MAGGIO 1988 _\JUMERO 27 LIRE6.000 mensile di storie, immagini, discussioni j, 'I.
di Margarethe von Trotta con Fanny Ardant, Greta Scacchi, Valeria Golino, Peter Simonischek, Sergio Castellitto, Agnes Soral, Paolo Hendel Soggetto e sceneggiatura di Dacia Maraini e Margarethe von Trotta Prodotto da Angelo Rizzoli Produttore esecutivo Romano Cardarelli Una coproduzione italo-franco-tedesca - Erre Produzioni Roma, Reteitalia Spa, Bioskop Film Gmbh Munchen, Cinemax Paris UNA COPRODUZIONE
LEGANAZIONALECOOPERATIVEMUTUE DIPARTIMENTOPOLITICADELL'IMPRESA ASSOCIAZIONENAZIONALEDELLECOOPERATIVE CULTURALI t \ \ \ / / I I \ _,,,, --- \ \ LEGAECULTURA Roma 70-71giugno 1988
TaharBenJelloun Nottefatale Nel romanzo che ha vinto il Premio Goncourt 1987, la storia di Ahmed, nato femmina dopo sette sorelle e cresciuto come maschio per volere del padre, conosce uno sviluppo imprevedibile. A cura di Egi Volterrani. «Supercoralli», pp. 165, L. 18 ooo MargueriYteourcenar MemorideiAdriano seguitdeaiTaccuindiappunti In edizione tascabile uno dei grandi romanzi dei nostri anni. Con un saggio in cui Lidia Storoni Mazzolani, traduttrice d'eccezione, traccia un ritratto inedito della Yourcenar. «Gli struzzi», pp. 333, L. 16 ooo JoséMariaArguedas Festadisangue Nel primo romanzo di Arguedas lo scontro fra l'antica civiltà india e i grandi pr6prietari terrieri. A cura di Antonio Melis Traduzione di Umberto Bonetti. «Nuovi Coralli», pp. 191, L. 14 ooo RaymonQdueneau Piccolcaosmogonpioartatile Un moderno Lucrezio tradotto da Sergio Solmi e presentato da Italo Calvino. «Gli struzzi», pp. vn-187, L. 12 ooo JonathaSnwift Scrittsiatiriceipolemici L'Umile proposta e le altre paradossali invenzioni dello Swift polemista. A cura di Herbert Davis. Traduzione di Antonio Meo e Alberto Rossatti. «Nue», pp. xxvn-428, L. 26 ooo Einaudi Grimmelshausen Vitadell'arcitruffatrice evagabondCaoraggio In un capolavoro della letteratura barocca tedesca, una donna conduce la sua guerra privata contro l'altro sesso. Traduzione di Italo Michele Battafarano e Hildegard Eilert. «Gli struzzi», pp. x1v-160, L. 12 ooo AlbertAosorRosa Scrittoeripopolo Il populismo nella letteratura italiana contemporanea. Ritorna con una nuova introduzione il libro che ha anticipato il '68. «Gli struzzi», pp. xvrn-364, L. 20 ooo VladimJira.Propp Comiciteàriso Letteratueravitaquotidiana L'uomo ride. Ma perché, e di cosa? Per la prima volta in traduzione italiana la teoria proppiana della comicità. A cura di Giampaolo Gandolfo. «Paperbacks», pp. vrn-213, L. 20 ooo LudovicZoorzi Carpacceiolarappresentazione diSant'Orsola Attraverso una lettura puntuale del famoso ciclo veneziano di Sant'Orsola, Zorzi studia come Carpaccio abbia rappresentato la centralità dello spettacolo nella vita cittadina del Quattrocento. «Saggi», pp. x1v-220con 69 illustrazioni fuori testo, L. 42 ooo PierreHadot Esercizsipirituaelifilosofia antica La filosofia classica interpretata non come costruzione di un sistema di pensieri ma come esercizio attivo di conoscenza, invito a trasformare se stessi. Traduzione di Anna Maria Marietti. «Biblioteca di cultura filosofica», pp. xn-172, L. 24 000 MassimMoila LetturdaelDonGiovanni diMozart « ... Via via che leggevo il commento al capolavoro mozartiano contenuto nel libretto del programma, ero sempre piu preso dalla sua profondità e limpidezza e solo alla fine vidi che era firmato da Lei e capii allora quanto la mia ammirazione fosse giustificata» (da una lettera di Piero Calamandrei, 1953). «Pbe», pp. v-264 con 27 esempi musicali, L. 16 000 DonaldN.McCloskey Laretoricdaell'economia Scienzealetteratunraeldiscorseoconomico ll dibattito scientifico è in realtà una gara di persuasione o un problema di eloquenza? Un provocatorio «manifesto» contro il metodo dell'economia positiva. Introduzione di Augusto Graziani. Traduzione di Bianca Maria Testa. «Nuovo Politecnico», pp. XIV-314, L. 22 ooo MarceRl oncayolo Lacittà Storia e problemi della dimensione urbana: la metropoli alle soglie del duemila. «Pbe», pp. vrn-150, L. 12 ooo
Direttore Goffredo Fofi Direzione editoria/e Lia Sacerdote Gruppo redazionale Adeli11aAletti, GiancarloAscari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli,Paolo Bertinetti,Gianfranco Bettin, Franco Brioschi,Marisa Caramella, Cesare Cases, SeverinoCesari, Grazia Cherchi, FrancescoCiafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, VincenzoConsolo, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, PiergiorgioGiacché, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lerner, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, AntonelloNegri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli,Bruno Pischedda, Alessandra Riccio, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore,Gianni Turchetta, Emanuele Vinassade Regny,Gianni Volpi. Progetto Grafico Andrea Rauch/Graphiti Ricerche iconografiche Carla Rabuffetti Pubblicità settore editoriale Emanuela Merli Via Giolitti, 40 - 10123Torino Te!. 011/832255 Hanno inoltre collaborato a questo numero: Pasquale Alferi, Filippo Azimonti, Massimo Bacigalupo, Francesco Cavallone, Roberto Cazzola, Vincenzo Cottinelli, Giorgio Ferrari, Carlo Ginzburg, Regina Hayon Cohen, Peter Kammerer, Barbara Lanati, Alfredo Lavarini, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Paolo Mereghetti, Grazia Neri, Emanuela Re, Stefano Velotti, Itala Vivan, le case editrici Coliseume E/O, il Consolato di Bulgaria e la libreria La Nuova Corsia di Milano. Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizione e montaggi multiCOMPOS snc Distribuzione nelle edicole MessaggeriePeriodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzione nelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Te!. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensile di storie, immagini, discussioni Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo lll/700Jo Numero 27 - Lire 6.