. 360 Abbonamenti 1 Italia annuale L. 3.300 semestrale L. I. 700 Eatero annuale L. 4.000 semestrale L. 2.200 Nord • Sud e Nuova Antologia Italia annuale L. 5.500 Estero » L. 7 .500 Effettuare i versamenti sul C. C. P. n. 3/34552 inteatato a Arnoldo Mondadori Editore • Milar.o Bibloteca Gino Bianco Letteratura [ 123] DffiEZIONE E REDAZIONE: Napoli - Via Carducci, 19 - Telefono 62.91& SEDE ROMANA: Via Mario dei Fiori, 96 • Telefono 687. 771 DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI Amministrazione Rivista Nord e Sud Milano - Via Bianca di Savoia, 20 Tel. 35.12. 71

Editoriale La crisi dei comunisti, avvertita da tutti nelle imbarazzate spiegazioni seguite al rapporto Krusciov, data per scontata dopo gli avvenimenti di Ungheria, torna ad essere oggi al centro, di ogni discussione. Sull'onda di qualche centinai,o di voti guadagnati qua e là, tacendo di quelli perduti, l'on. Togliatti è tornato al tono tracotat2te e rissoso, e i suoi seguaci alternano di nuovo la certezza intimidatoria all'appello f rontzsta: la crisi, non c'è piu, ma non c'è mai stata; il PCI costituisce ancora l'elemento ,propulsore e l'asse fondamentale di un << genuino schieramento di sinistra». Corollario (un corollario vecchio ormai di anni): tutti i «veri>> democratici si schierino al fianco del << più forte partito della classe operaia». Ora, finché il discorso resta in termini di cento voti guadagnati o persi in questa o quella elezione parziale, esso non sarà mai un discorso esauriente e definitivo. Si potrà dire, da/,l'una parte o dall'altra, che i risultati parziaJ,i non provano nulla, che le elezioni si sono fatte in un momento di particolare disagio di altri settori dello schieramento di sinistra e che, finalmente, sarà necessario attendere prove ulteriori, generali o rappresentative di al,tre, più rilevanti, regioni del paese. Non è dunque dall'andamento di questa o quella parzia/,e vicenda elettorale che si possono ricavare segni ragionevolmente validi in questa congiuntura politica: e da altro. E qui ci sembra clze abbia avuto perfettamente ragione La Malfa quando ha insistz·to (come ha fatto coii, numerose volte in questi ultimi tempi, e nei termini che .ri possono verificare dal recente suo volume pubblicato dal, Mulino, << La crisi del comunismo e la via della democrazia») sulla storica sterilità del PCI; perché le forze politiche, di governo o di opposizione che siano, si misurano sul bilancio che esse possono presentare al, corpo elettorale, al paese. È in un discorso di questo genere che la classe dirigente comunista italiana non ha nulla da dire. Nella storia del nostro paese degli ultimi dieci anni hanno avuto un peso i milioni di voti che sono andati al PCI; ma il PCI non ha avuto alcun peso. L'esistenza di una forte massa di scontenti, di protestatari, di [3) Bibloteca Gino Bianco

desiderosi di soluzioni radicali pei problemi del paese ha potuto costituire una preoccupazio,ne costante ed un ammonimento per altre forze politiche. Ma la classe dirigente del PCI non ha fatto nulla e nulla poteva fare perché questi milioni di voti si inserz·ssero nella dialettica di un processo di riforme: perché il PCI è un corpo estraneo alla democrazia. La quale i1i Italia non è debole perché le altre forze politiche sono ammalate di maccartismo: è berie che questa leggenda, così accortamente accreditata da/,la propaganda comunista, cada una volta per sem,pre. La democrazia in Italia è più debole di quanto potrebbe e dovrebbe essere, perché i voti di sinistra sono stati sterilizzati nella misura in cui sono stati calamitati dal PCI; e perché il PCI è appunto un corpo estraneo. D'altra parte è sempre più evidente che nella 1nisura in cui si accentuasse la tendenza del partito di maggioranza al sottogoverno e venisse condotto avanti il tentativo di clericcdizzazio,ne di tutta la vita pubblica italiana, si verrebbe a porre una grossa pietra nell'ingranaggio della crisi co1nunista. Si tornerebbe alla politica interna dei due blocchi contrapposti; con questa variante, però, rispetto al '47- '48, che le forze del centro-sinistra den1ocratico sono oggi assai più logore di quel che non fossero illora e potrebbero assolvere co1n assai maggiore difficoltà al compito che hanno assolto tra il '47 e il '53, sia come correttivo di certe tendenze del partito cattolico, sia come argine, sottile quanto si vuole, mti tenace, al, frontìs1no comunista. E con questa altra variante: che tra il '47 ed oggi v'è stato appunto il 18 aprile 1948, v'è stata cioè la maggioranza assoluta democristiana. 11 timore di una consimile situazione può spingere verso i comunisti certe zone di pubblica opinione, orientate a sitiistra, può aiutare i comt1,nisti a contenere la crisi. Il risultato potrebbe essere perciò che la D.C. no.n conqt!isterebbe la maggioranzai assoluta e il PCI si troverebbe rafforzato. Nell'attuale congiuntura politica z"lpunto decisivo è rappresentato dunque dal residuo schieramento di sinistra, dal PSI al PRI, che le recenti ele-- zioni hanno mostrato in difficoltà. E qui bi.sogna avere il coraggio di dire che, se vi sono state intemperanze, e magari sabotaggi rispetto al.lo svolgimento dell'unificazione socialista da parte della destra socialdemocratica, vi sono stati errori gravissimi e una generale irresponsabilità da parte della cosiddetta sinistra del P.S.l. 1 Avvertimmo alcuni mesi fa che la prospettiva di un socialismo italia120 democratico ed unificato aveva creato attese e speranze 1iel paese, aveva dato [4] Bibloteca Gino Bianco

