Era assolutamente insignificante. Era ùn piccolo punto luminoso in un angolo del cielo, a oriente, blu e pallido, simile a quel lumino da notte che i malati usano negli ospedali, leggermente più grande. Ma mi sono espresso male. Non appena stabilii di cosa si trattasse esso si era già ingrandito, era diventato molto più incandescente, era grande quanto il mio pugno, e risplendeva come una lampada ad arco. Si avvicinava a vista d?occhio. All'inizio c'era silenzio, come prima di una decisione politica decisiva, quando sono in gioco la vita e la morte, e·i patiboli si stagliano nell'aria. Ma poco dopo la folla iniziò a urlare, gridava rivolta al cielo, con le braccia aperte, e poi, presa da un cieco smarrimento, si mise a fuggire nei portoni, oppure a correre a rotta di collo in mezzo alla strada, e dappertutto regnava una gran confusione, quella di una mobilitazione generale, di una rivoluzione mondiale, o di uno sciopero mai immaginato. I tram si erano bloccati. I poliziotti a cavallo avanzavano impettiti, fendendo la folla con la sciabola sguainata, ma ben presto anche loro furono inghiottiti da quella spaventosa accozzaglia, e riposero le loro armi. I camion dei vigili del fuoco e dei militari ululavano con i loro sinistri strombazzamenti, ma erano assolutamente inutili, perché nemmeno loro sapevano cosa bisognasse spegnere, cosa bisognasseproteggere, e contro chi bisognasse-combattere. Qualcuno scoprì che sui propri capelli si era posata una polvere blu, molto fine, di consistenza chimica sconosciuta, e il viso, le mani, e anche la fronte, erano diventate blu, come il misterioso corpo celeste che ormai ardeva in cielo come un piatto gigantesco. A quel punto l'emozione giunse al culmine. Tutti si guardavano i visi bluastri negli specchi e nelle vetrine. Il sole era tramontato, ma la calura non diminuiva, anzi, aumentava. Volevamo telefonare da qualche parte, ma non sapevamo dove. Le cabine telefoniche per strada erano assediate. Parlavamo tutti con qualcun ·altro. Lo stesso centralino parlava con qualcun altro, cercando di comunicare col resto del mondo, ma invano, perché non sapeva che fare. Altoparlanti gracchianti invitavano la folla alla calma. Infine apparvero nelle edicole le prime edizioni, e sventolavano, bianche come gabbiani nella tempesta. Calma, Ordine - gridavano i giornali, basandosi sulla loro antica reputazione, ma erano anch'essi travolti da una delirante eccitazione, e non potevano fornire altri consigli ai loro lettori, che quello di placare con acqua minerale l'arsura interiore, e quello di inviare comunque il canone d'abbonamento arretrato, perché il giornale, anche in circostanze di quel genere, restava il miglior regalo, l'amico più affidabile e il passatempo più nobile. Farmacisti lestofanti, che per un'intera vita non erano riusciti a smerciare i loro intrugli, spacciavano per le strade i loro rimedi antineurotici contro quella malattia che si chiamava "fine del mondo", e facevano bere ai creduli i lassativi, gli emetici, le lozioni per capelli che erano rimaste in magazzino. Alle otto di sera il direttore dell'osservatorio astronomico di Greenwich rivolse per radio un appello all'umanità. Si sforzò di conferire alle sue parole la serena dignità e il lustro propri della scienza, ma da ogni passo risultava che egli, abituato a fare calcoli su tutte le tranquillizzanti stelle del firmamento nelle loro case ordinate, e persino sulle orbite delle comete birbone ricche di sinistri presagi che volteggiano randage nell'universo, non aveva le idee chiare su quella strana cosa blu e . incandescente, su quel mostro astrale, che senza annunzi preliminari era venuto a far visita alla terra e ci minacciava tutti con la sua fatale rovina. Inutile mantenere segreto il pericolo. A mezzanotte uno scienziato parigino informò il mondo, senza troppe ambage, che era venuta l'ultima ora, e se l'avvicinamento del corpo celeste fosse proseguito con quel ritmo, e se non si trovava nessun ITORII/KOSZTOLANYI