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: 1T ALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscritti non vengono restituiti Si risponde a discrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. N.B. Di alcuni testi non abbiamo rintracciato i detentori dei diritti. Ce ne scusiamo, pronti ad ottemperare ai nostri obblighi. llNEDA'OMBRA anno VI maggio 1988 numero 27 EDITORIALI 4 7 IO Joaquin Sokolowicz Gianfranco Bettin Marcello Flores Accade in Israele I nostri debiti col mondo Noi e Gorbaciov IL CONTESTO 12 Consigli/Sconsigli (G. Cherchi su J. Trifonov ecc.); Confronti (M. Caramella su Margaret Atwood, Péter Esterhdzy: Curriculum vitae); Corrispondenze (M. Maffi da New York); Cinema (G. Volpi su film americani recenti); Musica (A. Baricco su Purcell e Haydn, M. Lorrai su varia musica austera); Televisione (O. Pivetìa sui Perry-Mason dal vivo); Antologia (E. Zola sul "problema dei giovani ~crittori", Due poesie di C. Milosz, Consigli ai servi di J. Kolar). POESIA 52 53 63 Dezsd Kosztoldnyi Michail A. Kuzmin Wallace Stevens Wilma Stdckenstrdm STORIE 23 24 28 30 46 50 64 Heiner Mi.iller Helga Schubert Christoph Hein Marek Hlasko Juozas Aputis Dezsd Kosztoldnyi Denise Levertov INCONTRI 42 61 Pavel Kohout G. Panfilov, A. Cervinskij, M. Ul'janov SAGGI 33 40 70 72 Jan Kott Bohumil Hrabal Manuel Rivas Gianni Turchetto Due poesie La trota spezza il ghiaccio a cura di Pia Pera Del tempo e della scelta ideale Due poesie Tre pezzi brevi Cortili interni La tomba di famiglia Il mese della Madonna La fattoria solitaria Fine del mondo Un sogno Lontano da Praga a cura di Margherita Be/ardetti La storia di uno scrittore Tre funerali Perché scrivo La generazione bonsai Esordienti. L'importanza di essere giovani NARRARELASCIENZA 67 78 79 Christoph Ti.ircke La filosofia ancella della burocrazia Promemoria Gli autori di questo numero La copertina di questo numero è di Daniele Scàndola (distr. Storiestrisce)
DISCUSSIONI/SOKOLOWICZ ACCADEINIIRAELE Joaqu{n Sokolowicz "Dopotutto, è vostra la colpa dell'avanzata della destra in Israele". Rivolta a ospiti stranieri, sembra una battuta di spirito questa frase che Jeoshùa fa scivolare nella conversazione nel suo piccolo appartamento di Gerusalemme. I vecchi amici, ebrei argentini in visita, sono preoccupati per quanto sta accadendo da queste parti. Jeoshùa sorride, come faceva da giovane a Buenos Aires anche per addolcire le parole più dure. Queste di adesso, in ogni caso, non sono un rimprovero ai compagni di un tempo nella lotta per il comune ideale sionista-socialista perché rimasti dov'erano allora. Pura riflessione, come tante altre che si accumulano nella testa con gli anni che passano. Militante del Movimento "Mapam" - la corrente marxista all'interno del sionismo -, in Israele fin dall'inizio degli anni '50, un titolo di avvocato rimasto oltreoceano, vent'anni in un "kibbutz" con la moglie a occuparsi di polli e di aranceti, il trasferimento in città dietro l'impulso di un 'antica vocazione artistica poi di nuovo accantonata, l'attuale impiego pubblico che gli ha consentito di restare nella magia di Gerusalemme. Oggi, legge i classici, si tiene informato sulle tendenze pittoriche nel mondo, partecipa alle manifestazioni di "Shalom Ahshav" (Pace subito). Conosceva il giovane pacifista Grunzweig, ucciso da una pallottola sparata dal gruppo di destra che manifestava anch'esso davanti alla presidenza del Consiglio. Gli israeliani giunti in questa terra per scelta o perché sopravvissuti al genocidio europeo non sono più la maggioranza. Generazioni nuove e mutamenti nel flusso immigratorio hanno modificato il quadro demografico. La "riunione delle diaspore", con il passare degli anni, è andata avanti da una parte sola. Ebrei acculturati, senza professione né mestiere, religiosi, animati da forti rancori verso il mondo arabo dal quale per lo più provengono, hanno assunto un peso crescente. Nelle urne, undici anni fa, sconfissero l'establishment in sella fin dall'indipendenza, costituito dai ceti medi, colti e laici. Gruppi della destra oltranzista e fanatici che strumentalizzano la carta religiosa (sono laici molti militanti del "Gush ' Emunim", il Blocco della fede) calamitano questo settore dell'elettorato, a cui si appellano anche nazionalisti aspiranti alla guida del paese. La democrazia israeliana, tradizionalmente esemplare, è esposta ai pericoli rappresentati - ovunque - dal fanatismo per i sistemi civili. Seduti nel salotto del villino in cui vivono dal '48, allorquando fu loro affidato appena arrivati dall'Europa, Hana e A vraham appaiono invecchiati. Indifferenti alla bellezza delle colline che s'intravvedono dalla finestra, sulle quali è 4 posata la cittadina di Kyriath Tivòn, aNord di Haifa, leiparla lentamente dei suoi dolori alla schiena e del nipotino appena nato. A vraham non interviene. Saranno le malattie, forse, ad avere così cambiato il carattere di questo uomo che ancora un anno fa rispondeva con una valanga di parole entusiaste a qualsiasi sollecitazione di discorso. Il suo entusiasmo per ogni cosa che lo riguardava - diceva lui stesso - era vivo da quando, poche ore dopo avere messo piede nel porto di Haifa, gli diedero un fucile e lo mandarono al fronte "come un vero soldato". A vraham non si faceva pregare se gli chiedevano di raccontare qualche episodio della sua passata epopea in Polonia. Lanciatosi dal treno merci che dal ghetto di Bialystok portava alle camere a gas di Treblinka - dopo che aveva colpito con una chiave inglese tenuta in tasca il militare tedesco sorvegliante del vagone e convinto un paio di uomini a seguirlo -, comandò un gruppo di partigiani per parecchi mesi. Conobbe Hana, poco più che un 'adolescente, in mezzo a un bosco dove si era nascosta, appena sfuggita al massacro dellafamiglia nel villaggio Jashinovka. Dopo la guerra, l'internamento in un campo rifugiati dell'Italia settentrionale, la nave verso la "terra promessa" e la ricacciata indietro per il rifiuto inglesedi autorizzare lo sbarco, mille disagi in un campo per rifugiati a Cipro e, finalmente, l'arrivo in Israele. Hana e A vraham erano stati simpatizzanti del/' "Ahduth A vodà", il partito socialista che finì per confluire tra il laburisti come corrente, ma negli anni scorsi parlavano con ammirazione del primo ministro dell'epoca, Begin: sarà stata l'influenza dei due figli divenuti sostenitori del capo nazionalista. Adesso, seduti nel salotto, lui tace e lei, con un tono grave mai usato quando ripeteva le informazioni asc.oltate alla televisione solo per mostrarsi aggiornata, dice: "Chissà se il governo sa quello che deve fare. Speriamo". I laburisti pagarono nelle urne, nel '77, il costo delle rivalità intestine e la carenza di proposte politiche da parte di quelli che erano gli eredi dei padri fondatori. In Israele è sempre stato particolarmente sentito il bisogno di leaders. Anche la destra, in questi ultimi anni, è stata investita dalla crisi di dirigenti. Menahem Begin vinse le elezioni della seconda metà degli anni '70, tra l'altro, perché era un superstite della prima generazione; inoltre, al di là dell'oratoria trascinante e densa di richiami ad antiche glorie conquistate dagli èbrei, aveva dimostrato il senso dello Stato: avversario duro dello storico leader laburista David Ben Gurion e da questi attaccato spesso in termini sprezzanti, non esitò in un momento di emergenza nazionale a proporre il ritorno di quel1'ormai anziano artefice dell'indipendenza alla testa del governo. Ritirato Begin dalla vita pubblica, verosimilmente perché sentitosi ingannato dai suoi strateghi militari sui veri scopi e sui risultati dell'invasione del Libano, la successione è tuttora oggetto di ambizioni contrastanti. Shamir, l'attuale primo ministro della coalizione detta '' di unità nazionale" (anche se spaccata in pratica dalla contrap-
