Nord e Sud - anno III - n. 18 - maggio 1956

è molto più valida, solo nella quartina finale si dissipa completamente una atmosfera un po' convenzionale, un tenebroso realismo di scuola positivistica. Nei Canti zingareschi e nelle Voci della ~trada, tra le molte liriche riprodotte (crediamo) per puro dovere di completezza, c'è qualche apertura lirica che ricorda Di Giacorno (come il fresco e felicissimo inizio di cc 'O sapu11ariello »), e una Poesia a due voci di compiuto lirismo, « 'E vvoce 'e N apule» (che ci stt1pia1no di non aver trovato inella citata antologia di Delrl'Arco e Pasolini), sospesa in un'atn1osfera di idillio villereccio, ·priva delle con.suete astrusità e compiacenze gergali, conclusa co,n certi versi classici, da epitalamio campagnuolo. È lo stesso modulo felice, lo stesso difficile equili- . brio che Viviani riesce· a conseguire in alcune poesie della raccolta Canti d'amore, com·e nel sonetto « 'Ngiulina », di pretto stile digiacomiano, in « Campagnola » e in « Prezzetella 'a capèra », dove veramente il dialetto raggiunge senza sforzature notevoli punte espressive con certi toni vivi da stornello popolare. Questi risultati di fres.chezza e semplicità -·- non realistica nè arcadica, ma tutto insieme - raggiunti in alcune liriche rappresentano i non m·olti punti all'attivo di un tipo di poesia che appare spesso basato sulla trascrizione pura e semplice di detti e filastrocche appartenenti al patrimonio espressivo popolare; ma troppe volte il rovescio della medaglia è rappresentato da componimenti che conservano il carattere di materiale grezzo, giunto sulla pagina J>rima di aver subìto una necessaria, e sia pur minima, elaborazione. A ciò concorre anche, in misura rilevante, il carattere funzionale che avevano in origine molti di questi componimenti, concepiti dall'autore - a guisa di recita.tivi, i:ntermezzi, ecc. - nel vivo di questa o quella scena teatrale; mentre qui vengono naturalmente ripro,dotti senza il necessario co11tomo, quasi si supponga in essi un'autonomia, che invece molto spesso non mostrano di avere. Quello che appare co1nunque evidente, dalla lettt1ra dell'opera poetica di Raffaele Viviani, a chiunque non abbia prevenzio-ni di sorta, è l'assoluta imp·ossibilità di catalogarla come esempio di « letteratura socialista » - dato e non concesso che, nel dare questa definizione, ci si basi su un qualche requisito oggettivamente ritrovabile. Oltre tutto, proprio sul piano del contenuto Viviani si presenta in una guisa che ci sembra del tutto irriducibile ad una etichetta del genere. Il suo è, in definitiva, il solito spirito popolari- . stico ·di carattere tradizionale, chiuso in se stesso e fatalista (si pensi a Piedigrotta), con in più qualche i_ndulgente spunto canzonatorio, ma anche con qualche manata d'incenso bruciato in onore dei luoghi -comuni relativi al paese della miseria gioconda (« L'industria nosta / è sempe 'o buonumore » ); solo verso gli ultimi anni del poeta questo atteggiamento si colora di tilllte più esplicitamente cc sociali », ma sempre, sul piano dell'arte, esteriori e predicatorie (come in « 'O canto d' 'o manganiello », 1946), o,ppure stancamente [54] Bibloteca Gino Bianco·

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