Nord e Sud - anno II - n. 5 - aprile 1955

economica significa decomposizione ulteriore delle strutture della società meridionale, significa che altre forze sono proiettate fuori e cioè contro di essa, significa accrescimento formidabile della carica rivoluzionaria che si accumula nel Mezzogiorno. A chi questa carica è servita negli ultimi anni, a chi potrebbe servire ancora domani, non è neppure il caso di ricordare, tanto è noto ad ognuno. Non si creda che noi si sia monomaniaci, che si abbiano visioni terrificanti ed apocalittiche, che si auspichino con animo sgomento e insieme compiaciuto rivolgimenti totali. Chi abbia un poco lavorato nel Mezzogiorno ha appreso molte cose: ha imparato ad apprezzare la virtù delle cose che si fanno giorno per giorno, magairi con lentezza esasperante, ma tuttavia con qualche solidità; ha imparato che il seme piantato oggi non darà frutti domani e che bisogna attendere perchè fruttifichi e che in ogni modo su cento semi piantati in un terreno ingrato ci si può considerare fortunati se solo la metà va perduta; ha imparato che « il tetto è basso» e che a stivar molte cose c'è rischio di farlo saltare senza cavar nulla di buono; ha imparato soprattutto ad aver pazienza. Ma chi vive nel Mezzogiorno e s'occupa dei suoi problemi, constata altresì ogni giorno che da qualunque parte si attacchi, qualsiasi questione prenda a considerare, sarà sempre portato allo stesso punto, alla stessa disperante constatazione. È in atto da più decenni, e negli ultimi nove anni ha preso un ritmo impressionante, un processo di alienazione degli uomini dalla società dallo Stato italiano: nel Sud diventa ogni giorno più grande il numero di coloro che non si ritrovano nelle strutture tradizionali, che non riconoscono il loro posto là dove i loro padri e i padri dei loro padri l'avevano, che rifiutano, infine, questa società e questo Stato. È il dato di fatto più grave, che in questa rivista è stato denunciato dalla prima pagina del primo numero, e che deve oggi essere alla cima delle preoccupazioni della democrazia nel nostro paese. Lo Stato democratico italiano non può ignorare ciò, starsene passivo a guardare mentre il processo . . s1 compie. Noi sappiamo benissimo che questo discorso farà increspare la fronte o sorridere tutti coloro che ci rimproverano la fiducia 11el riformismo, il continuo richiamo al modello delle « democrazie scandinave » che ci è capitato così sovente di dover fare. E che i cattolici increspino la fronte a questo parlar di democrazia nordica può alla fine apparire anche naturale: l'integralista che sonnecchia in ogni cattolico si risveglia a quelle parole e a quei fatti che se1nbrano recar con sè chi sa quale odore di protestantesimo. Ma che questo capiti anche a intellettuali laici è una cosa che si comprende molto meno. Per paradossale che ciò possa sembrare, non c'è soltanto l'insistenza su un mito, ma un robusto realismo nel nostro continuo chiamare in causa l'esperienza di quei paesi che in materia di democrazia hanno pure qualcosa da insegnarci. Quelli che prendono le mosse da un generico « spi- [39] Bibloteca Gino Bianco

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