DISCUHIONI/SOKOLOWICZ L'attuale rivolta contro l'occupazione israeliana nella striscia di Gaza e in Cisgiordania configura in sé l'identità di un popolo. Considerarla mera alterazione di ordine pubblico significa negare la sua legittimità politica, oppure è frutto di miopia. li dominio su una popolazione deforma i dominatori. posizione fra nazionalisti-conservatori e laburisti), fu un oppositore strenuo del trattato di pace con l'Egitto perché contrario alla restituzione a questo paese della penisola del Sinai. Sharòn, l'ex generale autore dell'avventura libanese, che si era arrampicato ai vertici della destra dopo avere tentato invano di farsi una carriera a sinistra, mise in evidenza tutta la sua pericolosità nel discorso di congedo ai collaboratori del Ministero della Difesa allorché fu costretto da Begin a lasciarne la guida in seguito alle conclusioni dell'inchiesta sulla strage di palestinesi nei campi di Sabra e Chatila, nel Libano: sostenne in quell'occasione che si doveva consolidare il dominio sul territorio libanese, che bisognava recuperare il Sinai, essere preparati per una guerra a suo dire probabile con la Giordania, tenersi pronti per respingere prevedibili attacchi dei restanti regimi arabi del versante orientale ... David Levi è un altro aspirante ben piazzato: originario del Marocco, ricorre senza pudori a mezzi anche grossolani della demagogia di facile presa sull'elettorato la cui sensibilità e i cui gusti conosce bene. Alcuni commentatori della stampa israeliana chiamano "peronisti" Sharòn e Levi, per il populismo sul quale entrambi fanno leva. Loro due, nell'area del potere, sono interlocutori assidui dei coloni degli insediamenti nei territori occupati e degli oltranzisti di destra raggruppati nel partito "Tehyìa" (Rinascita), che ha fra i suoi dirigenti l'ex generale Eytan, già capo di stato maggiore dell'impresa libanese. Anche Shamir, certo, è un attento ascoltatore dei reclàmi e pretese della stessa provenienza. Non vuole perdere colpi nella gara con gli avversari di partito, mentre ha ormai vanificato tutti i risultati positivi raggiunti dal predecessore alla guida del governo, il laburista Peres, durante i primi due anni della stessa coalizione. Soprattutto, si è di nuovo radicalizzato il dibattito nella società israeliana. Contrasti e scontri si riflettono all'interno dell'esercito, così com'era già avvenuto durante l'occupazione del Libano. "Ogni volta che erano stati chiamati in guerra, nel passato, i nostri uomini sapevano di avere ricevuto l'ordine perché non c'era altra scelta possibile, perché tutte le altre alternative erano state tentate". Non è più, oggi, come ai tempi così ricordati da Ezer Weizman. Una volta, l'istituzione militare era un fattore e un simbolo dell'unità nazionale. Weizman è nato in questa terra; suo zio è stato il primo presidente di Israele. Di idee liberali in economia, sulla scena politica fu a lungo un "f ateo" senza esitazioni. Comandante dell'Aeronautica fino a pochi mesi prima della "guerra dei sei giorni", decisa praticamente in poche ore di quel giugno '67proprio dall'aviazione, popolare per la brillante carriera sotto le armi, Weizman accettò le sollecitazioni di Begin perché entrasse nel partito nazionalista "Herut", del cui primo governo divenne ministro della Difesa. Segnato profondamente dalla visita di Sadat a Gerusalemme - una sorta di rivelazione-, contribuì al raggiungimento dell'accordo con il presidente egiziano. Poi, in contrasto con il primo ministro circa la politica verso il mondo arabo, lasciò il governo. Dopo alcuni anni di silenzio, pubblicò un libro: La battaglia per la pace (edito in Italia da Sperling e Kupfer). Sulle possibilità di arrivareallapace con gli arabi - vi si legge - "non avevamo mai riflettuto a fondo". E anche: "Molti dei miei compatrioti vanno in tilt ogni volta che si parla dei palestinesi come eventuali negoziatori (... ) Per anni si è trattato di 'noi o loro'. Ritornato alla politica con un piccolo raggruppamento di centro ultimamente confluito nel Partito laburista, l'ex generaled'aviazione è oggi ministro senza portafoglio e un sostenitore appassionato del bisogno di trattative israelopalestinesi per un compromesso tra quelle che nel libro definisce "due giuste cause". L'attuale rivolta contro l'occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania configura, in sé, l'identità di un popolo. Considerarla mera alterazione di ordine pubblico significa negare la sua legittimità politica oppure è frutto di miopia. In ogni caso, aberrante è il ricorso alle punizioni fisiche, minacciano il sistema democratico della nazione occupante i provvedimenti repressivi nei confronti di intere popolazioni, feriscono gravemente la comunità civile israeliana gli spari delle armi scaricate dai fanatici coloni degli "insediamenti". La miopia risale al momento dell'occupazione stessa di quei territori, ottenuta con la vittoria della guerra del '67. Una riduzione di raggio ottico provocata da cause profonde, favorita da fattori incidentali e incentivata da irrigidimenti dovuti a sviluppi internazionali avversi. Dopo un ventennio di rifiuti arabi, di armistizi violati dalla controparte, di attacchi terroristici, il trionfo sull'offensiva concentrica che appariva decisiva per la sopravvivenza del piccolo Stato rappresentò un evento liberatorio. Un fatto incidentale fu la morte del primo ministro Eshkol poco dopo la guerra: Golda Meir, ereditata la carica senza essere all'altezza del compito in