Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

TREFUNERALI Jan Kott D i nessuno di loro ero amico. E con nessuno di loro ero molto in confidenza. In qualche modo, però, tutti e tre hanno influenzato la mia vita, anche se non da vivi: furono i loro funerali che divennero delle svolte nella mia vita e sono i funerali che ricordo più distintamente delle loro stesse persone. Dei tre quello che conoscevo meno era Andrzej Stawar. Non ho mai veramente parlato con lui, certo non di questioni personali. In ogni modo, non ricordo alcuna conversazione né a Lodz, né più tardi a Varsavia quando tutti ci eravamo trasferiti nella capitale. Dobbiamo esserci cono.sciuti a Lodz, ma non a "La fucina" (Kuznica) perché Stawar non veniva mai nei nostri uffici; non può essere stato neppure al Pickwick, dove andavamo quasi ogni notte a bere vodka nei primi due im!li dopo la guerra, né alla casa editrice Czytelnik. Stawar non andava neanche lì. A Varsavia Stawar cominciò a farsi vedere nel piccolo caffè al primo piano della casa editrice sulla Foksal: era il luogo di ritrovo di tutti gli scrittori e le ragazze alla moda, senza contare un certo numero di mogli. Ma questo accadeva alla fine degli anni cinquanta; a quei tempi Stawar era già stato "riabilitato" e i suoi ultimi libri pubblicati; inoltre, compariva sulla prima pagina dei settimanali letterari ed aveva ricevuto un paio di onorificenze di Stato. Anche allora, però, non ricordo di essermimai seduto allo stesso tavolo con lui. Forse in quel caffè alla moda non c'è mai andato; forse se ne stava al bancone a curiosare fra i libri e le ultime pubblicazioni. Sì, ecco come lo ricordo, e di sicuro non eravamo a Lodz. Mi pare che avesse sempre lo stesso aspetto, che non cambiasse mai, che indossasse lo stesso impermeabile e sfoggiasse un taglio a spazzola e dei baffetti ben curati. Se ben ricordo, portava anche uno sbiadito cappello da ciclista. Sembrava molto diverso dagli altri e non faceva parte di quel caffè letterario né di luoghi di ritrovo simili. A Lodz, a una delte riunioni del comitato di redazione di "La Fucina", Zolkiewski, il nostro capo, disse: "Dobbiamo fare qualcosa per Stawar". Si era probabilmente nel '46 o nel '47. Tutti noi sapevamo che si doveva fare ~ualcosa per Stawar: non riusciva a sbarcare il lunario. Ma questo non era il problema più grave. Un paio di anni prima avevamo pubblicato i suoi lavori, ma stavano dando un giro di vite. Per mesi nessuno aveva ricevuto il permesso di pubblicarlo. Certo potevamo sempre trovargli una traduzione rapida da qualche parte, un lavoro sotto altro nome anche se era lui a prendere i soldi. Ma non erano il soldi il problema. Prima della guerra, Stawar aveva pubblicato la sua traduzione del Placido Don di Solokov e di Povera gente di Dostoevskij. Sapevamo bene che dovevamo stare attenti con Dostoevskij: era un autore non del tutto privo di rischi, ma Solokov era un classico e doveva essere ristampato. La questione era: come saremmo riusciti a fare in modo che loro mandassero giù il traduttore? Con uno pseudonimo? Anche se tutti sapevano chi aveva fatto la traduzione? "Dobbiamo fare qualcosa per Stawar". Stawar era "La leva", era "Il mensile letterario", cioè praticamente tutto quello che la critica marxista aveva fatto prima di noi. Stawar era una leggenda, perciò era anche una minaccia. Stawar era trotskista. Nessuno di noi pronunciava questo termine; ci restava in gola. Avevamo persinò paura di sentirlo. Ricordo ancora che quattro anni prima - era la fine del '41 - a Lvov, nella zona passata ai russi, avevo lavorato con un gruppo di profughi da Varsavia per salvare gli archivi del vecchio tribunale. I soldati russi li avevano praticamente distrutti nelle poche settimane in cui erano stati acquartierati in un edificio che era un antico monastero. Tiravano giù i documenti dagli scaffali e li strappavano a brandelli per farsi la carta per le sigarette. Ognuno di noi aveva circa venti chili di