Nord e Sud - anno III - n. 23 - ottobre 1956

dottrinale d'un Ferri, questa sì intimamente viziata dal positivismo, sia confusa con il più generale, ma alla fin fine vago e indeterminato <<positivismo » di tutto il movimento socialistico e dell'epoca. Perciò quando egli, nell'ultimo capitolo, si pone l'interrogativo (pp. 154-52) di come mai tutta la varietà politica, ideale, culturale, propria dell'età giolittiana, sia finita con il tramontare di Giolitti, e con l'avvento della reazione ,salandrina e poi Jel fascismo, non si trova in condizione di risolverlo. La risposta implica infatti un esame approfondito della stessa natura delle opposizioni al giolittismo (che è invece confuso con esse) e finisce con il coinvolgere e richiamare la responsabilità non solo di socialisti, liberisti, nazionalisti, ma anche dei cattolici ... E inoltre si elude così il problema principale, di stabilire in che termini e in che misura s'abbia, nella crisi dello stato liberale, una continuità e una rottura. Il D. R. si limita a notare la confluenza d'ogni corrente vitalistica e irrazionalistica nel nazionalismo di Corradini - e per questo tramite la subordinazione a precisi interessi conservatori, dei <<·produttori» in genere (p. 162) e in particolare dei var1 Salandra, Sonnino, Albertini, malamente uniti e confusi (p. 157). La generale spiegazione sta al solito nelle intime connessioni di tutto il sistema, che obiettivamente permette le diverse, svariate confluenze (e che assorbe infine lo stesso Giolitti). Tutto un mondo sembra finire senza lasciar traccia: -il fascismo pare inghiottire ogni cosa. Il D. R. parla sì per il nazionalismo della rottura d'ogni <<legame con le tradizioni e con il passato» e ripropone così brusca.mente la questione del rapporto che si stabilisce allora fra queste tradizioni e altre forze di opposizione al fascismo; e riporta la polemica del Croce contro il dilagare dell'irrazionalismo e la scomparsa d'ogni <<distinzione>>. Ma questa, che par voce isolata, non si sa dove si collochi, nè con che rilievo. Il D. R., con i suoi schematismi, ha distrutto la possibilità stessa d'una visione più larga, più approfondita, più viva della vita politica italiana che consenta di porre, in termini reali, il problema di quello che significò l'instaurarsi del fascismo, e di qual natura ebbe il moto di opposizione che fin dagli iniz1 si delineò. Così questo nuovo libro del D. R. rende ancor più evidenti, e anche più stridenti, le contraddizioni in cui egli è impigliato e che viziano le sue opere più impegnative. V'è anzitutto una visione intimamente divisa del Risorgimento e del processo unitario: il richiamo ammirato a Cavour (A.C. I p. 13, 59, 114; II, p. 40); la simpatia per un Ricasoli e un Minghetti (A.C. I, p. 59); una valutazione più obiettiva e partecipe della Destra (spec. A.C. I, p. 116); l'idea stessa del lento corrompersi d'una tradizione elevata (A.C., I, p. 173; A.C. II, p. 280), di cui si riafferma il valore (A.C. I, p. 217); anche infine l'individuazione, pur discutibile, delle due politiche della Destra, progressiva e di respiro europeo l'una, intimamente conservatrice l'altra (A.C. II, p. 287), introducono nella ricostruzione storica la complessità indispensabile. Ma su tutto questo cala (ed è tanto più strano, in quanto per un verso il D.R. si mostra, [126] Bibloteca Gino Bianco

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