quel frangente, non seppe o non volle frenare l'euforia divenuta ebbrezza nazionale. All'esterno, infine, il "raìss" egiziano Nasser trasse dalla sconfitta rinnovata forza per imprimere in campo arabo e nel movimento dei paesi nonallineati una sterzata ulteriormente antiisraeliana. Il dominio su una popolazione - si sa - deforma i dominatori. C'è una concatenazione naturale tra "l'ondata di nazionalismo che sommerse l'intero paese" con cui "il misticismo nazional-religioso divenne una carta politica" (Weizman) e le botte meticolose a scopo di frattura per prevenire dimostrazioni, o l'arresto di intellettuali, passando per la confisca di terre e le provocatorie installazioni dei coloni israeliani nel cuore di antichi centri arabi. Ormai vengono espulsi abitanti dei territori anche se non terroristi e fatte saltare case con la dinamite non perché rivelatesi covi per azioni armate ma come vendetta contro gente inerme. L'assenza di lungimiranza sotto l'incalzare condizionante di moti espansionistici è considerata una "malattia" da Jean Daniel, ebreo, direttore del settimanale francese "Le s
DISCUSSIONE/SOKOLOWICZ Nouvel Observateur". La malattia, beninteso, non riguarda un'intera nazione. Sono i sistematici sostenitori della "diversità" di Israele a insistere sulla tesi della malattia che investirebbe tutta la sua società. Non produrebbe anticorpi un organismo a tal punto compromesso: sono israeliani i tormentati partecipanti che divide, i crescenti settori e correnti che reclamano negoziati per mettere fine alla rivolta, i fautori del riconoscimento del diritto palestinese all'autodeterminazione. Settori minoritari e tuttavia sempre più numerosi. Quanto al paese "diverso", è davvero difficile riscontrare qualcuno che non lo sia per specifici motivi. Israele ha sempre fatto tutto per essere uno Stato come tutti gli altri e, del resto, le circostanze internazionali l'hanno costretto a comportarsi in questo senso. L'uccisione di 6 milioni di ebrei ad opera del nazismo ha certamente rappresentato la tragica spinta che affrettò i tempi della realizzazione del focolare nazionale invocato dal sionismo, un movimento che, però, era già da decenni in azione. Secondo Furio Colombo, le resistenze a considerare Israele una nazione "normale" sono determinate dal fatto che "la cultura europea si ostina a vedere quel Paese come una discutibile opzione". Dentro Israele, ogni messa in discussione della legittimità di questo Stato favorisce naturalmente le chiusure e l'intransigenza. Gli stessi israeliani ammettono che "è più facile far uscire dal ghetto l'ebreo che non dall'ebreo il ghetto". La tesi della diversità è un'arma ricattatoria dei nemici di 6 Israele e, all'opposto, è usata come alibi dai fascisti israeliani. Paese come altri, al suo interno ci sono destra e sinistra, pacifisti e guerrafondai. Shamir si dichiara lieto di avere "allontanato il pericolo del piano Shultz", mentre l'influente laburista Eban sollecita i suoi connazionali a ''prendere atto che nell'OLP c'è stato un cambiamento" rispetto al passato rifiuto di riconoscere come una realtà l'esistenza della loro nazione. Vi sono i sostenitori dell'inutilità di un altro Stato arabo oltre alla ventina già esistente (come dire che l'Uruguay o l'Honduras non hanno ragion d'essere fra tanti paesi ugualmente ispanoparlanti), anche perché già la Giordania ha una popolazione in maggioranza palestinese, e vi è l'ex generale Peled che contesta come "fuori dalla realtà l'identificazione di giordani e palestinesi come un unico popolo". Certo, slogan patriottici e retorica nazionalistica hanno aperto brecce nella società israeliana. In un pericoloso fenomeno,· hanno acceso entusiasmi contagiosi tra i giovani. Gruppi oltranzisti si richiamano alla religione e vengono finanziati da associazioni degli Stati Uniti con cui sono imparentati. La pattuglia di esaltati della razzista Cahanne medita attentati come quelli che in passato mutilarono alcuni sindaci palestinesi, nella speranza di cacciare tutti gli arabi dal paese. I conservator-nazionalisti di Shamir, mentre nel governo trovano qualche alleato laburista per applicare con rigore il pugno di ferro contro la rivolta, sembrerebbero cercare diversivi - il cruento intreccio libanese ne offre pretesti con
A sinistra: foto Camera PresslGrazia Neri . A destra: foto di Gisèle FreundlGrazla Neri. facilità - per confinare i territori occupati in un piano secondario dell'attenzione internazionale. È vero che la questione israelo-palestinese è molto più complessa di quanto faccia apparire una faciloneria diffusa in Italia e che molte critiche a Israele si basano su una conoscenza superficiale della vicenda (oltre che a una sommaria, errata, nozione sul popolo ebraico come una entità di pura indole religiosa). È anche vero, come rilevano i filoisraeliani, che due terzi della terra già contesa vennero strappati dalla potenza britannica per concederli alla famiglia hascemita al fine di creare la Giordania. Vero, pure, che furono i regimi arabi a non accettare i territori oggi rivendicati per l'autodeterminazione palestinese allorquando l'ONU li assegnò a questo stesso scopo con la spartizione del '48; altrettanto vero che ai giordani, occupanti di quei territori, non si chiese mai quanto reclamato poi ai loro sostituti israeliani. E ancora: occupare una scuola elementare a Kyriat Shmona e uccidere i piccoli ostaggi non è la stessa cosa che l'agguato a qualche pattuglia militare. Buona parte della sinistra internazionale - anche questo è vero - aderì nel passato recente a un terzomondismo manicheo e semplicistico che giustificava Amin quando faceva sequestrare un aereo perché trasportava passeggeri ebrei e che trovava lecita una proposta di espellere Israele dall'Unesco mentre vi sedevano il Paraguay di Stroessner e l'Haiti di Duvalier. Nella sinistra europea è penetrata molta merce di contrabbando tra le pieghe del '68, compresi molti adepti del cattocomunismo che scoprirono nuovi stereotipi per un antisemitismo da cattolicesimo tradizionale. Questi fatti - comprensibili, alcuni, se collocati nel corrispondente contesto storico - sono veri quanto quelli sintomatici dei cambiamenti avvenuti in Israele. D'altronde è chiaro che nessuna colpa viene legittimata dall'esistenza di colpe altrui. Israele, 40 anni dopo, non è lo stesso. Non più tutti i generali sono archeologi o agricoltori costretti loro malgrado a