Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

SAGGI/LA PORTA i limiti del dovere, ma non motivati da esso". Nella fitta e implacabile argomentazione di Tugendhat c'è come uno spreco di teoresi, di ragionamento filosofico per approdare infine a conclusioni appena ragionevoli, di puro senso comune (le norme non vanno fondate su verità superiori, possiamo far riferimento solo a interessi di minima comuni a tutti, ecc.). Conclusioni che, tra l'altro, eludono troppo sbrigativamente una serie di obiezioni al razionalismo e all'utilitarismo forse "inattuali" ma non per questo meno - incisive. Ci riferiamo alle obiezioni di parte cattolica, almeno a quelle formulate in epoca moderna. "L'utilità futura, essendo materia di mera probabilità, non può essere il criterio della morale( ... ) il dire che ciò che costituisce la moralità di un'azione è il riguardo all'utilità del maggior numero di uomini possibile, è dire che questo riguardo è dovuto ad essi non in quanto uomini, ma in quanto sono i più". Questi passi sono tratti dalle Osservazioni sulla morale cattolica di Alessandro Manzoni. Nella loro essenzialità ci sembrano la più definitiva confutazione dell'utilitarismo (non solo di quello ottocentesco), delle sue illusioni e dei suoi limiti "strutturali". Si sottolinea infatti che criterio morale consiste nella "giustizia", ovvero semplicemente nella scelta tra il bene e il male (un criterio legato al presente). E poi si osserva che il classico ragionamento utilitaristico del "maggior numero", apparentemente così ragionevole, esclude virtualmente alcuni uomini. Sappiamo che dopo verrà Max Weber, con le sue fondamentali e puntigliose distinzioni tra etica della convinzione e etica della responsabilità (cioè delle conseguenze), ma le pagine del Manzoni saggista non hanno perso il loro smalto. Il che non implica naturalmente un'adesione incondizionata all'etica manzoniana: per esempio andrebbe discussa in modo non superficiale la questione del rapporto tra giustizia e felicità, di come alla fine arrivino misteriosamente a congiungersi, grazie alla Rivelazione, Però la sua critica a Bentham coglie indubbiamente nel segno. Più recentemente un altro pensatore cattolico, il teologo Romano Guardini, abbastanza ignorato da noi (ma non in Germania, dove si stabilì per quasi tutta la vita), ci rammenta come in nome di questa utilità collettiva si sia arrivati a eliminare i minorati e gli inabili al lavoro. Sì, certo, la carità diventerà un giorno superflua, le istituzioni si prenderanno cura dei poveri, lo stato provvederà ai malati, come ci insegna il riformismo, Però Guardini osserva "con quanta facilità la volontà di eliminare il dolore si trasforma in quella di eliminare gli uomini che soffrono e la cui sofferenza non può essere eliminata" (cfr. Ansia per l'uomo, Morcelliana 1969), A ben vedere né lo stato sociale in un futuro utopico e luminoso, né la collettività organizzata, né probabilmente l'imperativo categorico riusciranno mai a sostituire del tutto quel "qualcosa d'altro" di cui ci parlano le pagine di Guardini. Un "appello alla libertà"? una "apertura del cuore"? Già a definirlo si diventa enfatici e un po' melensi. Qualcosa che può esseremesso in un rapporto di analogia con il "quasi60 niente" di cui ci parla invece Jankélévitch: la quasi-inesistenza dell'intenzione, la sua estrema fragilità. Un mondo deserto E passiamo ora al terzo dei libri che abbiamo preso in considerazione, il Trattato delle virtù di Vladimir Jankélévitch, filosofo francese di origine russa da poco scomparso, che nelle sue lezioni alla Sorbona pare incantasse gli studenti del Maggio. Forse l'idea stessa di un trattato di virtù, di un loro elenco ragionato (idea che risale al '700) è in sé contraddittoria. Le virtù infatti soffrono a essere nominate direttamente. Discettare con sottigliezza su una virtù, discutere con acribia come debba essere, è un esercizio un po' sterile e spesso deludente. Lontano soprattutto da quella "saggezza infantile" che all'autore sta così a cuore. Bisogna subito dire che la formazione culturale di Jankélévitch (Bergson, Chestov, Kierkegaard, gli scrittori russi), oltre alle sue innumerevoli eterogenee letture, lo proteggono da certi rischi di schematismo e dogmatismo, Il coraggio, leggiamo per esempio in queste pagine, non soltanto implica sempre la paura, ma non consiste in un sapere: "è una decisione contro l'intellettualismo", In primo piano insomma c'è l'urgenza della decisione, la scelt.aistantanea, il valore del giudizio pratico (non della norma): "al contrario, l'ideale degli ideologi è un avvenire lontano". Un clima filosofico e letterario riconoscibile, che ci ha ricordato tra l'altro alcune pagine di Camus (pensiamo alla Caduta). A proposito di questa nobile tradizione, e della sua inesausta e fascinosa verbosità, andrebbero fatte delle considerazioni a parte, La lingua di questo libro è una lingua barocca, sontuosa, a tratti visionaria, carica di immagini e di aggettivi lampeggianti, qualche volta ai limiti del kitsch (di un tipo di innocenza si dice che è "radioattiva"). Anche se bisogna riconoscere che queste pagine pongono in modo estremo, spesso urtante,.la questione di come deve essere oggi una scrittura filosofica, quale rapporto deve intrattenere con il simbolismo della poesia e con la discorsività propria della narrativa. Forse l'autore che più viene alla mente è un filosofo di cui qui anzi viene ricordato il "silenzio mistico": Soren Kierkegaard, il suo sublime istrionismo, la sua vocazione alla teatralità, dietro cui si dissimula una problematica terribilmente "seria", Ma, più dei funanbolismi stilistici, o della molto ammirata agudeza ( con cui si smascherano le mille astuzie della austerità compiaciuta), assume particolare rilievo nel nostro contesto l'accento posto sulla "vocazione soprannaturale" della moralità: "l'egoismo altruista è la natura che si solleva a sua volta fuori di sé in un moto estatico e dimentica se stessa per coincidere con l'altro". Pensiamo infatti alla fedeltà alle cause perdute, alla fedeltà nella sventura e a dispetto delle delusioni. Insomma, per quanti sforzi facciamo per dimostrare a noi stessi che essere virtuosi porta al benessere, che in ultima istanza "conviene", "è vantaggioso" (che alla fine saremo premiati), è bene che qualcuno ci ricordi il carat-

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