PRIMO LEVI E IL RIFIUTO DELL'URLO Giacoma Limentani Sento il dovere di iniziare confessando che parlare del- !' Autoritratto di Primo Levi curato da Ferdinando Camon mi è tutt'altro che facile. La mia non è una confessione tanto per mettere le mani avanti, nel caso in cui quel che dirò non dovesse piacere. Parlare di questo libro mi è difficile, perché mi è oggettivamente difficile parlare di Primo senza cedere all'emozione. Ma anche ammesso che io riesca a mantenermi del tutto serena e distaccata, considero pur sempre difficile fare un discorso di largo respiro su un libro, per altro peculiare nel suo genere, che in appena settanta pagine stampate in corpo tipografico piuttosto largo, affronta argomenti di peso tutt'altro che irrilevante quali: la colpa di essere nati, l'indiscriminato potere dei pochi sui molti, quella che Levi chiama la stella gialla cucita sulla pelle e cioè il suo essere ineluttabilmente ebreo, la nascita d'Israele, perché uno scrittore scrive, e così via. Argomenti che fanno parte integrante della tematica generale di Primo Levi, e trovo giusto che chi ha seguito le pagine dei suoi libri o molti articoli da lui concessi a giornali e riviste, ricerchi qui da solo, per procedere da solo a un raffronto ed eventualmente a una rimeditazione. Sento però la necessità di soffermarmi su una questione che mi è balzata agli occhi fin da quando li ho posati sul titolo di questo libro, e che ha continuato a pormisi davanti in modi diversi, per diverse ragioni e dalle differenti angolazioni di ognuno degli argomenti qui trattati: la questione del linguaggio, o, per essere più precisa, una complessa e sfaccettata questione di linguaggi diversi in rapporto fra loro. Fino a che punto il linguaggio suo, degli altri, oppure quello da lui usato quando ha dovuto o voluto farsi tramite per gli altri, fosse importante per Primo Levi, o meglio, quanto sia diventato sempre più importante a mano a mano che le sue parole di testimone si andavano trasformando in vena di romanziere, lo dice lui stesso a pag. 67 del libro:"Mentre non m'interessava affatto il problema della lingua quando scrivevo Se questo è un'uomo, la questione della lingua ha cominciato a interessarmi sempre di più man mano che andavo avanti nello scrivere, fino a diventare dominante nella Chiave a stella, che è un libro sperimentale, e anche in quest'ultimo libro, Se non ora quando, che mi ha posto dei problemi linguistici, perché si trattava di far parlare in italiano, di tradurre in italiano, un discorso putativo in polacco o in russo o in yiddish, e io non conosco né il russo né il polacco e molto male lo yiddish; sicché ho dovuto studiarmelo e me lo sono studiato: ho studiato yiddish per otto mesi, fino a poter dare a questi personaggi una parlata italiana che suonasse plausibile come versione. Non so se il lettore italiano medio si acccorge di queste cose." BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE Io credo di no, o almeno penso che quasi nessuno in Italia sia in grado di notare questo tipo di sfumature, ma c'è .chi le ha notate negli Stati Uniti. In una intervista fattagli da Philip Roth e uscita su "La Stampa" nel novembre del 1986, sempre Primo Levi dice infatti: "Il lettore americano si è accorto di un fatto vero, che cioè si tratta di un libro )id scritto da un autore che )id non è, ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e ascoltando racconti." Ebbene, malgrado la tiepida accoglienza avuta in America e pur onestamente riconoscendone le legittime motivazioni, Primo Levi non rinnega questa sua opera, realizzata con il dichiarato fine di "rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato la forza e l'intelligenza di restistere ai nazisti. È per render loro omaggio presentandoli a un mondo che molto raramente ne ha sentito parlare che si fa romanziere. Si fa romanziere per poter fornire all'ignaro lettore italiano medio informazioni sul loro conto, tramite la godibile struttura narrativa del romanzo e col miglior linguaggio da romanzo yiddish che gli riesce di ricreare. Pur se ancora non dichiaratamente romanziere, da tempo - e fors'anche da sempre - Primo Levi è però narratore oltre che testimone, e in quanto tale sa che la narrazione, ce l'ha egregiamente insegnato Walter Benjamin, non mira, come l'informazione, a comunicare il puro in sé dell'accaduto, ma lo cala nella vita del relatore, per farne dono agli ascoltatori come esperienza. A me sembra che questa distinzione di Benjamin si attagli in modo speciale a ogni pagina scritta da Levi: ogni sua pagina mi appare come il risultato della sua triplice esperienza di testimone - quando non addirittura di cripto-protagonista - di decantatore e di narratore. A proposito della sua attrazione per la parola narrante, Camon dice che forse, anche senza l'esperienza del lager, Levi sarebbe stato lo stesso uno scrittore, e lui risponde: "Naturalmente non ci tornerei, però, accanto all'orrore di questa esperienza, che sento ancor adesso, non posso negare che essa abbia avuto anche risultati positivi. Lì mi pare di avere imparato a conoscere i fatti e gli uomini." E li conosce al punto di sapere quanto sia grave emettere giudizi indiscriminati. Quando infatti Camon ripetutamente lo tenta a esprimere una generica condanna nei confronti della Germania e del popolo tedesco nel loro insieme, spesso addirittura anticipandola, per rispondere fa uso di distinguo storici, culturali e psicologici, e sia sul piano privato che su quello pubblico. Cito: "I tedeschi di Goethe non erano così. La Germania ha cominciato a deviare in questa direzione più tardi." Oppure: "Questo suo giudizio così drastico sui tedeschi a partire dai Germani, io sinceramente non credo di condividerlo. Tutti i giudizi generali sulle qualità intrinseche, innate di un popolo, mi sanno di razzismo." E ancora : "E vero che mi sono astenuto dal formulare giudizi in Se questo è un uomo. L'ho fatto deliberatamente perché mi sembrava inopportuno, anzi importuno, da parte del testimone, che sono io, sostituirsi al giudice." 11
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