come una nuova dimensione ad una lotta politica in apparenza stagnante: e che questi sentimenti erano un dato politico di cui i vari dirigenti socialisti dovevano tenere il massimo conto, poichè dalla frustrazione delle attese e delle speranze potevano derivare risultati impreveduti e calamitosi. Ciò vale ancora oggi, per quei dirigenti socialdemocratici che si mostrano tiepidi e;, irresoluti, o che magari, pur valutando esattamente i tempi della operazione, no12ne valutano altrettanto esattamente le modalità. Quando si dice, ad esempio, che l'unificazione si potrà fare solo dopo le prossime elezioni si p1,1,aònche dire una cosagiusta: ma è chiaro che a quelle elezioni non si potrà arrivare aggiungendo ai dieci anni di polemiche un anno di beghe. A noi sembra, tuttavia, che la parte prevalente degli errori sia nel PSI. ' Se è vero che qualcosasi è messo in motnmento nel PSI, è vero altresì che non tutto si è messo in movimento nella direzione giusta. La mitologia classistache la più parte dei dirigenti del PSI adora ancora come il vitello d'oro non è soltanto un foniite di errori ideologici, è anche il sintomo, di un fatto di estrema importanza: che quei dirigenti sono ancora dominati da stati d'animo, dai sentimenti dei loro nonni. Bevan, che non è certo un testimone sospetto, si meravigliò a Venezia al ta11toparlare di classe che si faceva dai socialisti e osservò che u12partito il quale aveva vocazione di governo doveva parlare per il paese e non per la classe. Qui era espressain maniera indiretta la constatazione dell'involuzione mentale e politica che è ancora attuale tra molti dirigenti· nel PSI, e che sterilizza la politica di tutto il partito. L'on. Nenni e i suoi amici erano partiti, nel disegnare le linee di un nuovo corso politico del PSI, da una diagnosi della con,giuntura italiana, da un'analisi del comunismo e della sua natura, da una osservazione dei mutamenti mondiali e innanzitutto di quelli del socialismo nei più progrediti paesi del mondo, che erano ancora imprecisi e sommari, ma nelle quali v'era un nocciolo di verità essenziale. L'involuzione storica della rivoluzione sovietica; la logica ferrea che porta la dittatura del proletariato ad una dittatura tout court; l'inadeguatezza assoluta, anche sul piano della politica delle cose, delle formule comuni·stiche alla situazione italiana; le lezioni della socialdemocrazia occidentale: tutto questo? magari non elaborato, non portato alle logiche conseguenze, trovava posto nei discorsi di Nenni e dei sui amici. Che cosa hanno opposto gli altri, gli « antinen- [5] Bibloteca Gino Bianco

1iia12i >> del PSI? La retoricasentimentaleggiante e, diciamolo pure, ridicola del massimalismo di Pertini; le fumisterie ideologiche, di un ideologismo anacronistico e superficiale, di Basso; l'ottusa insipienza dei morandiani. Soprattutto quest'ultima. Perchè cosa si notava nei discorsi di costoro a Venezia, cosa risulta con evidenza nell'azione loro dopo Venezia? Forse la concezione assitrdadi un PSI che cova uova di democra.iia da far ingerire ai comunisti per dar loro modo di rafforzare taluni « spunti democratici?>>.Noi non diciamo che questi « morandiani » vogliano essere filoco1nunisti e frontisti: diciamo soltanto che con le loro fumo,sità ideologiche, col loro leninismo di seconda mano, con la loro mitologia unitaria, essi portano ancora una volta il PSI su posizioni frontiste, o tutto al più ne fanno un partito inutile (si veda, per quanto concerne il Mezzogiorno e il meridionalismo, la docume1itazione offerta da Galassoe Cervigni nell'arti- , coloche leggeretepiù avanti). Non sem•.braesservi esperienza delle cose pre- . senti e passate, italiane e straniere, che conti per questi uomini: aggrappati ~ alla loro stenta metafisica, essi soffrono sulle loro carni i colpi di Budapest e co1itinuanoa idoleggiare l'unità della classe operaia, che inta12tofornisce niaggioranze aziendali alla CISL e notevoli affermazioni alla UIL. Ma allora anche il capestro di Petkov, anche i seni tormentati della vedova di Rajk, dz·ventanouno scialbo fantasma, che le astratte formule unitarie bastano ad esorcz·zzare. Oggi i veri conservatori sono quei dirigenti del PSI che costringon(!) Nenni alle più spericolate abilità dialettiche; che lo tengono prigioniero .di una situazione disperata, che lo smentiscono e lo sconfessano addirittura. Questo nuovo massimalismo sta com1J1,ettendotutti gli errori del vecchz'omassimalismo, ed in più sta commettendo un'altra errore, che è il più grave di tutti e consiste nel fare queste cose nell'anno di grazia 1957. Se milioni di voti resteranno ancora congelati all'estrema comunista, o se parte di essi dovesse trasferirsi nel settore che è già il più affollato, troppo affollato, dello schieramento elettorale, ciò dovrà essere imputato principdmente alla paralisicui i morandiani stanno costringendo ìl soci·alismo italiano. I morandiani si avviano a fornire un esempio d'z·rresponsabilità politica e di insipienza culturale non inferiore a quello che venne fornito dai massimalisti degli anni venti. Ed è inutile chiamare in causa Paolo Rossi e Simonini: le responsabilità di Serrati e di Bombaccl sono state ben più gravi di quelle di d'Aragona e di Bonomi. [6] Bibloteca Gino Bianco

La città settentrionale e la campagna meridionale di Francesco Compagna La campagna italiana, o meglio quella gran parte di essa che appare più sofferente, perchè deve affrontare problemi di difficilissima soluzione, è ancora soffocata, dove più dove meno, sotto il peso delle eccedenze demografiche; così le province interne e quelle alberate del Mezzogiorno e delle Isole, le regioni alp,ine e appenniniche, prealpine e preappenniniche, il Veneto, una buona parte dell'Emilia, le valli del Piemonte e della Lombardia. In pari tempo corre più imperioso di una ·volta per tutte le campagne, portato dal cinema, dai nuovi mezzi di trasporto, dalla radio, dalla televisione, dalla sia pure lenta espansione del moderno mercato economico, il richiamo della città. Di qui, dal peso dell'eccedenza demografica sui campi e dal più imperioso richiamo della città, la sempre più forte spinta all'esodo rurale. Qua e là, di fronte a questo fenomeno, si levano grida di allarme·; si parla erroneamente di «spopolamento>> delle campagne, che è il caso della Francia, e ora anche della Germania, ma certo non dell'Italia; si considera con estrema preoccupazione il fenomeno e le dimensioni che esso viene assumendo, ma quasi sempre dal punto di vista della città, dei problemi che l'esodo solleva nelle sedi della sua destinazione, non dal p11nto di vista della campagna, dei problemi che l'esodo allevia, se non risolve, là dove esso prende origine; si invocano infine i provvedimenti atti a fermare, o per lo meno a frenare, la spinta che alimenta le correnti di emigranti che dalla · campagna muovono verso la città, senza che ci si avveda che quei provvedime11ti ci sono e non valgono a frenare un moto inarrestabile, e, peraltro, contraddicono alla lettera e allo spirito della Costituzione. E di qui, da tutte queste lamentazioni e invocazioni, si sviluppa anche una polemiCa, spesso [7] Bibloteca Gino Bianco

