Nord e Sud - anno II - n. 5 - aprile 1955

e così via, per tutti i problemi tradizionali che sempre travagliarono l'Italia. Sullo sfondo di questa tematica, infine, palpitava la grande vocazione meridionalista di Amendola e dei suoi amici: vocazione di natura tutt'altro che illuminista, limitatamente problemista o riformista: vocazione, invece, squisitamente politica, che si esprimeva tutta nel considerare l'aspetto meridionalista di ogni questione nazionale, piccola o grande, come aspetto determinante o fondamentale. Il Mezzogiorno veniva considerato il punto chiave della situazione politica del paese. Nasceva da questi convincimenti una vocazione laica e democratica, centrista nel senso più vivo e dinamico di questa espressione, oggi ingiustamente logorata dal cattivo uso: nel senso cioè di un riformismo fondato su una scelta precisa delle forze politiche con cui collaborare. E nasceva anche un'idea dello Stato che poteva davvero considerarsi lontana dalle comuni concezioni giuridiche che in buona o mala fede celavano autentiche intenzioni sovversive, ormai radicate nella politica e nelle scuole giuridiche italiane. Un'idea dello Stato più vicina alla tradizione anglosassone che non a quella tedesca: di uno Stato cioè il cui compito precipuo doveva essere di sorvegliare che avesse luogo, in condizioni di libertà, una adesione di strati popolari sempre più larghi alle sue istituzioni ed alla sua vita; il che poi corrisponde al concetto politico della « rivoluzione permanente ». E questo Congresso - infine - chiarì, a chi voleva intendere ed a chi avesse attitudini intellettuali e morali per farlo, gli scopi e la vera funzione dell'Aventino: problema grosso, cui già abbiamo accennato, che si pose per la prima volta dalla caduta della destra e che era in fondo il problema della coscienza etico-politica della classe dirigente italiana, bisognosa come non mai di chiarezza e di fedeltà ai princìpi. Errerebbe e dimostrerebbe scarsa inclinazione per la storia in genere, e per quella del nostro Paese in particolare, chi credesse di liquidare questo Congresso, il movimento e gli uo1llini che lo prepararono e che ne seguirono i deliberati fino in fondo, con la troppo facile e semplicistica considerazione che nel giugno 1925 la stabilità del regime non poteva essere messa in crisi da un'assemblea dell'Unione Nazionale. Innanzitutto è necessario tener conto che - come l'anno precedente aveva dimostrato la pavida reazione di Mussolini dopo il delitto Matteotti - ancora nel 1925 la chiave della situazione era nelle mani del Re. Bibloteca Gino Bianco

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