fogli da esaminare e classificare, un carico giornaliero che era impossibile smaltire. Per non esserci riusciti i nostri salari furono decurtati. D'inverno quasi gelavamo nel refettorio dell'ex-monastero dasto che per riscaldarci c'era solo una stufa di ferro e un mezzo secchio di carbone. Presto, però, trovammo il modo di risolvere sia il problema del freddo sia quello della quota giornaliera: ogni mattina bruciavamo nella stufa metà di quello che ci assegnavano. Un giorno trovammo un opuscolo di Trotski fra le carte: doveva venire da qualche processo contro comunisti. Avevamo terrore di toccarlo. Denunciarlo? Fu la prima cosa che ci venne in mente, ma a chi? Portarlo alla NKWD? Un rischio tremendo. Cj guardammo in faccia e senza una parola lo gettammo' nel fuoco. · "Dobbiamo fare qualcosa per Stawar", aveva detto Zolkiewski, ma cosa? Era abbastanza facile trovare a Stawar qualche lavoro, ma che cosa potevamo fare con "Il mensile letterario" e "La leva"? Fin dal primo numero de "La fucina" avevamo compiuto una ricerca ostinata di quello che allora si chiamava "il filo rosso" della storia e della.letteratura polacca, cominciando con i giacobini di Varsavia e "La fucina" di Kollataj. Da lì era stato preso il nome del giornale. L'autore del suggerimento doveva essere Wladislaw Bienkowski: Io ricordo fin dagli anni Trenta durante i comizi all'Università di Varsavia, un oratore splendido, appassionato. Butterato in viso, sbatteva i pugni sul podio e si definiva giacobino di Varsavia. Da quel punto di vista, i giacobini erano esenti da rischi. Nessuno si metteva nei guai con i censori per quello: i giacobini significavano la Rivoluzione francese, le manifestazioni di massa a Varsavia nel 1794 durante la rivolta di Kokiusko, le forche per i tirapiedi di Mosca: vescovi e magnati. Con l'imperatrice Caterina, insomma, ci si poteva giocare. • Ne "La fucina" scrivemmo dei decabristi russi del 1823e dei loro amici polacchi. Scrivemmo dei democratici rivoluzionari con rispetto ed entusiasmo; tuttavia, adeguandoci alla linea degli "studiosi di letteratura" sovietici, ponemmo in risalto i pregiudizi ereditari e l'utopismo della loro provenienza nobiliare. Scrivemmo dei "rossi" in entrambe le insurrezioni polacche e anche dei Comunardi polacchi e del primo "Proletariato", cioè fino alla rivoluzione del 1905. Da lì cominciava la nebbia e, più oltre, l'abisso. "La leva" apparve dal 1927-28.Non avevo ancora quattordici anni a quel tempo e non l'avevo mai letta. È possibile che Wladislaw Broniewski me l'abbia mostrata, una volta, perché le sue prime poesie apparvero lì nei primi anni Trenta; io ero al secondo anno di legge e seguivo Broniewski come un cagnolino dovunque andasse: conoscevo metà delle sue poesie rivoluzionarie a memoria. Gli articoli di Stawar erano pubblicati ne "La leva", e doveva essere membro del Partito, allora. Anche Szczuka, l'architetto e pittore visionario, scriveva per la rivista. A quei tempi il costruttivismo astratto dell'avanguardia coesisteva agevolmente con la rivoluzione e la nuova visione del mondo che questa comportava. "Il mensile letterario" fu la continuazione de "La leva": lo dirigeva Alexander Wat ma era Stawar che conferiva alla pubblicazione il suo peso e il suo orientamento. Leon Schiller, il più grande dei registi di allora, creatore del monumentale teatro polacco, il designer e ·pittore WladislawDaszewski si unirono al vecchio gruppo de "La leva", i vari Stande, Broniewski e Hempel. "Il mensile" fu pubblicato dal 1929al 1931. lo ne ignoravo l'esistenza ma Czeslaw Milosz, maggiore di me di soli tre anni, lo leggeva e ne era in qualche modo affascinato (ne parla nel suo dialogo con Alexander Wat ne Il mio secolo): Milosz non era commosso dalle poesie, dalle opere letterarie o dalla critica marxista, ma·dai rapporti documentati sulla miseria e lo sfruttamento dei contadini che venivano pubblicati con 33

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==