Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

Da un lato infatti abbiamo di fronte la pars destruens, che appare ineccepibile, ma anche scontata, prevedibile, insomma l'ennesima variante del "Dio è morto" (non si danno più valori assoluti, stabili, verità superiori, ecc.). Dall'altro lato si erge la pars construens, sincera ma spesso opaca, o anche vagamente dolciastra, oscillante tra immagini poeticistiche e un'enfasi stucchevole sull'amore, sull'aprirsi all'altro, ecc. (che stentiamo però a riconoscere nella nostra esperienza, nel mondo in cui abitiamo). Così, tra Accademia e Arcadia, si fa fatica a trovare tracce di un pensiero magari debole, umile, ma che sappia dirci qualcosa. L'etica non è tutto Bernard Williams si occupa da molti anni del problema etico e ha tenuto al riguardo lezioni e seminari nelle principali università americane e inglesi, dove attualmente insegna. In particolare questo libro è un dialogo serrato con le varie teorie etiche della filosofia moderna e contemporanea: utilitarismo (cui ha dedicato altre pubblicazioni), contrattualismo, il cosiddetto "metodo linguistico", ma soprattutto la ragion pratica kantiana. L'impressione generale è di un saggio piuttosto denso ma troppo equilibrato, preoccupato di riconoscere a ciascuno la sua parte. Non nel senso che l'autore si pone in una comoda posizione di equidistanza (anzi, i suoi bersagli polemici sono espliciti), ma il suo problematicismo, qualche volta di maniera, è davvero estenuante. Prima si auspica un ritorno a Socrate, a una riflessione morale slegata dal "peso dei testi'', e un momento dopo si dice che però non possiamo prescindere dalla filosofia come disciplina, tradizione, specialismi, ecc... E ancora: "non possiamo accogliere la visione obiettivistica della vita etica", però, beninteso, "questo non esclude qualsiasi forma di obiettivismo". Comunque, al di là di questo stile argomentativo, e anche di probabili conflitti accademici (è stato detto in proposito: Cambridge versus Oxford), ci sembra che il valore del libro risieda nei due capitoli riguardanti il "programma kantiano", in una critica radicale alla filosofia morale di derivazione kantiana, compresi certi sviluppi del pensiero di Jiirgen Habermas. Per esempio, a proposito del pathos della trasparenza Williams osserva che è legittimo sperare che le relazioni personali non si fondino sull'inganno, ma "pensare che i loro fondamenti possano essere del tutto espliciti è un'idiozia". Ciò che mina la pur straordinaria concezione kantiana del1'etica non sarebbe tanto la sua astrattezza ma proprio "un fraintendimento della vita profondamente radicato". Contro la moralità come istituzione, come sistema, contro una concezione che riconosce dignità all'esistenza solo se interamente morale, Williams ci fa notare che esistono interessi personali "più limitati rispetto a quelli imposti da un impegno morale di portata universale" (senza per questo essere egoistici). L'ideale della moralità ha indubbiamente introdotto nel SAGGI/LA PORTA mondo un po' di giustizia, come riconosce l'autore, però non dà spazio adeguato a finalità e moventi più limitati, meno grandiosi che non il Bene o il Giusto. Non ogni istante della "esistenza creaturale" ha a che vedere con l'etica, ribadisce Bonhoeffer in evidente polemica con la sua stessa tradizio- . ne. Mentre un afferrarsi convulso, maniacale al tema etico esprime non solo una cattiva coscienza, ma paura e '' odio per ciò che esiste''. Quello che occorre è una concezione che sappia trovare nell'esistenza il posto che spetta all'extraetico, alle sciocchezze, all'errore, alle inezie, al caso, al gioco, al vivere senza scopo e senza impegno. Se infatti si pretende dall'umanità più di ciò che può dare, non si può che peggiorarla. Qualcosa d'altro Anche di Ernst Tugendhat spazientisce qualche volta la tendenza a essere estremamente cauti, doveroso omaggio alle buone maniere accademiche. Va bene che il suo metodo procede per "autoconfutazioni", ma alla fine si ha l'impressione di un avveduto barcamenarsi tra istanze opposte e inconciliabili. Così, anche qui leggiamo che non possiamo rinunciare alla impostazione dei greci, ma subito dopo ci si avverte che non dobbiamo eludere le moderne esigenzedi fondazione della morale. Anche qui appare come interlocutore un filosofo che al problema morale ha dedicato molte pagine, Habermas, a cui, pur riconoscendone tutta la statura teoretica, si muovono una serie di critiche piuttosto efficaci. Se infatti si vuole risolvere la morale nella comunicazione, in un accordo su norme accettate razionalmente da tutti, si incappa fatalmente in alcune anomie. Si omette soprattutto il fatto che esistono principi morali che vengono prima della comunicazione, e che quindi non possono essere fondati da essa (come il principio che vieta di privare chicchessia della libertà, anche della libertà di sbagliare). Meno convincente, anche se lodevole, il tentativo di collegare etica e felicità, e di fornire quindi un criterio in qualche modo oggettivo (formale) della felicità stessa, seguendo un'impostazione platonico-aristotelica. Impresa quasi disperata. Possiamo infatti assimilare la felicità semplicemente a una condizione in cui si sceglie liberamente qualcosa, come fa l'autore, ma è proprio questo liberamente un concetto assai problematico. E comunque non eviteremo i rischi connessi ad un'idea pur sempre normativa di benessere individuale. Alla fine lo stesso Aristotele concludeva che le masse, quasi sempre sorde a questo legame virtù-felicità, obbediscono più spesso alla forza, alla leggeche al ragionamento morale. La stessa "morale della serietà", che fa capolino nelle pagine finali del libro, sembra andare in questa stessa direzione diciamo così prescrittivo-autoritaria: contro l'ammonizione a prender sul serio la nostra vita (come condizione per poter rispettare gli altri) vogliamo ricordare, ancora con Bonhoeffer, che bisogna "vivere con gli altri entro 59

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