Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

IL SENSOESISTE INCONTRO CON CYNTHIA OZICK a cura di Maria Nadotti Tra gli scrittori di successo e il resto del mondo c'è, negli Stati Uniti, la cortina morbida ma di ferro degli agenti letterari. Sono loro che decidono tempi e modi della visibilità dei loro rappresentati, gerarchie di interessi e convenienze, disponibilità sociali e utili refrattarietà. Un preambolino funzionale al racconto di come è nata l'intervista a Cynthia Ozick, una delle scrittrici, a parere della critica e del pubblico, più interessanti e di valore nel panorama letterario nordamericano del momento. Allora. Come è noto e comprensibile, gli scrittori di successo non appartengono all'universo delleguide telefoniche. Inutile anche, nel casosiano donne e donne sposate, cercarle sotto i nomi, divulgati da accorti uffici stampa, dei mariti. Non compaiono, trionfo della prudenza, neppure loro. Gli scrittori di successo sono dunque, a meno che non si voglia aspettare una conferenza, reading, lecture annunciata, irraggiungibili.Anzi astratti. Per provare a materializzarli l'unico strumento a disposizione è la casa editriceche ne pubblica i testi. Da lì, automaticamente, si viene smistati all'Agente. Di solito persona brusca, indaffarata, non particolarmente affabile, messa lì più che altro per far sembrare ancora più astratto e inavvicinabile l'artista sulle cui piste ci si è messi. È solo questione di tempo, comunque, di pazienza, di insistenza e, quando è proprio necessario, di arroganza. E poi, finalmente, le cortine si dileguano e, generalmente sulla segreteria telefonica del futuro intervistatore, compare la voce per lo più gentilissima, anzi un po' timida e quasi sorpresa di essere oggetto di tanto interesse, del futuro intervistato. Così è stato, alla lettera, con Cynthia Ozick, di cui il lettore italiano conosce il racconto Levitazione ("Linea d'ombra" n. 4, 1984)e il romanzo La galassia cannibale (Garzanti 1988). E ne/l'attesa del contatto diretto, la sottoscritta, che nel frattempo si esercitava alla lettura dei romanzi e dei racconti della scrittrice, aveva modo di imbastire storie e tramare fantasie sulle scarse tracce fornite dai risvolti di copertina dell'edizione americana dei suoi libri e soprattutto sull'immagine fotografica fornita dal retro di copertina dei medesimi libri. Immagini vagamente inquietanti e, se associate ai testi, quasi minacciose. La voce invece, la voce della signora, fissata sulla mia impertinente, veloce, incalzante segreteria telefonica, trenta secondi per dire tutto oppure richiamare, è un capolavoro di delicatagentilezza, premurosità, curiosità. Vocesottile e molto giovane, in netto contrasto con l'immagine mentale che mi ero costruita via foto, scrittura e informazioni biografiche. La richiamo e, dopo poche domande mirate a capire che tipo di intervista mi interessa (letteraria, mondana, frivola, personale), mi propone di incontrarci il giorno dopo a//'Hyatt Hotel di New York. "Lo conosci, vero? È un posto ideale, quieto, riservato. Lo uso come ufficio quando vengo in città" detto di uno degli alberghi più avveniristici, sfarzosi, del filone mega-è-bello. Comunque ha ragione lei, perché il ristorante dell'albergo, all'ora del tè, è perfettamente silenzioso, vuoto e raccolto. Ma forse la sensazione di intimità e di 50 familiarità la creaproprio la Ozick, presentandosi con un marito che viene congedato quasi subito e che ci lascia con l'invito a goderci la chiacchierata, e aggredendo l'intervista con un vero colpo di mano. "Ti dispiace se ti intervisto prima io?" mi fa; "mi è impossibile parlare di me se non so con chi sto parlando". E si lancia in una serie di domande precise, mirate: dove sono nata, cresciuta, da che famiglia, che studi ho fatto, il mio lavoro, con chi vivo. Non c'è nessuna aggressività da parte sua, piuttosto un interesse a stabilire un rapporto e a capire quale potrà essere il livello del discorso, e una bella curiosità, vera, intelligente, verso le storie degli altri. Così mi ritrovo a parlarle di me e lei mi segue con altre domande e con un'attenzione che un po' mi lusinga e un po' mi fa rimpiangere, dote in netta estinzione, la capacità di ascoltare che lei sembra avere in sovrabbondanza. La minacciosità promessami dalle fotografie è svanita: davanti a me c'è una piccola signora di quasi sessant'anni a cui non si riesce ad attribuire un'età. Una signora che sa giocare con le parole e che si incanta a giocare con quelle degli altri. La voce è dolce e freschissima. Si ride molto e il regime che conniventemente inauguriamo è, nonostante la serietà dei contenuti, ironico e autoironico. Quando hai cominciato a scrivere? Ho l'impressione di avere sempre scritto. Subito dopo essermi laureata con una tesi su Henry James sono tornata a New York e ho cominciato a scrivere un romanzo, Mercy pity peace in love (da un verso di William Blake). Ci ho lavorato per sette anni, poi mi sono interrotta. Avevo deciso che, visto che il mercato editoriale premiava in quel momento gli scrittori di short stories e che bastavano tre racconti brevi per fare un libro, dovevo produrne uno anch'io in non più di sei settimane. Così ho cominciato a scrivere quella che doveva essere una storia breve e mi ci sono voluti esattamente sette anni per finirla e darla alla stampa. Si trattava di Trust. Al mio primo romanzo non sono mai più tornata. È rimasto però ben presente nella mia memoria e nel nostro lessico familiare. A un certo punto mio marito aveva cominciato a chiamarlo mppl, mipple (nipple significa capezzolo, ndr). Devo riconoscere che quel romanzo mai nato si è preso tutta la mia vita per un periodo che mi è sembrato molto più lungo di sette anni. È stato davvero un capezzolo da cui ho succhiato per tutto quel tempo. Comunque una volta terminato Trust, quindi a quattordici anni dall'inizio di Mipple e a tredici dal mio matrimonio, è nata mia figlia. Con una mano correggevo le bozze del libro e con l'altra cullavo la bambina. Non sapevo neppure che cosa volesse dire essere una madre, avere un figlio, né che la vita ne dovesse risultare radicalmente modificata. Mia madre mi aveva avvertita che ci sarebbero stati dei cambiamenti, ma in senso buono. E i cambiamenti in effetti ci sono stati. Mi sono umanizzata. Come se fossi entrata a fare parte della razza umana con vent'anni di ritardo. A 37 anni invece che a 17. Indipendentemente da tutto, prima di arrivare alla_Pubbli-

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