modo di bloccarlo, allora ogni forma di vita sarebbe scomparsa entro tre giorni, e la cosa migliore era di prepararci tutti a una morte comune e gloriosa. La sua opinione, che in seguito fu rivista con calcoli più precisi e confermata da un astronomo americano, venne pubblicata sui giornali in una laconica edizione straordinaria. Confesso che ormai ero oltremodo nauseato dalle lungaggini, non mi interessava più né il destino dell'umanità, né tantomeno quello della mia persona, e mi avviai verso casa stanco, estenuato. Decisi che, una volta a casa, avrei guardato in faccia la realtà. Non dovetti accendere nemmeno la lampada. Nel mio studio filtrava una luce blu, intensa come nella grotta azzurra di Capri nelle più splendenti giornate di sole. Camminai su e giù per delle ore, le mani dietro la schiena. Esitavo. Da che parte iniziare? Non avevo voglia di scrivere. A chi? e che cosa? Dovevo lasciare il testamento? Sarebbe stata una stupidaggine. Preferii bere. Possedevo un liquore olandese al cacao, che mi aveva regalato un ammiratore eccentrico completamente irresponsabile. L'avevo sempre centellinato, perché era una bevanda dal sapore prezioso, raro, che ritenevo autentica ambrosia, e che ormai era diventata quasi introvabile. Lentamente lo tracannai tutto. E questo destò nel mio cervello una fiammante lucidità. Ebbi anche voglia di mangiare. I medici, dopo gli ultimi esami, mi avevano proibito i cibi pesanti, conditi con spezie. Mi tagliai un pezzo di salame dello spessore di tre dita, così, come piace a me, e lo addentai voluttuosamente, infischiandomene delle conseguenze. Mi assalì una stupenda euforia. Ma c'era una cosa che me la fece sfumare: avevo visto di fronte a me, sulla parete del mio studio, una tela che mi guardava, col suo titolo futurista, Composizione. Era stato Pepi Welly a concedermi quell'onore. Era una persona che aveva sempre unito con successo la mancanza di talento alla pazzia. Provavo un senso di nausea viscerale per quell'imbratto, ma fino a quel momento non avevo mai avuto cuore di buttarlo nella spazzatura. Pepi Welly mi veniva a trovare di sfuggita una volta al mese, con le scuse più diverse, ma si trattava solo di una ricognizione per vedere se tenevo ancora il quadro appeso in casa. Ora, con un temperino, mi misi a tagliar quella tela in tante striscioline. L'ambiente era stato bonificato. Dopo aver sbrigato le questioni materiali mi dedicai alle cose dello spirito. Scrissi due lettere. Una la indirizzai a Katica, che aveva creduto per tutta la vita che io l'amassi. Le comunicai che non solo non l'amavo ma che non l'avrei mai amata, che la lasciavo, e che desideravo ardentemente non rivederla mai più. La seconda lettera la scrissi a Viola, dalla quale mi avevano separato mani senza dio. Le confessai che amavo solo lei, le giurai fedeltà per quei tre giorni che ancora ci restavano da vivere, e anche per l'eternità. Questo mi tranquillizzò. Feci ancora una cosa. Qualche anno prima, come sai, ricevetti duemila pengo d'anticipo da un editore farabutto, per scrivere un libro di una ventina di segnature su qualche sciocco politicante che dovevo far apparire come uno dei maggiori ingegni e una delle nature più morali del nostro secolo. Da allora, mi ero sempre portato addosso quella pastoia sferragliante e gravosa. Molte volte avevo strizzato la stilografica, quando mi erano venuti in mente lo sciocco politicante e l'impegno assunto, ma ero immediatamente costretto a temporeggiare con i miei doveri, perché sentivo il mio animo come paralizzato e non riuscivo a lavorare. Come sai, non restituii mai l'anticipo. Nemmeno nei momenti di più acuta follia potrei mai fare una cosa del genere. Forse nemmeno in sogno. Ma ora che avevo sognato la fine del mondo, lo feci. Rimandai indietro, immediatamente, l'anticipo di duemila pengo all'editore farabutto con un fattorino, e lasciai anche che costui lo destasse dai suoi sonni. SI
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