Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

88 STORIE/ANCESCHI Consapevolezza che O' Annunzio aveva dello scandalo che ciò avrebbe suscitato. L'aneddotica potrebbe naturalmente proseguire. Ma è quanto basta per segnalare come, empiricamente, l'area della lettura autobiografica sia ben più vasta dei limiti posti dal patto sottolineato da Lejuene. Tant'è vero che lo stesso autore è poi costretto a differenziare "un'autobiografia" vera e propria da un più evanescente "romanzo autobiografico". Ciò produce però, sul piano strettamente teorico, un'obiezione quasi ovvia. È evidente che quanto più si irrigidisce la definizione di un genere, tanto più ci si troverà costretti a moltiplicarne i sottogeneri. D'altra parte a creare i maggiori imbarazzi è proprio la nozione di identità. Con l'ausilio della linguistica di Benveniste, e della narratologia di Genette, sarà certo possibile a Lejeune impostare nitidamente, il rapporto narratore-personaggio. Secondo Benveniste la loro presenza nell'ambito del discorso sarà avvertibile al doppio livello di un soggetto dell'enunciazione e di un soggetto dell'enunciato, convergenti nell'autobiografia sull'identità del pronome di prima persona "io". Per Genette vi sarà identità di narratore e personaggio nello specifico caso di un narratore autodiegetico, presente cioè nel racconto come colui che narra la propria vicenda essendone il principale protagonista. Ma un differente ragionamento merita il rapporto tra queste due entità semiotiche, presenti unicamente e concretamente nel testo, e l'autore reale, che gode di ben altro statuto di realtà. Qui, l'utilizzo della nozione di identità può rivelarsi pericoloso. L'autobiografia sarà certo un genere eminentemente referenziale, ma da ciò a sovrapporlo alla realtà tout-court ci corre ancora parecchio. Sarebbe forse da suggerire la sostituzione del termine identità con quello, più duttile e comprensivo, di riconoscibilità. Anche perché, una volta impostato senza le debite mediazioni il problema della referenza, ci si vedrebbe costretti per coerenza a porre quello della verifica extratestuale. Un piano su cui, lascia fortunatamente intendere Lejeune, non è il caso di collocarsi. I problemi, come si è potuto constatare, sono numerosi. Non ultimo quello inerente il significato storico del genere autobiografico. L'autore, in un'ampia sintesi volta alla modernità, concorda con chi vuol vedere in esso l'affermarsi dei grandi valori borghesi di individualità e di persona. Può essere, tuttavia ciò che colpisce dopo aver chiuso li patio autobiografico e averne ripercorso gli indici analitici, è l'assenza di qualsiasi considerazione rispetto alla produzione femminile. li nome della Beauvoir naturalmente BibliotecaGino Bianco compare più di una volta ma unicamente in riferimento all'opera di Sartre. Eppure sin dall'epoca romantica l'autobiografia, insieme con gli altri generi intimistici del diario, la lettura, il memoriale, ha rappresentato per le donne uno specifico modo di imporsi sulla scena letteraria. Una maggiore attenzione a questo dato di fatto, condurrebbe presumibilmente le riflessioni intorno al suo significato storico quantomeno a esiti più articolati. STORIE GLI "ACCOPPIAMENTI INCESTUOSI" DI FRASSINETI Giuseppe Anceschi I giochi stilistici di Frassineti, i suoi divertimenti perennemente divaganti, le sue anarchiche peregrinazioni nei territori più disparati non ebbero mai molto a che fare con la concezione di una letteratura subalterna alla pedagogia e alle ideologie quale si era affermata nel secondo dopoguerra col neorealismo. In realtà Frassineti professò ugualmente un suo "decoroso" impegno di scrittore, che prese corpo in pagine civili variamente sparse sulla stampa periodica e in relazioni o interventi stesi per il "Movimento di collaborazione civica", una istituzione laica rivolta all'educazione dei giovani, che egli resse per molti anni fra le more del mestiere di scrittore da una parte e quelle degli impegni di funzionario del ministero del lavoro dall'altra. Quelle pagine e relazioni costituiscono il retroterra palese e l'altra faccia della sua produzione maggiore, quella per intenderci nella quale riversò tutto intero il suo desiderio di utopia, del resto anche qui sommessamente coltivato. Infatti i due aspetti, l'uno degli interventi legati alla polemica politica quotidiana, l'altro delle pagine di invenzione che questa polemica camuffano e tuttavia contengono (da scrittore en travesti, come è stato detto), sono fra di loro assai più strettamente connessi di quanto il grottesco deformante delle suddette pagine lasci a tutta prima intendere. Nell'un caso come nell'altro, nelle prose giornalistiche contingenti come nelle pagine mordaci e dolorose dei Misteri dei Ministeri e negli aforismi di Tutto sommato, Frassineti pare comunque mosso da una sorta di indolenza esibita quasi fosse una vera e propria professione di fede, un costume acquisito di lavoro. Conviene lasciarlo dire a lui stesso, laddove riprende le affermazioni già contenute in una postfazione al poemetto Vita vita vita (che è del 1966), successivamente inserite a mo' di confessione nella raccolta sopra ricordata di aforismi (che è postuma, del 1985): "So di essere considerato uno scrittore decorosamente impegnato, uno di quelli cioè che non si limitano a prendere atto della realtà così com'è, ma vogliono cambiarla, e per i quali scrivere val quanto operare per mu, tare la faccia del mondo: in meglio, naturalmente. Cambiare il mondo? Magari! Perché si può dire che nel mondo così com 'è non c'è quasi nulla che mi vada a genio. Ma altro è struggersi nel desiderio di un lieto evento planetario, altro è illudersi e pretendere di produrlo in modo tangibile e verificabile col fare letteratura, sia pure mordendo nel vero con il dente avvelenato. In ogni caso io non sono di quelli che coltivano simile pretesa: non solo perché. pavento gli accoppiamenti incestuosi cui si rischia di andare incontro quando la letteratura si preoccupa in primo luogo di essere edificante e si cosparge il capo con le ceneri del 'servizio sociale', bensì anche per ragioni di modestia e di senso della misura. Ma ecco che, di quando in quando, la realtà, che è sempre accidentata, scoscesa e imprevedibile, mi costringe a riconsiderare tutta la faccenda e a suggerirmi il sospetto che, pur senza volere, senza pensarci nemmeno di lontano, io sia riuscito, con il mio mettere parole uoa avanti l'altra, a insinuare nel bubbone dell'universo circostante un controveleno, un anticorpo, un revulsivo, uno scongiuro, ·un seme, una talea, un germoglio, destinato, chissà, a metter fusto, foglia e fiore, a dar vita a nuovi istituti, improntando di sé, nelle sue finalità, nientemeno, una legge dello Stato" (cfr. A. Frassineti, li giorno prima non c'era, Bulzoni, Roma 1986, pp. 108, L. 10.000, alle pp. 65-66). L'atteggiamento si configura in tal modo e come scelta di fondo e come vezzo di stile, consistenti in particolare nel rifiuto della dimensione dello scrittore creatore, dell'ingegnoso demiurgo che, per usare una analoga affermazione di Gadda, cava fuoco e impeto dal suo stile porgendo al "tartufare" dei critici tutte le bandiere della patria e dei vani turriti municipi. Entrambi intendono invece assai più modestamente agitare la tremula fiammella diderottiana della ragione a stento accesa nel vento e presto spenta come quei pappi "che a soffiarci su, te ne rimane in mano lo stecco" (Cfr.

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