torbida, delle regioni del Nord contro quelle del Sud, perchè le regioni del Nord vedono arrivare ogni giorno la gente dal Sud, perchè le regioni del Sud sarebbero uno dei principali « foyers d'emission >> delle migrazioni interne, ad onta della forte quota di spesa pubblica ad esse destinata (1 ). Queste, si deve una buona volta dirlo alto e forte, sono tutte posizioni reazionarie. Anzitutto va rilevato che la situazione di fronte al'la quale ci troviamo non è imperniata sulla questione di Nord e Sud, ma deriva daJlo squilibrio particolare che nel nostro paese caratterizza i rap.porti fra città · e campagna. L'Italia è solo per certi aspetti un paetse moderno) occidentale, e per altri aspetti è invece ancora un paese che mantiene sulla terra una densissima popolazione agricola a bassi livelli medi di p,roduttività e di remu11erazione reale. In Italia, infatti, il decremento della popolazione rurale, fenomeno comune a tutto il mondo occidentale, è stato molto lento: fra il 1936 e iL 1952 la popolazione attiva in agricoltura è diminuita infatti solo dal 48,5 al 41,6°/4 della popolazione attiva totale, mentre ancora più lenta è stata lta diminuzione in termini assoluti della popolazione attiva agricola. Abbiamo oggi una popolazione attiva (maschi) in agricoltura che rappresenta il 41% ( 1 ) Si vedano a questo proposito certe polemiche torinesi, già echeggiate su Nord e Sud, quando si è parlato del MARP e dell'on. A1pino (n.ri 20 - 24)~ È venuta poi l'inchiesta de L'Espresso che ha rivelato una diffusa, penosa, irritazione antimeridionale tra la piccola e media borghesia radicaleggiante e socialisteggiante (i lettori settentrionali dell'Espresso, cioè), che pure dovrebbero rappresentare una zona evoluta di pubblica opinione: non soggetta, cioè, come in questo caso si è rivelata, ,1Hasuggestione di luoghi comuni che oscillano tra un gretto campanilismo a base di ciminiere e un aggressivo razzismo a base di pregiudizi etnico-politici. Il fatto è che la spesa pubblica c'è e l'immigrazione pure: e non ci si d·eve stupire perciò che i pregiudizi dilaghino, che i problemi di assi1nilazione facciano sentire il loro peso, che la lotta per la distribuzione regionale della spesa pubblica assuma accenti demagogici. C'è da stupirsi invece della leggerezza, e magari dell'ignoranza, con cui ambienti intellettuali e politici si atteggiano di fronte a questioni che, oggi più di ieri, richiedono che ci si ispiri a quel senso di responsabilità nazionale che fu dei Jacini e dei Fortunato e che non sembra essere stato presente in ~rte risposte al questionario dell'Espresso; e piace qui citare, per contrasto con queste Jnanifestazioni di leggerezza, l'ottimo articolo di Paolo 11onelli sulla Stampa del 17 1narzo, vero modello dell'atteggiamento di un uomo di lettere settentrionale inteiligente e responsabile. [8] Bibloteca Gino Bianco

della totale popolazione attiva, contro il 6% in Gran Bretagna, il 14% in Belgio, il 16% in Germania, il 17% in Olanda, il 21 % in Svezia, il 27% in ' Danimarca, il 28% in Fìrancia. Il grande divario che separa l'Italia dai paesi a sc~rsa percentuale di popolazione agriçola sta a dimostrare quindi la giustezza delle considerazioni svolte da autorevoli studiosi sul rapporto che corre tra la misura dedla percentuale di popolazione agricola e il benessere economico nazionale. E se questo è vero, come è vero, è venuto il momento in ,cui i « cittadini » devono guardare al fenomeno dell'esodo rurale non solo dal punto di vista della loro città, ma anche da quello della campagna; non dal punto di vista del proprio Comune, ma da quello del Paese. Poi non è detto che questi siano proprio punti di vista contrapposti. Si pensi alie difficoltà che incontra in Italia quell'impegno di ulteriore meccanizzazione dell'agricoltura che è pur tanto necessario portare avanti, sia ai fini della produttività agricola, sia ai fini dell'espansione del mercato industriale interno: da questa diffi,coltàderiva una sofferenza a1la campagna che si trova costretta a procedere a rilento; ma è un rallentamento che si riflette anche sulla produzione e sul mercato delle fa'bbriche di questa o quella città. E così quando si pensa al regime fondiario italiano, il problema più spinoso non è quello rappresentato dal latifondo padronale che non esiste quasi più: i grandi problemi ereditati dalla campagna dell'Italia contemporanea sono ia polverizzazione fondiaria in certe zone, la concentrazione bracciantile Ìn altre, il latifondo contadino dell'interno di certe province meridionali, la degradazione della montagna e delila collina anche per certe province centro-settentrionali, la sottoccupazione rurale in genere. Sono problemi questi che non si risolvono in campagna, e per lo meno non si 1isolvono solo in campagna; sono problemi che trovano la loro linea di soluzione lungo le vie dell'esodo rurale, appunto; e la destinazione dell'esodo rùrale è la città. Non si parli quindi di fermare l'esodo rurale, e neanche di frenarlo. Nessun dubbio che, ai fini del benessere economico nazionale, bisogna riguadagnare il· ritardo che ci separa dai paesi .progrediti, bisogna abbassare la percentuale di popolazione agricola, facilitare le migrazioni professionali (dalle occupazioni agricole a quelle secondarie e da queste a•quelle terziarie) e quelle regionali (dai campi, dai paesi, dalla montagna, alla pianura; alla città). Queste migrazioni sono un fenomeno di progresso, di liberazione, [9] Bibl teca Gino Bianco