impugnare le armi. "Sharòn ha perduto la capacità di distinguere tra il suo interesse personale e l'interesse dello Stato", ha avvertito Weizman. Spesso, proposte politiche e strategiche poggiano su tentazioni di dirigenti avventurieri che hanno poco a che vedere con bisogni reali. La rivolta palestinese segna, forse, l'ora della verità. Impone agli israeliani scelte precise. I governi laburisti hanno seguito in passato la linea del né-guerra-né- pace e la destra ha sempre voluto' rendere irreversibile l'occupazione. Si trovano gli interlocutori, quando prevale la volontà di negoziare. "Kenyatta era stato un terrorista, prima di diventare uno dei migliori presidenti che l'Africa abbia conosciuto", va ripetendo Arie Eliav, che si è incontrato diverse volte con il leader palestinese Yasser Arafat ed è da poco rientrato nelle file laburiste, dopo avere lasciato anni fa il posto di segretario e interrotto una sicura carriera ai vertici dello Stato perché in contrasto con le posizioni maggioritarie nel Partito sul futuro dei territori occupati. Le spinte della destra e degli irresponsabili di vario tipo DISCUSSIONE/BEfflN minacciano di provocare esplosioni sempre più violente, a catena. Di generare un secondo Sudafrica, in riva al Mediterraneo, su un fazzoletto di terra. Di alterare profondamente la democrazia e il carattere civile di Israele. I NOSTRIDEBITI COLMONDO Gianfranco Bettin Fine dei viaggi Non è mai stato così piccolo, il mondo, e così affollato, così esposto alla nostra curiosità e al nostro consumo. Il dif- . fuso benessere del Nord del pianeta e la concorrenza fra le agenzie turistiche e fra le compagnie aeree, abbattendo i prezzi dei viaggi, portano ognuno di noi, volente, ovunque, mentre l'invadenza del medium televisivo introduce nelle nostre case qualsiasi luogo del mondo, a ogni ora del giorno (grazie alla concorrenza tra i network). Per completare il quadro, oltre alle serate tra amici a base di diapositive e film video, un'incredibile quantità di riviste di viaggi (combinate a una fiorente industria porno-ecologista, che fruga ogni recesso delle più svariate specie animali e vegetali e le esibisce su carta patinata), trasporta il nostro sguardo a spasso nel villaggio globale. Come spesso accade in questi casi, la massificazione lungi dal produrre un reale aumento della conoscenza e della consapevolezza dei limiti, della fragilità e della varietà del mondo, sembra invece la fonte di un appiattimento ulteriore dell'esperienza, che si trascina oltre tutte le frontiere possibili con la stessa immutata miseria che la distingue al paese. Nel frattempo, però, si accresce la spocchia del turista-viaggiatore, con l'effetto di estendere al mondo intero il riferimento geografico della battuta di Totò: "Sono un uomo di mondo: tre anni di militare a Cuneo!". Non è un fenomeno nuovissimo, anche se negli ultimi tempi si è accentuato. Lo notava già, più di trent'anni fa, Claude Lévi-Strauss, viaggiatore, esploratore e studioso infaticabile, ma nauseato dai "professori" e dai "turisti con fotocamera", al punto da intitolare "Fine dei viaggi" il capitolo iniziale di un libro di viaggi straordinario, e mai abbastanza riletto e ripensato, Tristi tropici. Ciò che di nuovo è accaduto, di recente, è che ci si sta accorgendo di avere esagerato. Non solo esagerato con i viaggi (di questo, anzi, non si ha molta voglia di accorgersi), ma con gli effetti, diciamo così, laterali del sistema di produzione e di consumo che fornisce la base strutturale ai grands tours di massa (effetti che ormai stanno non solo di lato, ma sopra, sotto e finanche dentro di noi). Lo stato delle cose Durante ogni anno scompaiono alcune migliaia di specie animali e vegetali; circa 11 milioni di ettari di foreste tro7
DISCUSSIONI/BlfflN picali (che rapprèsentano la nostra maggiore riserva di ossigeno); e più o meno 26 miliardi di tonnellate di humus, quel leggero strato di sostanza organica che rende fertili i terreni formatosi nel corso lentissimo delle ere geologiche. In compenso, ogni anno, si formano 6 milioni di ettari di nuovo deserto, mentre nell'atmosfera si addensano 5 mi- .liardi di tonnellate di carbonio che, combinate con gli effetti del disboscamento, diventano 7, più di 100 milioni di tonnellate di zolfo e decine di milioni di tonnellate di ossido di azoto. Sono alcuni dei dati relativi alle nostre "esagerazioni", contenuti in un testo che ha appena fatto molto scalpore, il Rapporto della Commissione Mondiale per l'ambiente e per lo sviluppo (pubblicato in Italia in due versioni: State of the world, Isedi, e Il futuro di noi tutti, Bompiani). La deforestazione, l'effetto serra, il buco nell'ozono, l'inaridimento dei suoli, insieme all'incontrollato incremento demografico e all'iniqua distribuzione di redditi e risorse, rappresentano i principali punti critici segnalati dal Rapporto, in una sorta di mappa deU'Apocalisse in atto. Il Rapporto è tutt'altro che il frutto di un gruppo di lavoro composto da Verdi fondamentalisti. È, anzi, discutibile infine proprio per una certa mancanza di radicalità, per la sua prudenza nel tirare le somme e le lezioni di tanto disastro. Tant'è che si schiera decisamente per un nuovo matrimonio tra industria e ambiente, sia pure pensando a quello che definisce "sviluppo sostenibile", un concetto che, in mancanza di precisazioni convincenti, sembra più rivelare una persistente fiducia illuministica, nelle magnifiche e progressive sorti della tecnologia e del capitale più intelligente. E tuttavia il Rapporto ha fatto centro, colpendo in profondità, a differenza di altre volte, e anche se solo temporaneamente, l'opinione pubblica internazionale. Certo, niente avviene per caso, e vi sono stati eventi che hanno predisposto a una maggiore ricettività verso questi temi perfino i più spensierati tra i terrestri, e basta forse citare solo Cernobyl. Così, ci troviamo ora alle prese con una specie di fine del mondo serpeggiante fra di noi, e su di noi incombente, proprio mentre pensavamo di esserci impadroniti di ogni lembo della terra, animali e piante e popoli "arretrati" compresi, posti a far da sfondo o da soggetto (nel migliore dei casi) nelle nostre diapositive. · L'albero e i suoi custodi "Tentiamo di proteggere l'albero, e dimentichiamo che è lui che protegge noi" ha scritto Carlos Drummond de Andrade nel suo Dizionario (cfr. "Linea d'Ombra" n. 24), cogliendo forse l'essenza