SAGGI/GADDA le due doti faranno di quell'unico italiano il più grande poeta d'una Italia galoppata dalla guerra nel ventennio francese, presa e persa dai russi, e poi ripresa dalle muse e dalle accademie, e infine dagli austriaci. La prima delle "sacerdotesse di Venere" che secondarono e incitarono (1793) l'allora quindicenne a far versi e in pari tempo a onorare la dea, non difficile a lasciarsi onorare un po' da tutti, la prima, sembra, fu la vivace, intelligente Teotochi (Isabella) sbarcata un giorno a Venezia dopo congruo imbarco nella nativa isola di Corcira, o Corfù. "Assai colta", e amica degli studi, dotata di senno e di spirito e di una lingua delle più spigliate, atta, cioè, a valorizzare tanto lo spirito che il senno, ebbe un salotto "ove convennero i dotti", che al di lei contagio diventarono spiritosissimi, dal Pindemonte al vecchio abate Aurelio de' Giorgi Bertola, già professore di storia universale a Pavia e cantore dei boschi. Teotochi vuol dire "generati dagli dei''. Come sacerdotessa di Venere generata da non si sa qual dio, la vispa e ragionativa Isabellina pare proprio abbia compiuto miracoli. Volò a nozze per due volte consecutive con due settantottenni: col nobil'uomo Carlo Antonio Marin, che dalla emozione provata in quella circostanza imbecillì di colpo e crepò dopo un anno: e col non meno maturo e arzillo e sennato nobil'uomo Giuseppe Albrizzi. Ragion per cui gli storici estasiati la chiamano ancora oggi "contessa", martellando sul titolo e anche "maliarda". Prima di perfezionar le nozze (segrete) col secondo settantottenne, la Isabellina s'involò in viaggio di miele a Firenze con un terzo uomo che non fu Nicoletto. Nicoletto aveva avuto da lei qualche soccorso di pecunia e, a sedici anni, nel '94, cinque giorni di amore: lui stesso ce lo fa sapere. All'udir notizia della fuga, lo incolse un travaso di melanconia, cioè d'angoscia e di rabbia. L'adorata sacerdotessa gli aveva lasciato sulle labbra il fuoco vivificatore de' suoi baci e quel nome, quel titolo, quell'appellativo, quel diploma da conferire all'amata, "sacerdotessa!", che rifiorirà insistente tra i piu bei versi 40 Ugo Foscolo in un'incisione di Giovanni Bossi. del poeta: nella Risanata, nei Sepolcri, nelle Grazie. Essere andati a nanna con una Sacerdotessa! Vi par nulla? Molte le donne da Niccolò amate in una vita agitatissima, e pur dedita alla poesia, agli studi, al culto della beltade! al rumor delle schioppettate, alla critica letteraria, alla cattedra pavese, al tappeto verde. Nottetempo, quando le belle lo lasciavan solo piangeva per amore. "Ho pianto dalle 8,45 alle 11,30". Piangere e lagrimare, lagrime e pianto sono i quattro vocaboli più adoperati dal Foscolo. Ritornano mille e mille volte, nella prosa e nel verso: nell'Ortis, nei Sepolcri, nelle Grazie, nell'epistolario infinito. Molte donne, oh sì. Le loro moltiplicate sembianze vengono a integrarsi nell'unico e sovrumano sembiante della Eterna Bellezza. Integrandone i trentatré ritratti in un "tipo", arriviamo a stabilire la costante di integrazione, delle donne Foscolo. Maritate, anzitutto. Agiate, se non ricche. Non pretendono fiori. Si contentano dei settenari, di qualche endecasillabo. Talora nobili e un tantino sbrigliatelle tal'altra borghesi per benino. Frequentatrici della poesia, dell'arpa, del pianoforte, del ballo, delle belle arti, delle belle lettere. Ospiti squisite con le Personalità di passaggio, "comprendono" l'anima di un Foscolo e ne leggono da cima a fondo le lettere, di trenta pagine l'una. Sorridono ai morituri e ai reduci delle guerre a pendolo, nella confusione degli anni in cui toccò a loro di vivere: cioè di fiorire e di splendere al ballo di Mombello e, ohimé, di sfiorire, per il ballo dell'Arciduca Vicerè. "Meste le Grazie mirino - chi la beltà fugace - rimembra". Dei loro mariti non si sa gran che. Gli storici non se ne curano: e ben fanno. Sorvolano. Una delle più rinomate, nella nostra città, figlia d'un marchese, andò sposa a un conte, vero modello della imperturbabilità coniugale. Diceva, infatti, codesto conte marito: "Nessuno vuol comperare la mia casa, che vorrei vendere a tutti: e tutti vorrebbero mia moglie, che non avrei il coraggio di regalare a nessuno". Conoscitrice di varie lingue, ella ebbe un corpo stupendo, al dire di chi poté vederlo, e una faccia da cuoca, stando al ritratto che se ne conserva, in una dimora patrizia: o forse, oggi, al Museo della Scala. Il Foscolo ne ha immortalato la beltà, titolandola, questa beltà, dell'aggettivo greco-poetico di "aurea", che in italiano significa dorata: per quanto la contessa Antonietta fosse nera di capelli, e di ciglia: nera come il lucido delle scarpe. Un siffatto procedimento si suol chiamare "trasfigurazione poetica". È, infatti, una specialità dei poeti preromantici, e dei tintori di capelli. Un'altra delle donne "vezzeggiate" dal Foscolo (il verbo è suo, nella fase arcadica e giovanile) è certa Quirina Mocenni: una eletta fanciulla senese tolta in isposa, per mo' di dire, da un signore fiorentino, un Magiotti. È la così chiamata "donna gentile". Codesto appellativo tra stilnovistico e rossettiano si addice pienamente alla delicata, alla pallida, alla signorile, alla malinconica bellezza di lei: petalo di magnolia fra i grappoli di che si spreme il Chianti. Donna assai caritatevole ai poveri, ai derelitti, ricca cioè di cuore oltreché, dopo il matrimonio, di un apprezzabile censo, non esitò, quando l'occasione le si presentò, a toglier Niccolò da qualche imbarazzo di denaro. (L'esilio è tutto un ca!-
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