di sviluppo, di civiltà, anche se inevitabilmente creano taluni difficili problemi per gli amministratori di Torino o di Milano, anche se temporaneamente può « scendere il tono» di questa o quella città cisalpina. Il Piano Vanoni ha tenuto conto naturalmente delle realtà cui abbiamo accennato; ed ha previsto, per il decennio '54-'64, un esodo rurale di 1.050.000 unità lavorative; di cui 350.000 dalle campagne del Nord e 700.000 dalle campagne del St1d. Esso ha poi previsto una emigrazione dal Sud al Nord di 600.000 unità lavorative e ha ,considerato realizzabile una emigrazione all'estero di 800.000 unità lavorative (300.000 dal Nord e 500.000 dal Sud). Torneremo sul rapporto che corre fra le migrazioni interne e l'emigrazione oltre con-fine.Qui ci basti osservare che se lo Schema Vanoni ha tenuto conto di un sensibile esodo rurale, la cifra in cui si condensano le sue previsioni ci sembra piuttosto bassa, sia con riguaroo alla crescente spinta che agisce nelle .campagne del Sud, sia con riguardo agli spostamenti che si verificano e ancora si verificheranno all'interno dell'Italia centro-settentrionale, specialmente se si pensa alle cosiddette zone depresse del Nord, « di limitata superficie, ma piuttosto numerose». Ad esse pure nel testo dello Schema si fa cenno, escludendo che << la soluzione del problema delle minori zone di depressione possa essere attesa dal generale processo di sviluppo che si intende intensificare>> ed auspicando << misure specifiche di intervento ». Ma queste, naturalmente, riguardano anche spostamenti di popolazione verso le più progredite zone limitrofe. E perciò dobbiamo fin da ora considerare la possibilità di una notevole eccedenza di unità lavorative rispetto alle 600.000 previste come quota di emigrazione dal Sud al Nord 1rel decennio dello Schema Vanoni e rispetto alle 350.000 previste come quota del1' esodo rurale settentrionale nello stesso 1decennio. ,Queste eccedenze, però, potranno essere incanalate nel flusso migratorio che si dirige oltreconfine, perchè, se lo Schema Vanoni ha tenuto conto di una domanda media del mercato internazionale della mano d'opera, taluni indizi lasciano pensare che questa domanda, specialmente per l'Europa continentale, anche prescindendo dal Mercato Comune, è e sarà più alta di quella miedia prevista. Di modo che la valvola dell'emigrazione all'estero, i1 ntelligentemente manovrata, potrà valere a correggere l'eventuale errore di previsione che può essere stato commesso riguardo a!llemigrazioni interne. (E un'altra valvola, minore, ma pur essa di grande interesse ai fini della costruzione di una Italia moderna, potrebbe cominciare a funzionare: la Sardegna; sia nel [10] Bibloteca Gino Bianco

senso di una diminuzione della corrente che porta dall'Isola al Continente, sia nei senso dell'assorbimento e insediamento nell'Isola di un maggior numero di conti11entali). Come si vede non mancano i poli di orientamento e gli strumenti da adoperare per delineare e condurre una politica seria ed efficace di fronte alla incalzante realtà dell'esodo rurale. Da quanto si è detto .si ri,cavano già i primi, elementari termini di questa politica, che ci proponiamo di precisare meglio più avanti. Torniamo intanto alla realtà attuale dell'emigrazione meridionale nel Nord. Per quanto essa sia la più « vilstosa >> dobbiamo ricordare che è ancora neonata, che è più rada di quella interregionale del Nord e del Centro. Essa tende a percentuali più alte nel prossimo futuro, ma resta dimostrato per ora da tutte le prove statistiche che le regioni del Sud presentano quozienti di emigrazione interna ancora relativamente bassi. Si veda un recente studio pubblicato dalle « Informazioni Svimez » ( a. IX, n. 50, 12 dicembre 1956): « Un fatto i,nteressante emerge dall'esame dei quozienti tra gli emigranti in altre regioni ed i nativi di una regione; ·precisamente 1a propensione all'emigrazione in altre regioni risulta maggiore nel Nord che nel Sud; in quest'ultimo i più bassi valori della propensione all'emigrazione in altre regioni si riscontra110 in Sicilia ed in Sa11degna (rispettivamente 5, 7 e 6,0) .. L'insularità sembra essere un fattore di isolamento anche in questo campo. Nel Nord il Friuli - Venezia Giulia, il Veneto ed il territorio di Trieste hanno i più alti quo,zienti di emigrazione verso le altre regioni, compresi tra il I4 ed il 15%; nel Sud invece il massimo quoziente raggiunge appena il 10,3% (Abruzzi e Molise). Ancora più rilevante risulta la superiorità del Nord rispetto al Sud in base ai quozienti di emigratorietà relativi all'emigrazione verso tutti gli altri Comuni; mentre nel Nord si supera il 40% (Trieste 41,6, Emilia-Romgana 41,0), nel Sud non si raggiunge il 26% (Abruzzi e Molise 25,5, Sardegna 25,5) ». Sempre in riferimento a questa minore tendenza alla emigrazione interna del Sud rispetto al Nord si prenda poi ad esempio proprio il caso di Torino dove sembra più aspra che altrove la polemica intorno alla « inva- , sione » di meridionali. Si legge in una inchiesta di Ftanco Serra (pubblicata sulla Settimana lncom nell'ultimo numero del 1956 e nel primo del '57) che, mentre la disoccupazione torinese, malgrado una immigrazione di circa 100.000 unità nel solo biennio '54-'55, non si è aggravata, << risulta che ogni [11] Bibloteca Gino Bianco

anno arriva a Torino una media di 11 mila immigrati dal Mezzogiorno>>; si tratterebbe cioè di poco più ~el 200/4di correnti meridionali sul totale di tutte le correnti che affluiscono a Torino, in particolare dallo stesso Piemonte, oltre che dall'Italia centrale e dall'Italia .settentrionale (Veneto). Q1uesti im-- migrati meridionali, « per alcuni mestieri, quali i più umili defl'edilizia », hanno rappresentato, fra l'altro, una felice iniezione di mano d'opera, « giacchè sono scarsi i torinesi che si accontentano del faticoso e mal retribuito mestiere del manovale». Ma quel che qui conta rilevare è che in effetti sembra, da un recente studio del Comune di Torino, che - detratti i militari, gli impiegati, gili agenti, gli insegnanti, i funzionari, ecc., e aggiunti i clandestini e i cosiddetti immigrati « di rimbalzo>>, provenienti cioè da una prima tappa in un'altra sede del Nord, ma partiti comunque dal Sud - già nel luglio del '56 « gli immigrati a Torino da tutto il Piemonte non rappresentano, come sembrerebbe, il 44 %, ma il 35 %; e che gli immigrati dal Centro-Su,d non sono il 33% ma superano il 37% » (La Stampa, 25-11957). Cioè saremmo passati dal 200/4che rilevava Franco Serra per il biennio '54-'55 a questo ultimo dato, che segnerebbe un aumento del 17°/4 in poco più di un anno (2 ). Se poi considerassimo quali indicazioni ci forniscono le statistiche del- . l'immigrazione in città come Milano e Genova, e naturalmente come Roma, disporremmo di una ulteriore testimonianza della generalità del fenomeno di escxlo rurale, che si presenta appunto come molto avanzato, qualche volta come già calante.,,nel Nord, appena agli inizi di una però già rapida ascesa nel Sud. Se avessimo avuto bisogno di altre argomentazioni per dimostrare chei' esodo rurale è una manifestazione di civiltà progrediente, sarebbe bastato appu·nto questo argomento: che la spinta all'esodo rurale è più forte nelle progredite regioni del Nord, che il ri,chiamo della città vicina è più forte del richiamo della città lontana. Tanto più che, lontana per lontana, si è verificato tra l'altro che l'esodo rurale del Su,d si è incanalato nel passato per ( 2 ) in una nota sulla stessa Stampa si legge, però, al 28 marzo, che nel gennaio e febbraio 1957 gli immigrati meridionali a Torino rappresenterebbero il 25% sul totale dell'immigrazione verificatasi in questi due mesi. Fino a che punto questo dato tiene conto anche degli immigrati di <<rimbalzo »? E valutando anche costoro, e soprattutto valutando i <<clandestini», di quanto sale la percentuale? · [12] Bibloteca Gino Bianco