autentica delle preoccupazioni "ecologiste" di tanta parte del mondo occidentale, impregnate di grandeur tuttora, ancorché un po' scosse dai piccoli e grandi disastri quotidiani. L'albero, cioè uno dei pochissimi veri custodi della vita sulla terra, specialmente laddove si concentra in grandi foreste. Insidiate in tutto il mondo O$gile foreste corrono gravi 8 pericoli. Non solo le piogge acide - pericolo attivo soprattutto nel Nord del mondo (il 22% delle foreste europee di conifere sono ammalate) - ma, di più, l'accelerato consumo per ragioni economiche le minaccia, così come la stessa minaccia - l'esaurimento, la consunzione - incombe sui terreni fertili del Sud. Da almeno quindici anni la spinta al consumo accelerato delle grandi risorse naturali dei paesi del sud del mondo proviene da un meccanismo perverso e micidiale che regola l'economia mondiale, e strangola questi paesi costringendoli a pagare interessi enormi e crescenti sui prestiti ottenuti da quelli più sviluppati allo scopo di finanziare la propria "crescita". In realtà, i debiti non hanno fatto altro che incatenare questi paesi alla dinamica selettiva e spietata dell'economia capitalistica, regolata da organismi come il Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, nonché dalle Banche e dai Governi delle aree forti del pianeta. In termini economici, i debiti inizialmente contratti dai Paesi in via di sviluppo sono, in realtà, già stati pagati (e forse più volte ormai), ma la spirale degli interessi (agganciata a clausole e procedure da usura) costringe a continue rinegoziazioni del debito. E i nuovi debiti sono contratti quasi esclusivamente per pagare gli interessi dei debiti precedenti, in una sorta di circolo vizioso che ne contiene, concentrico, un altro: lo sfruttamento intensivo delle risorse, da commercializzare a ritmi sempre più vertiginosi, e spesso a prezzi di rapina, imposti dal mercato internazionale. Così, i popoli che avevano sempre vissuto dei frutti dei maggiori serbatoi naturali di risorse, e li avevano custoditi e amministrati in cambio di questa "protezione'' (come la chiamerebbe Drummond de Andrade), sono oggi spinti a bruciare, letteralmente, questo patrimonio. E cosa potrebbero fare, del resto? L'alternativa è semplicemente quella di morire di fame, strangolati dalla miseria imposta dal Nord. Su questi temi si sono svolti di recente, a Milano e a Roma, due importanti convegni. Il primo, "Urihi - I custodi della terra", ha posto l'accento sulla condizione dei popoli nativi minacciati di estinzione in molte parti del pianeta, sul loro diritto alla cultura e alla vita (lanciando, tra l'altro, l'idea di una campagna finalizzata a contestare le celebrazioni del cinquecentenario imminente della conquista dell'America). Il secondo convegno, "Nord-Sud, Biosfera, Sopravvivenza dei popoli, Debito estero", proponeva un intreccio di tematiche, tutte, a loro modo cruciali e un incontro di soggetti: ecologisti, membri di organizzazioni non governative di solidarietà e di cooperazione internazionale, sindacalisti, volontariato. Il punto di partenza della riflessione proposto al convegno (e delle iniziative collegate) consiste nel riconoscimento del "comune debito ecologico" che unisce le popolazioni di ogni angolo del pianeta, e, da parte del Nord, della politica di sfruttamento e di rapina perpetrata ai danni del comune patrimonio naturale (della "Biosfera" in generale) e dei popoli del sud. n centro politico e concreto di questa proposta si situa, invece, proprio nel debito estero dei paesi poveri o in via di
sviluppo. Ragioni di giustizia e ragioni di tutela ambientale, non più eludibili (come anche il Rapporto citato conferma), impongono di rompere il cerchio della dipendenza economica di questi paesi, spinti a distruggere le proprie risorse a ritmi accelerati. "L'intreccio debito-ambiente", recita uno dei documenti del convegno, "rappresenta un nodo essenziale dei rapporti Nord-Sud. La Campagna ha coscientemente scelto come suo oggetto una problematica complessa che lascia certo scoperte questioni ancora non comprese o valutate sufficientemente. I problemi affrontati, d'altra parte, sono tutti urgenti e ad alto rischio e la sola presa di coscienza di tali situazioni costituisce già di per sé un obiettivo politico importante e non dilazionabile. La Campagna, tuttavia, si pone anche degli altri obiettivi: da un lato proporre e sostenere soluzioni realistiche al problema del debito, dall'altro realizzare interventi di riequilibrio ambientale. È infatti possibile concepire l'attuale livello di indebitamento dei paesi sottosviluppati come una misura dello sfruttamento economico e ambientale finora imposto a due terzi dell'umanità( ... ) La spirale del debito evidenzia e riassume molti dei sistemi di subordinazione e di drenaggio delle risorse". Questa Campagna, insomma, se saprà tener fede ai suoi presupposti potrebbe contribuire a quella radicale svolta nel modo di guardare il mondo che sempre più appare necessaria. Lo stesso Papa, nell'enciclica più recente, la Sollicitudo rei socialis, assume il nesso tra ecologia e condizione del terzo mondo come cruciale, sia pure rimanendo infine in un'ottica eurocentrica. Come spesso le succede, la Chiesa ufficiale arriva in ritardo rispetto a una consapevolezza già diffusa. Certo, però, che la strada da percorrere appare ancora lunDISCUSSIONE/BEfflN Foto di Mario Cresci. ga - e il tempo a disposizione, invece, breve - se misuriamo la portata del mutamento di mentalità e di organizzazione economica e sociale necessario. Cambiare strada, cioè: sospendere il cammino Malgrado le recenti acquisizioni (che ritroviamo sintetizzate, ad esempio, nell'Atlante di Gaia, Un pianeta da salvare, a cura di Norman Myers, Zanichelli), le principali correnti politiche, culturali, scientifiche del nostro tempo - e le ideologie prevalenti - sono ancora impregnate dello spirito di conquista verso la terra e della sicumera industrialista e scientista che tutto travolgono, i limiti (e il senso del limite), i popoli, gli scrupoli. Soltanto gli choc provocati dai cosiddetti "incidenti di percorso" - Seveso, Bhopal, Cernobyl... - hanno posto dei freni a questa corsa irresponsabile, e imposto dei parziali (minimi) ripensamenti. Ma nella Chiesa, ad esempio, la concreta, fisica comunione alla terra e alle sue risorse e creature, di un San Francesco non è stata mai altro che un'immaginetta