Nord e Sud - anno III - n. 19 - giugno 1956

dall'A. senza discussione (p. 90). L'estensione sempre maggiore della pianificazione è dovuta (sempre secondo l'A.) ai palesi insuccessi dell'economia capitalistica {quali la crisi del '29), alle realizzazioni ~dell'economia sovietica, alle ~sperienze del periodico bellico, all'istanza sociale che si è fatta sentire in partioola\r modo in questo dopoguerra, e ai tentativi di risollevamento delle aree arretrate; i benefici effetti di questo orientamento sarebbero già statisticamente provati (p. 73). La necessità inderogabile per lo Stato moderno di adottare una politica di pianificazione, al fine di assicurare la ottima utilizzazione delle risorse produttive, la piena occupazione e la equa distribuzione delle ricchezze, più volte affermata dall' A., mai però sistematicamente dimostrata, costituisce la conclusione delle considerazioni che precedono. Giunti a questo punto sarebbe lecito attendersi un esame approfondito delle questioni sollevate dall'economia pianificata: invece seguono poche altre considerazioni. L' A. definisce come << piano » il programma che << determina gli obiettivi da raggiungere in un dato tempo e i mezzi che devono essere impiegati. [Il piano] fissa le quantità globali per ciò che concerne la produzione, gli investimenti ed il con- -sumo e tende ad ottenere il massimo del loro rendimento» (p. 74-75). Le caratteristiche della pianificazione sovietica, << dirigismo integrale che presuppone la col- "lettivizzazione di tutti i mezzi della produzione, l'esistenza di un regime politico ,centrale » (p. 80), vengono contrapposte a quelle della pianificazione liberale, puro programma di governo, e a quelle della pianificazione democratica, che è il tipo -cui debbono ispirarsi le democrazie occi- ... dentali. L' A. traccia qui uno sche1na di organizzazione dell'economia basato sulla ripartizione dell'attività economica in tre settori: 1) il settore pubblico, destinato a comprendere tutti i << grandi mezzi di produzione » (banche, miniere, trasporti, , industrie elettriche, siderurgiche, e tutte le imprese monopolistiche o tendenzialmente tali) e ad essere gestito direttamente dallo Stato; 2) il settore controllato; comprendente le imprese di media importanza e in genere quelle non ancora mature per la nazionalizzazione; 3) il settore libero, comprendente le imprese individuali che agiscono ancora in regime di libera concorrenza. L' A. si addentra quindi ad illustrare una serie di problemi di politica economica; non lo seguiremo in tutti gli aspetti della sua esposizione, limitandoci piuttosto a segnalare alcuni punti della sua indagine che presentano interesse o richiedono chiarimenti • L'A. è un deciso fautore delle nazionalizzazioni: nello schema da lui abbozzato, il settore pubblico è destinato ad avere il massimo rilievo ed un sempre maggiore sviluppo. Ora, che la nazionalizzazione sia un'arma contro le formazioni monopolistiche è indubbio; ma che essa riso!va tutti i problemi del monopolio senza crearne di nuovi (come sembra sostenere l'A.) è quanto meno discutibile. I danni del monopolio sono generalmente ritenuti di due specie: la divergenza fra prezzo e costo (con i conseguenti profitti per il monopolista a scapito dei consumatori) e l'arresto del progresso tecnico. La nazionalizzazione risolve certamente il primo problema: per l'impresa pubblica la fissazione del prezzo è affare politico per cui essa può sempre vendere sotto costo, facendo parzialmente ricadere sui contri- [118] BiblotecaGino Bianco

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