,correnti che portano addirittura alle città che si trovano dall'altra parte dell'Oceano. Ma ora è avvenuto che la città del Nord, per effetto della più rapida circolazione, è diventata più vicina; che la città transoceanica, per eff ett9 delle leggi restrittive (Stati Uniti) e delle difficoltà economiche (Sud America), salvo che per l'Australia, il Venezuela e il Canadà, è diventata più lo11tana; che la spinta all'esodo rurale, dovuta oggi più a1 l progresso del Sud che alla sua miseria (3 ), si è fatta più forte in queste nostre regioni; che, perchè sorgano città effettivamente vicine, nelle pianure stesse del Sud, ci vuole un certo margine di tempo e un gran·de impegno di tutto il paese; che nelle città stesse del Nord, e perfino nelle ,campagne (si pensi alla rìviera ligure e alle colline del Chianti, ripopolate rispettivamente da calabresi e da irpini), si manifestano certi vuoti nelle attività primGrieJdovuti alla promozione della mano d'opera locale alle attività secondarie e da queste alle terziarie. È avvenuto tutto ciò ed è per questo che l'emigrazione dal Sud al Nord ha preso a manifestarsi più vistosamente e la sua percentuale è salita, sale e salirà, come e forse più di quanto prevede lo Schema Vanoni. Questa emigrazione non è altro che la manifestazione dell'esodo rurale ( 3 ) Questo è un punto essenziale sul quale non si devono accreditare ulteriori ,equivoci. Ha perfettamente ragione Rossi Doria, che, nella sua risposta all'inchiesta dell'Espresso, scrive che, <<quando, tra il '22 e il '25, Mussolini osò cancellare il termine di questione meridionale dal nostro vocabolario politico, il Sud appariva ed era molto più fermo e quindi meno scomodo di oggi ». Oggi tutto è in movi..: mento, conél ude Rossi Do ria. E pertanto lo scritto di Salvernini - che risale al 1899 I ed è in polemica con i positivisti che asserivano che il Sud è una <<società pietrificata» - conserva sì grande attualità; ma, ripubblicandolo con certi titoli (<<Ora come mezzo secolo fa: una società pietrificata »), l'Espresso sembra attribuire a Salvemini la definizione positivistica del Sud come <<società pietrificata>>. La quale, proprio secondo Salvemini, non era vera allora e meno che mai è vera oggi: si veda, nella ultima edizione degli Scritti sulla questione merid1:onale, Io studio su <<Molfetta 1954 »: <<se chiudo gli occhi per rievocare le condizioni di 60 anni or sono, e le confronto con quelle di oggi, mi sembra di vivere in un mondo nuovo». Il fatto è che anche la politica di intervento di questi anni produce i suoi effetti; e troppo spesso ci si atteggia di fronte a essa secondo valutazioni tipicamente qualunquistiche, come quella, per esempio, dello studente di Biella che ha scritto ad Arrigo Benedetti che il maggior risultato della politica meridionalista sarebbe stato quello di <<creare schiere di fannulloni in uffici pubblici che pesano sui bilanci e quindi su tutta la • nazione>>. [13] Bibloteca G'ino Bianco

dalle regioni meridionali, che viene ad aggiungersi a quello che prende origine dalle regioni settentrionali e centrali, le quali, come abbiamo detto: a) hanno iniziato prima questo movimento; b) detengono ancora il primato della mobilità, rappresentano cioè un più alto quoziente di emigrazione, una più alta propensione all'emigrazione interna, correlativa a una più bassa propensione, rispetto al Sud, all'emigrazione oltremare. Tutto ciò non toglie che l'emigrazione meridionale verso la città settentrionale potrebbe assumere effettivamente dimensioni tali da tradurre in ulteriore disordine economico e sociale quell'esodo rurale che è una manifestazione di progresso civile. Diciamo subito che, mentre le percentuali più recenti danno esca a numerose preoocupazioni e forse già ne giustificano talune, le previsioni del Piano Vanoni non giustificano alcun timore. C'è un aspetto positivo dell' emigrazione meridionale anche per la città del Nord. Vi si faceva già cenno, a proposito dei manovali meridionali impiegati dall'edilizia torinese e dei contadini del Sud che vanno ad insediarsi nei poderi abbandonati da contadini del Nord (4 ). In una esemplare inchiesta sulla emigrazione meridionale a Milano, apparsa sui primi numeri de Il Giorno, nell'aprile del 1956, si leggeva poi una esplicita dichiarazione di un intelligente funzio11ario milanese (il dott. Mazzolani, direttore dell'Ufficio statistico del Comune) secondo il quale il movimento immigratorio « rimpolpa provvido l'ossatura del lavoro cittadino, ne assicura il ritmo e ne riempie i vuoti improvvisi >>; esso costituisce << la naturale riserva umana per il continuo progresso industriale di Milano»; e in definitiva « senza l'immigrazione, qualsiasi appendice superflua essa si porti, Milano muore». Alle << appendici superflue>> potremmo dedicare un intero studio. Qui ci basti dire che esse sono altrettanto inevitabili di certe torbide appendici che si proponevano di sfruttare la Resistenza; e chi volesse identificare l'emigrazione meridionale con que- ( 4 ) A questo proposito si legga su Prospettive Merid1:onali (febbraio 1957) l'eccellente articolo di Corrado Barberis circa la possibilità di organizzare un'azione pubblica per secondare e rafforzare un processo già avviatosi spontaneamente con qualche buon risultato: l'insediamento di contadini meridionali nei poderi appenninici e preappenninici abbandonati da contadini romagnoli e toscani. Si vedano pure le corrispondenze pubblicate da Silvio Negro sul Corriere della Sera nel mese di aprile, dove si legge un giudizio positivo - perspicace come tutti i giudizi di questo esperto conoscitore della << terra >> italiana - in merito agli insediamenti spontanei di contadini meridionali nei poderi dell'Appennino tosco-emiliano. [14] Bibloteca Gino Bianco