agiografica, o poco più. E nel marxismo, la faccia pensosa e dubitante dell'ultimo, vecchio Marx, compilatore di fitti quaderni etnologici, catturato dall'idea della "lunga strada" dei tempi e ritmi naturali, impallidisce, e cede il passo a quella, accesa e agitata, che ammira ed evoca la potenza spaventosa dell'industria e delle forze produttive scatenate. Quanto alla sola, vera e unica ideologica trionfante sotto ogni latitudine ormai: il capitalismo, l' "arricchitevi!" - la vera tendenza fondamentale del nostro tempo, che non è ovviamente quella di cui si preoccupa Severino - quanto a essa, non basterebbero cento Rapporti sullo stato del pianeta commissionati ai suoi studiosi più illuminati per cancellare anche solo una minima parte degli scempi quotidianamente compiuti sulla pelle della terra e dei terrestri più deboli. Il compito di cambiare strada appare dunque, tuttora, impari, e non c'è molto da stare allegri, neppure di fronte a certi clamorosi segnali di "ravvedimento". La civiltà fabbrica entropia, scriveva ancora Lévi-Strauss, proprio sul finire di Tristi tropici e aggiungeva: "Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare 'entropologia' questa disciplina che studia questo processo di disintegrazione nelle sue manifestazioni più alte" (la cultura, la civilizzazione, ndr). Il libro si chiude con attualissimi accenti pessimistici, a questo proposito ("Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui"), ma non cede a generiche disperazioni o a vacui richiami alla comune sorte (ai "siamo tutti sulla stessa barca"). Indica invece precise responsabilità: "Per noi Europei e terrestri l'avventura nel Nuovo Mondo significa anzitutto che esso non era il nostro e che noi siamo responsabili della sua distruzione". E neppure si sottrae a un'indicazione di prospettiva, radicale: "La via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all'uomo l'unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l'impulso che lo costringe a chiudere una dopo l'altra le fessure aperte nel muro della neces9
DISCUSSIONE/FLORES sità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; possibilità, vitale per la vita, che consiste( ... ) nell'afferrare l'essenza di quello che (la nostra specie) fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d'occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un'intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto". Ma perfino questo, che è moltissimo, ci sembra a volte ancora poco, oggi, nel triste tropico del mondo. NOI EOORBACIOV Marcello Flores Il sistema politico-ideologico dell'occidente sembra fare una grande fatica ad accettare come un dato di fatto di questi anni la realtà storica del tramonto dello stalinismo. Più che un mondo da conoscere, l'Unione Sovietica ha costituito per l'occidente un mito (negativo o positivo che fosse) talmente incardinato nel proprio orizzonte politico-simbolico, da rendere assai arduo riconoscerle una esistenza propria, problemi e prospettive autonome e forse indifferenti alla sua esperienza. Due modelli di interpretazione si sono sovrapposti tra loro in questo dopoguerra, ed entrambi hanno funzionato, assieme, come guida all'analisi di quel che accadeva negli ultimi vent'anni nel cuore dell'impero orientale. I due modelli sono quello nato negli anni della guerra fredda e quello della coesistenza pacifica. Il primo pone al centro il tema della libertà e identificando l'Urss come l'incarnazione più completa di stato totalitario avvalora, per contrapposizione, il mondo occidentale come quello dell'unica democrazia possibile (e per converso l'Urss come unico socialismo possibile). Il secondo modello, apparentemente più tollerante e bendisposto, riconosce una parziale riformabilità al sistema sovietico e un suo ruolo non necessariamente aggressivo ed espansionista. Questi due modelli, che si sono succeduti nell'immediato dopoguerra, hanno teso a intrecciarsi sempre più, a integrarsi in un'unica interpretazione bifronte pronta per l'uso a seconda della fenomenologia politica prevalente nell'Urss. Oggi, così, di fronte all'era aperta da Gorbaciov, vi è ancora chi si mostra incredulo e chi più possibilista sulle reali possibilità autoriformatrici del sistema sovietico, sugli spazi di democratizzazione e di pluralismo controllato che possono essere concessi alle forze operanti nella società. Tutti, però, sembrano far risalire la tendenza alla pace e al compromesso ripetutamente caldeggiata da Gorbaciov, più che alle idealità dell'attuale leader del Cremlino al ridimensionamento dell'aggressività sovietica di cui sarebbe stato artefice Reagan con l'aiuto del Dipartimento di Stato e del Pentagono. 10 Due interpretazioni che sembravano, in passato, appartenere a periodi diversi e ad ambienti differenti (la guerra fredda e la coesistenza, l'anticomunismo viscerale e il revisionismo democratico), sono così riuscite a saldarsi in una sintesi che pretende effettivamente di aver superato, ma non espunto o rifiutato, né la tesi né l'antitesi. Una simile ottica, proprio perché riafferma e anzi rivaluta le passate analisi e i passati giudizi sull'Urss, si mostra quanto mai incapace di cogliere i fermenti storici e le questioni epocali che stanno dietro i tentativi riformatori di Gorbaciov. Il modello concettuale continua a essere di un semplicismo avvilente: le riforme economiche segnano il fallimento decennale della pianificazione sovietica e la necessità di introdurre elementi "capitalistici" per rivitalizzare l'economia, ma queste riforme a metà creeranno nuovi conflitti e contraddizioni che potranno essere superati solo dal pieno ingresso dell'economia russa nel gioco del mercato; non si potrà parlare di effettiva democratizzazione finché questa non porterà al pluralismo politico e al parlamentarismo di tipo occidentale. Ancora una volta, come dopo ma anche prima della rivoluzione, parlare dell'Urss è un modo per rassicurarsi, per convincersi vieppiù che in occidente è meglio. Come sempre, infatti, l'ottica di chi osserva è condizionata dagli obiettivi, palesi o inconsci, che si vogliono raggiungere. Superare quest'ottica sarebbe possibile solo se si abbandonasse l'intero universo concettuale che ha accompagnato tanto la guerra fredda che la coesistenza, con la sua falsa dicotomia di comunismo/anticomunismo, totalitarismo/democrazia, dittatura/libertà. In termini sempre più strumentali e spesso