Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

SAGGI/LA PORTA "L'Italia contemporanea sarà pure un grande laboratorio sociale, nel quale però la gente crede di aver detto e sperimentato tutto. Le idee si prendono altrove e si vivono prevalentemente sulla pagina scritta." tere del tutto gratuito, immotivato, "irreciproco", paradossale dell'azione morale. Come apprendiamo dal Nostro comune amico di Dickens, nei libri scolastici dell'Inghilterra vittoriana (ma non solo ... ) "il bene non lo si doveva fare perché è bene, ma perché se ne può ricavare profitto". Questo richiamo al "soprannaturale" non dovrebbe poi urtare la nostra sdegnosa sensibilità laica, né evocare chissà quali fumosità metafisiche: senza volerlo attenuare esso ci segnala innanzitutto una direzione, la impossibilità di ridurre senza residui la moralità all'empirico, al naturale, a una forma magari raffinata di egoismo (o deviata, come voleva Nietzsche). Sarà anche vero che il punto di partenza di qualsiasi riflessione etica è la semplice preferibilità dell'essere, della vita al non essere. Ma poi lo stesso Jankélévitch ci mostra come l'essere che conferiamo a una creatura lo preleviamo sulla parte dell'altra. Non esistono criteri-guida trasparenti, infallibili, immuni da ambiguità. Tutto continua a essere affidato all'istantaneità del giudizio, alla nostra "buona volontà" del momento: "un attimo di disattenzione e l'occasione favorevole è già lontana da me''. Jankélévitch non si sottrae del tutto a una tentazione vitalistica che era propria di un suo maestro. Così scriveva Simone Weil: "In Bergson la fede compare come una pillola Pink di qualità superiore, che comunica un grado prodigioso di vitalità" (cfr. La prima radice, Comunità 1980). Proviamo a sostituire "fede" con "moralità": no, il legame tra quest'ultima e la vitalità non è garantito. È certo importante non escluderlo a priori e quindi "vietare" la felicità, come tende a fare il kantismo. Però non può agire come movente, a meno che non si dia al termine "vitalità" un'accezione molto ampia. È certamente vero che "l'egoista, lasciando deperire il fratello, ingrassa da solo in un mondo deserto", mentre la virtù aprirebbe comunque davanti a noi un "orizzonte infinito". Ma questo orizzonte è fatto anche di rapporti con gli altri spesso drammatici, di modificazioni magari dolorose, di esperienze spesso devitalizzanti. Insomma se la virtù non implica l'happy ènd, l'opzione per un "mondo deserto", moralmente riprovevole, può sempre conseguire un suo grado di vitalità. Un piccolo applauso Dopo questa veloce e parziale ricognizione di alcuni libri di autori stranieri, ci sembra opportuna una digressione sulla nostra situazione, sulla nostra società filosofica. Senza addentrarci in una topografia minuziosa, che altri hanno fatto in modo sistematico, intendiamo solo svolgere alcune considerazioni in rapporto alla recente riscoperta dell'etico. Sarebbe fuorviante accusare i nostri filosofi di mancanza di originalità, di passiva esterofilia, di mero riciclaggio di idee elaborate altrove. E non perché questo non sia vero. Non saremo proprio una provincia culturale del Reich come qualcuno ha insinuato, ma è innegabile che la nostra più recente filosofia sia fortemente debitrice nei confronti del pensiero tedesco (e francese). Il punto però non sta qui. I grandi filosofi del passato non hanno avuto sempre bisogno di stupire il mondo con la loro originalità. lsaiah Berlin, nella sua bellissima raccolta di saggi Il riccio e la volpe (Adelphi 1987), ci mostra come nella Russia ottocentesca non si producevano molte idee nuove, però quelle importate si esploravano e si vivevano fino in fondo, con una passione settaria e divorante. Ora, l'Italia contemporanea sarà pure un grande laboratorio sociale, nel quale però la gente crede di aver detto e sperimentato tutto. Le idee non solo si prendono per lo più altrove, ma poi si vivono prevalentemente sulla pagina scritta, si manipolano e si giocano all'infinito l'una contro l'altra in piccole schermaglie giornalistico-accademiche. Agli inizi degli anni '80 si è ripreso a discutere molto di filosofia, del suo ambito, dei suoi compiti, della sua funzione. Forse un assunto comune alle varie posizioni identificava la specifica vocazione della filosofia nella attitudine a porre continuamente domande, come allora sottolineò saggiamente Norberto Bobbio. E proprio Berlin ricorda di Tolstoj (che dal punto di vista filosofico doveva quasi tutto a Rousseau) la "abitudine di porre domande esageratamente semplici ma fondamentali". Non possiamo condividere la fede del grande scrittore russo nella gente semplice (i fanciulli, i contadini), o il suo pathos della Natura (nella quale è assai arduo per noi rinvenire un qualche ordine, una finalità). Però le sue domande "esageratamente semplici", e per nulla originali, premono ancora su di noi con urgenza. E soprattutto non danno mai l'impressione di essere separate dalla "superficie disuguale" della vita. I molteplici riferimenti letterari di un pensiero eminentemente "etico" come Lévinas, peraltro studiato e chiosato puntigliosamente (cfr. i numeri 209 e 210 di "Aut aut"), hanno mostrato anche ai nostri più scettici studiosi che l'immaginazione letteraria può superare le strettoie della riflessione filosofica. Ma i risultati di questa elettrizzante scoperta fanno rimpiangere l'arida prosa delle "filosofie curve sul lavoro dei concetti". È nota la tendenza dei nostri immaginifici filosofi alla metafora, alla bella immagine, alla pura suggestione, all'iperletterario, seguendo forse cattivi esempi d'oltr'alpe. A proposito dell'ultimo libro di Deleuze, Stefano Zecchi notava questa ostinata inclinazione a "sostituire il rigore dell'argomentazione con giochi linguistici, iperboli, calembours". La più recente figura metaforica che sulla scorta di Lévinas, è stata proposta alla nostra immaginazione è quella dell'Insonnia. Immagine più ardita del Meriggio nietzscheano: esperienza privilegiata di quasi scomparsa del soggetto, di sdoppiamento dell'io, di apertura a una Differenza mai del tutto colmabile, ecc. Tutte cose che, a ben vedere, con l'insonnia reale non c'entrano molto. Ma, come scriveva Giorgio Colli con spirito veggente nel 1974, "oggi le porte sono spalancate per gli aspiranti letterati", per chi smania di "ricevere un piccolo applauso". 61

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