sto o quell'episodio di camorra o 4i mafia, non si comporterebbe diversamente da quei fas1cisti che vorrebbero classificare la Resistenza sotto l' etichetta di questo o quell'episodio di ineliminabile ba,nditismo comune, i cui autori si avvalsero di un grande moto popolare per mimetizzare meglio la propria attività, e magari per incrementarla. Al livello attuale, dunque, l'immigrazione è una « provvida trasfusione» per la città del Nord, secondo il giudizio di ,quell'intelligente ed esperto funzionario del Comune di Milano. Ma ove quel giudizio non bastasse, ecco quello di uno dei più autorevoli studiosi della realtà economica italiana: « data la situazione demografica delle regioni industrializzate del Nord», scrive il prof. Pasquale Saraceno, << 1~ disponibilità di una sorgente esterna di forze di lavoro è necessaria per evitare che esse entrino in una situazione di ristagno; al riguardo non dobbiamo dimenticare quanto più marcata fu in questo dopoguerra l'espansione produttiva della Germania occidentale e dell'Italia settentrionale rispetto agli altri paesi industrializzati, cioè rispetto a paesi che non poterono utilizzare riserve di mano d'opera esterna». Si potrebbe obiettare - date le premesse che abbiamo indicato a proposito dell'esodo rurale - che queste esigenze possono essere soddisfatte, come in gran parte sono state soddisfatte, con gli immigrati provenienti dalla campagna del Nord, più evoluti e più assimila1 bili, secondo alcuni, di quelli che provengono dalle Puglie, dalla Sicilia, dalla Campania. Dovremmo rispondere subito che, se la seconda generazione di quegli emigranti che erano partiti da un Mezzogiorno assai più arretrato di quanto lo sia oggi è stata del tutto assimilata da New York e da Buenos Aires, non si vede perchè Torino o Milano non possano assimilare, come di fatto assimilano, in pochi anni, quei pugliesi e quei siciliani che affiuiscono oggi e ancor più affluiranno domani da un Mezzogiorno che è assai più progredito, e in mo-- vimento, di quanto lo fosse al tempo delle grandi ondate transoceaniche. E risponderemmo anche che l'esodo dalle campagne del Nord ha raggiunto forse il punto più alto della sua parabola in questi anni (non per nulla si verificano nei poderi dei vuoti che vengono riempiti spontaneamente da contadini meridionali), mentre la parabola dell'esodo meridionale, come dimostrano i dati citati dalla << Svimez >>, ha appena preso a salire; di modo che, nei prossimi anni, alle esigenze di << rimpolpan1ento >> di cui si diceva, piaccia o non piaccia, dovrà trovarsi soddisfacimento, per le regioni industria- [15] Bibloteca Gino Bianco

lizzate del Nord, in buona parte, grazie all'immigrazione meridionale. Possiamo infatti ricordare che, in base alle ipotesi formulate dallo Schema Vanoni, il Nord dovrebbe occupare nel decennio '54-'64 oltre 850.000unità nell'industria e 1.000.000 di unità nei servizi; e che, detratte l'emigrazione all'estero dalle regioni settentrionali (300.000) e la prevedibile disoccupazione frizionale (750.000),l'offerta netta di lavoro nel Nord ammonterà solo a 900.000 unità: di modo che, per equilibrare la domanda di 1.800.000 unità necessarie a « sostenere un processo di .svilu1 ppo quale quello ipotizzato», se 350.000 unità sono reclutabili dall'esodo rurale settentrionale, 600.000 devono essere chiamate dal Sud. C'è insomma un ,deficit delle forze di lavoro che si manifesterebbe nel Nord e che può essere coperto solo dal Sud, il quale presentereb.be invece, alla fine del decennio, ancora un sensibile eccesso nell'offerta rispetto alla domanda di lavoro. E a coloro che volessero insistere in generale sulla assimilazione e in particolare sulla qualificazione, risponderemmo infine che nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli vi sono tutti operai meridionali, qualificati dallo stesso Olivetti in brevissimo giro di tempo, grazie a metodi dai quali lo Stato avreb,be molto da apprendere. Mantenen,dosi dunque nelle percentuali previste dallo Schema Vanoni l'emigrazione dal Sud al Nord crea problemi seri alle amn1inistrazioni, ma resta un fatto positivo, sia dal punto di vista della campagna sia da quello della città. E quei problemi, se si pensa ai senza tetto e ai senza tutto delle nostre vecchie .città meridionali, saranno sempre più facilmente solubili •1i quanto lo siano, per esempio, i problemi edilizi di Napoli e di Palermo. Ma, dicevamo, l'emigrazione meridionale verso la città settentrionale potrebbe assumere dimensioni tali da creare ben altri problemi, assai più gravi; essa potrebbe cioè andare ben oltre le previsioni ,dello Schema Vanoni, potrebbe assumere un ritmo caotico e precipitoso, tale da creare danni in tutti i sensi. t~el 195S, con riferimento al 1954, in un suo pregevole studio, Paolo Sylos IAbini ,calcolava che il flusso annuale della emigrazione meridionale verso le regioni settentrionali ammontasse a circa 70.000 unità (10.000 in più dello Schema Vanoni, ma Roma compresa), di cui circa 20.000 <<clandestine». _C'è da ritenere che questa cifra sia ora superata, specialmente per quanto riguarda quei « clandestini >>, che, come tali, tendono a concentrarsi solo intorno alle grandi !Città.Ora è da questo angolo visuale, del pericolo di una precipitazione e di una concentrazione dei fenomeni migratori, che ci dobbiamo porre taluni problemi e cercare per lo meno degli orientamenti. [16] Bibloteca Gino Bianco