in malafede, prevale l'idea che i valori (in questo caso i valori della libertà) possano e debbano costituire gli indicatori e la guida concettuale per analizzare e comprendere i fenomeni politici e sociali che ci accadono attorno. È il ricatto morale insito nei termini di riferimento utilizzati (chi può mai sostenere che la libertà vada conculcata e soffocata?) che impedisce alle argomentazioni e alle analisi di percorrere una strada razionale che possa essere sottoposta al dubbio, alla critica, alla verifica. E che, parallelamente, permetterebbe ai giudizi di assumere maggior forza proprio perché non già previsti e\nteriorizzati dentro l'analisi. Per capire l'Urss c'è bisogno innanzitutto di due operazioni preliminari: accettare una visione storica di quel che è · accaduto in quel paese, che intrecci i processi interni e quelli internazionali e che sappia separare il giudizio e la comprensione storica dal rifiuto o dall'adesione politico-morale o addirittura sentimentale; mettere in discussione profonda i criteri di valutazione accettati come "naturali" e che altro non sono, quasi sempre, che l'alibi per considerare il nostro come il migliore dei mondi possibili e per difendere conseguentemente lo status quo individuale e collettivo. Una ridefinizione delle priorità anche sul terreno dei valori e dell'etica è quindi necessaria per abbandonare il quadro di riferimento falso e obsoleto utilizzato meccanicamente
ogni volta che si parla dell'Urss. Deve però trattarsi di una ridefinizione non ideologica e non astratta, che sappia calare anche il tema, certo non superato, della libertà nel concreto contesto storico che le è proprio, e che certo non è quello ottocentesco su cui ancora si continua, per malafede o per inadeguatezza, a far riferimento. Lo sforzo concettuale che è necessario per comprendere l'Urss odierna (e che può partire proprio dalla Russia di Gorbaciov poiché si tratta del fenomeno di gran lunga più importante, in prospettiva, di tutto questo decennio) è di rinnovare completamente l'approccio e il lessico dello scontro ormai consegnato alla storia tra liberalismo e marxismo. Non è certo un processo rapido né semplice: ma per aver luogo esso deve disporre di un habitat adeguato, e cioè di un atteggiamento mentale che sembra a prima vista di difficile reperimento. Il recupero, convinto e senza vergogna, di valori, ragionamenti, analisi che hanno fatto il loro tempo negli anni Cinquanta e Sessanta e che proprio alla fine di quei decenni furono messi fortemente in discussione, non è certo un segnale favorevole. La grandezza di Gorbaciov, la sua statura intellettuale e istituzionale, sta in gran parte nella consapevolezza della complessità dei problemi sul tappeto e nella sfida a tentare di risolverli anche quando sembrano apparire, a prima vista, irrisolubili. Il suo limite è nella realtà stessa, nel modo in cui può e vuole rispondere a questi problemi, nella dialettica che ha luogo tra il suo potere, quello altrui e le dinamiche sociali che sono in movimento. È questo approccio "realistico" ma al tempo stesso testardo e determinato a non abbandonare i Foto di Roberto Koch/ Contrasto/Grazia Neri. DISCUSSIONE/FLORU principi che permette con qualche ragione di trovare più in Lenin che in qualsiasi altro leader del passato un punto di riferimento al suo comportamento. Certo a Gorbaciov manca il carisma di artefice della rivoluzione che portava Vladimir Ilic ad essereconvinto, quasi sempre con ragione, di poter portare sulle sue posizioni tutto il partito; egli ha come avversario, al contrario, un coacervo di interessi ben consolidati e ramificati perlomeno nell'ultimo trentennio. Anche a prendere in esame solo le questioni e gli avvenimenti che i giornali occidentali riportano con maggiore evidenza, ci si rende conto di quanto sia facile una immediata risposta ideologica (fondata sul cliché concettuale del passato) e di come' possa essere invece anche intellettualmente entusiasmante e difficile affrontare in tutta la complessa e sfaccettata realtà quello che avviene. Lo scontro etniconazionale tra armeni e azeri, per esempio, ha tante valenze (culturali, religiose, storiche, giuridiche, di controllo dell'ordine pubblico e di salvaguardia fisica della gente, di rispètto del diritto e delle aspettative maturate, di logiche maggioritarie, centralistiche, autonomistiche) che nessuno, onestamente, potrebbe dirsi disposto a collegare insieme in modo soddisfacente. E son tutte valenze che in qualche modo, anche se con minore evidenza e drammaticità, fanno parte dei problemi delle società occidentali. E che dire poi dei temi economici (incentivi produttivi o egualitarismo salariale, autonomia gestionale e prospettive di licenziamenti, miglioramenti distributivi e fine dei prezzi politici e controllati, mobilità sociale e colonizzazione delle terre nord-orientali) o di quelli politici (riabilitazioni e condanne, identità e rotture rispetto alla storia passata e recente, pluralismo e necessità di stroncare i nemici della riforma, coscienza collettiva e dirigismo, opinione pubblica e libertà di organizzazione anche per le tendenze più irrazionali e reazionarie, decisionismo e conformismo politico, corruzione e culto della personalità)? Che si riesca a parlare senza troppi dubbi e interrogativi su tutta questa schiera di questioni, e ci si entusiasmi per cose risapute e rifritte come i rapporti di Togliatti con Stalin, è un preoccupante segnale del più generale livello di comprensione della realtà che si sta affermando in questo scorcio finale di millennio. Problemi che la rivoluzione del '17 ha messo drammaticamente in evidenza e che sono rimasti irrisolti (la mancanza effettiva e l'improponibilità storica di un progetto razional-riformista, la necessaria dialettica tra decisionismo giacobino e comportamento "irrazionale" delle masse, il rapporto tra esigenze materiali e immediate e i grandi progetti di giustizia e trasformazione sociale) sono adesso intrecciati nella Russia di Gorbaciov con gran parte dei problemi tipici delle democrazie unidimensionali più o meno postindustrializzate. Capire l'Urss è quindi anche, in gran parte, capire noi stessi. Ma se manca, come sembra, una volontà di trasformazione, anche la comprensione non può allora che seguire pigramente gli schemi inutili ma consolidati che appartengono al passato. Il
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