Ma prima sarà opportuno sgombrare il campo da un equivoco, volontariamente coltivato da alcuni, involontariamente subìto da altri. È stato detto che la politica di sviluppo del Mezzogiorno è una politica molto costosa. Si è parlato pure di << leggi di privilegio>> per il Sud, che sarebbero tanto più ingiustificate quanto più folta e continua si viene facendo la corrente di emigranti che dalla campagna del Sud si dirigono verso le città del Nord, creando a queste ultime gravi e difficili probemi amministrativi politici sociali. << Leggi di privilegio » : a che cosa ci si riferisce con questa espressione? Forse alla << legge speciale» elargita per Napoli, o a quella per la Calabria, o a quelle richieste, con agitazioni promosse non tanto dal campanilismo di destra quanto dalla spregiudicatezza demagogica dell'opposizione comunista, per Roma, Bari, Taranto, Palermo, ecc. Noi, napoletani, ci siamo opposti alla « legge speciale» per Napoli e ci opponiamo, non per ragioni di spesa ma per ragioni di metodo, a ogni distribuzione di leggi speciali per città, regioni, province, e magari collegi elettorali. Perchè noi vogliamo che la politica meridionalista non sia una politica dispersiva di palliativi, o, se si preferisce, di privilegi, ma una responsabile politica coordinata per settori, a sua volta coordinata con la politica nazionale dello sviluppo. I problemi di Napoli, R(oma, Palermo, Bari, Taranto, ecc. vanno inseriti appunto nelle prospettive di una tale politica. « Fu u·n errore >>,scrivemmo fin dal 1955, « elargire la legge speciale per Napoli invece di fissare le linee per una vera e propria politica della città nel quadro della Cassa per -ilMezzogiorno >>.E così dicemmo che, più seria di una legge speciale per la Calabria, << sarebbe stata una intensificazione della politica·delle acque e dei .boschi, sempre nel quadro della Cassa». Ai comunisti, poi, che guidavano l'agitazione per queste leggi speciali, sapendo di mettere così iiì difficoltà il governo, e che ci accusavano di fornire con il nostro atteggiamento una copertura all'inerzia governativa, facemmo notare come questa agitazione per le << leggi speciali » venisse a confermare la giustezza del giudizio che di loro aveva dato recentemente Gaetano Salvemini: « i comunisti cercano dovunque i punti di appoggio per sollevare il più esteso malcontento possibile, e non per proporre rimedi che attenuino il disagio; e in quel lavoro, per reclutare comunque malcontenti, promettono tutto a tutti, anche se quel che fanno sperare agli uni fa a pugni con quello che fanno sperare agli altri>>. Queste furono e sono dunque le nostre posizioni rispetto alle << leggi [17] Bibloteca Gino Bianco

~peciaìi », delle quali, per fortuna, salvo il caso di Roma, non si sente parlare più con tanta insistenza. Si parla invece di rilancio della Cassa e dell'industrializzazio1:1e,di rilancio di quella costosa politica di sviluppo del Mezzogiorno, a proposito della quale pure si è fatto cenno, sembra, a leggi di privilegio in generale e a inefficacia nel frenare l' « invasione » dei meridionali in particolare. Se il riferimento al privilegio poteva avere qualche fondamento quando si trattava territorialmente di << leggi speciali», non ne ha nessuno quando si parla di investimenti pubblici, riforma agraria, industrializzazione del Sud. Anzitt1tto perchè qui siamo veramente nel campo di quella politica che abbiamo auspicato, definendola: politica coordinata per settori. Soprattutto perchè questi, della preindustrializzazione e della industrializzazione, come preciseremo meglio, sono strumenti fondamentali al fi·nedi regolare, al di là delle stesse scadenze fissate dallo Schema Vanoni, l'ampiezza e il ritmo dell'esodo rurale; per tacere poi di tutte le altre note .. argomentazioni che militano a favore di uno sforzo di tutto il paese per cancellare i confini che separano le due Italie. A proposito di queste leggi, da quelle della riforma agraria a quelle della industrializzazione, non si può parlare dunque di privilegio. Si può parlare di inefficacia? Almeno nel senso di non essere leggi idonee a frenare l'esodo dalle campagne del Sud? Risponderemmo no alla prima domanda, sì alla seconda. O meglio non crediamo che si possa misurare l'efficacia di queste leggi dalla loro capacità di freno dell'esodo rurale in un primo ciclo di anni. Quei settentrionali che pretendono di impugnare l'efficacia delle leggi di riforma agraria e di industrializzazione con l'argomento della loro incapacità immediata di frenare l'esodo rurale, assomigliano a quei meridionali che dal canto loro contestano l'efficacia delle stesse leggi con l'argomento che un'alta quota, quasi la metà, della spesa pu,b,blicarehequeste leggi comportano si risolve in acquisti sul mercato del Nord. Non si deve prescindere allora da due fondamentali considerazioni: 1) per un verso gli investimenti pubblici, nella misura in cui promuovono· parte del bracciantato a manovalanza, non possono agire come freno, ma agiscono anzi come acceleratori degli spostamenti dalla campagna alla città; 2) fino a quando non vi sarà la città meridionale capace di intercettare tutta l'eccedenza di questi spostamenti, la città settentrionale non potrà contare· su alcun freno per allentare la pressione dell'esodo rurale dal Sud. Di qui [18] Bibloteca Gino Bianco , '

dt1e esigenze: in primo luogo accelerare il passaggio dalla preindustrializ- . zazione alla indt1strializzazione per avere al più presto nel Sud delle realtà ' t1rbane più vicine, capaci anche di intercettare parte dell'esodo rurale meridionale; in secondo luogo, dirottare, o anche inoltrare, da Torino e dalle altre città cisalpine, verso altri centri della regione padana, o anche verso città più 'lontane, transalpine se non transoceaniche, quel flusso che non si può per ora frenare e che tende forse troppo rapidamente a salire. In che senso troppo rapidamente? Il fatto è che a questo punto, elaborata una diagnosi e affermato che in Italia si viene delineando un'inarrestabile redistribuzione della popolaziont e degli insediamenti umani, che rappresenta un grande fatto di civiltà, che tende ad allineare il nostro paese sui paesi più moderni e progrediti, che indica la linea lungo la quale si potrà risolvere la questione agraria; a questo punto, consapevoli di tutto ciò, dovremo volgere lo sguardo proprio alla città, definire che cosa concretamente intendiamo con questo termine, sollevare i cittadini da alcune legittime preoccupazioni, suggerire loro w1 atteggiamento responsabile in rapporto a certe reazioni, affiorate qua e là di fronte all'esodo rurale e che pure non esiteremo a definire razzistiche, quasi quanto quelle che abbiamo dovuto lamentare dall'Alto Adige. A questo punto insomma dobbiamo vedere se e come l'esodo rurale (non potendo essere per ora frenato) sia per lo meno canalizzabile nel migliore dei modi; e vedere, se e come ci si possa mantenere aderenti alle ipotesi formulate dallo Schema Vanoni, se e come si possano correggere gli eventuali errori di questo Schema. Noi sappiamo che, per ritmo e per ampiezza, la corrente migratoria che dal Sud conduce al Nord tende rapidamente a crescere. E conos·ciamo, d'altra parte le ipotesi formulate dal piano Vanoni. C'è una quota della emigrazione meridionale che dovrebbe essere assimilabile, anzi necessaria alla~ , economia del Nord (600.000 unità lavorative). C'è un'altra quota che dovrebbe passare i confini (300.000 unità lavorative dovrebbero emigrare dal Nord, ma 500.000 dovrebbero emigrare dal Sud). C'è infine una quota che dovrebbe occuparsi nel Mezzogiorno stesso, per effetto dell'accresciuta domanda di lavoro nell'industria e nei servizi (800.000 unità lavorative). Q,ueste ipotesi potrebbero essere forse, come già dicevamo, errate per difetto .. Comunque, perchè nel decennio l'emigrazione al Nord resti più o meno contenuta nei limiti delle 600.000 unità lavorative considerate assimilabili, [19] Bibloteca Gino Bianco

- sarà ovviamente necessario: 1) tener fermo a quel programma che ci consentirà di occupare 800.000 nuove unità lavorative nel Sud; 2) per correggere gli eventuali errori, specialmente quelli connessi alle previsioni di cui si t.iiceva, manovrare la leva dell'emigrazione transalpina, la quale, stando ai dati del 1955, confermati dalle prime indiscrezioni sul bilancio emigratorio del 1956 e dalle stesse previsioni correnti per i prossimi anni, è già andata, a nostro sollievo, oltre le previsioni formulate dal Piano Vanoni. Sbagliano perciò coloro che, ottimisti, dicono che si debba puntare solo sull'industrializzazione per risolvere il nostro problema di oocupazione e sottoccupazione; così come sbagliano coloro che, più pessimisti, affermano che si debba puntare .solo sull'emigrazione (si veda la posizione presa dall'on. Corbino al recente Congresso Nazionale del Rotary Club). Noi diciamo che non b,asta soltanto l'industrializzazione e non basta soltanto l'emigrazione ,a risolvere la questione agraria e la questione meridionale del nostro paese; che non si tratta di soluzioni alternative, ma .di soluzioni comple- , 1nentari; che l'una può trarre giovamento dalI'altra, e viceversa; che si devono creare le -città vicine là dove non ci sono città, ma solo capitali decadute (industrializzazione); e che si devono al tempo stesso collegare le nostre più sovraffollate campagne con le éittà lontane, transoceaniche e soprattutto transalpine (emigrazione); altrimenti tutto iI peso dell'esodo rurale verrebbe ~ gravare esclusivamente, e non anche, sulle città cisalpine. Questa trattazione del problema può apparire troppo schematica e s_embra affidarsi con soverchia fi1 ducia a talune formule. E per:ciò ci sarà consentito di prev~nire una obiezione che può facilmente sorgere da indicazioni già operanti. Ci siamo chiesti come correggere l'errore di previsione del Piano Vanoni da un punto di vista quantitativo. Ora dobbiamo chiederci come correggerlo se esso si .verificasse, invece o anche, sul piano qualitativo. Cosa avverrebbe ,cioè se a Torino, o in qualche altra città cisalpina, si verifi-~sse in -questi anni un affiusso tale da sconvolgere tutte le p•revisioni del Piano Vanoni? O meglio,_cosa avverrebbe se gran parte delle 600.000 unità lavorative previste dal Piano Vanoni come tra_sefribili nel decennio dal Sud e assimilabili dal Nord si presentasse alle porte di Torino, non si distribuisse cioè adeguatamente per le varie destinazioni possibili? E cosa avverrebbe se pure t1na parte delle S00.000 unità lavorative previste dal Piano Vanoni [20] Bibloteca Gino Bianco

come quota complessiva d'emigrazione dal Sud ai paesi transalpini e transoceanici, si riversasse anch'essa alle porte di Torino? Perciò, proprio perciò, si è fatto anche cenno a una esigenza di dirottare e di inoltrare, da Torino e da altre città cisalpine, quelle troppo sen,sibili eccedenze che potrebbero di volta in volta verificarsi rispetto alla immigrazione assimilabile annualmente da questa o quella città. Noi le dirotteremo queste eccedenze quando tutte le destinazioni nazionali saranno aperte ai nostri emigranti. Oggi, con le leggi di marca fascista non ancora abrogate, sull'urbanesimo e la mobilità della mano d'opera, noi non conseguiamo altro risultato che quello di infittire poche correnti, dirette verso le città più popolose; dobbiamo invece pluralizzare le destinazioni di queste correnti, diluire le più fitte per una rete di canali, diretti verso i numerosi centri m1edi e minori che possono assimilare piccole quote di immigrati, le quali, sommate, darebbero un grande totale; perchè chi deve scegliere fra clandestino a Torjno o clandestino a Vercelli si dirige senza esitare a Torino, dove potrà sempre sfuggire più facilmente alle maglie della assurda legge, dove potrà più facilmente procurarsi i titoli legali; ma chi può recarsi dove vuole, legalmente, sul territorio del proprio paese, andrà là dove, essendo occupata prioritariamente tutta la mano d'opera locale, c'è possibilità di trovare effettivamente lavoro al più presto possibile. Anche per questo, contro tutti i privilegi sindacali, si è chiesta con tanta insistenza l'abrogazione delle leggi che Einaudi accusava di ricostituire la servitù della gleba. Ma non basta il dirottamento, forse. Cosa si intende quando si parla di inoltrare una certa quota di immigrati meridionali? Se oggi Torino, Milano o Genova sono, per così dire, le capitali della immigrazione interna, esse possono diventare le capitali dell'emigrazione transalpina, che tende a crescere d'importanza da che l'Europa ha vinto la battaglia della piena occupazione; possono diventare cioè i centri di reclutamento e qualificazione per la Francia, la Svizzera, la Germania, il Belgio, la stessa Gran Bretagna. Costa certo meno affidare alla V manitaria il reclutamento e la qualificazione di emigranti per la Rrancia, la Svizzera e la Germania - agendo cioè lungo la corrente, quando essa è fitta - che non affidare questi compiti ad un Ente di Riforma che dovrebbe istituire costosi ,corsi, dall'esito incerto, in numerosi paesi, quando la corrente sta per formarsi, attraverso numerosi rivoli che non sono organizzabili e nemmeno individuabili. E sarà sempre più fa- [21] Bibloteca Gino Bianco • I

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==