Bisognerà che questi primi accenni di una voglia di discutere di nuovo il passato da parte di quei sopravvissuti che si identificano tuttora col senso più originario e autentico del '68 vengano coltivati, che si riprenda la parola, che si scavi da protagonisti prima ancora che da storici ma con la preoccupazione e la misura, con gli strumenti degli storici. Che si osi affondare il bisturi nelle ferite degli anni settanta e nelle nostre responsabilità. Che non si lasci che siano i media e i leaders ed ex-leaders a parlare per tutti. Che si litighi, anche, quando necessario. Soprattutto che ci si rifiuti di accettare come in passato ciò che non ci convince (e stavolta sarebbe solo per pigrizia o per complicità o per la vecchia e risorta smania gregaria della delega a chi sembra saperne più di noi ed è semplicemente, nove su dieci, più prepotente di noi, contro la quale il '68 si batteva). Una cosa che dovrebbe risultare intollerabile a chi "c'era" è, per esempio, che gli "interpreti rituali", dopo aver reso loro amara la vita per troppi anni, tentino oggi perfino di strappargli il passato raccontandolo come loro aggrada. Ma soprattutto si tratta di vedere cosa dei valori di quel vecchio movimento ha ancora senso, e se e quale insegnamento attuale e prospetticÒ è ancora possibile trarne. IL '77 DI BALESTRINI & C. Marino Sinibaldi Su quell'intrico di anni e avvenimenti che convenzionalmente si definiscono "il Settantasette" ho visto brutti film e ascoltato bei racconti. Ho sempre sperato che qualcuno prima o poi riuscisse a raccogliere quelle storie, a trasformarle in qualcosa capace di raccontare quegli anni e quei tormenti a chi non c'era o era distratto. Qualcosa di letterario: perché tutti i saggi pubblicati sul '77 e gli anni di piombo danno una sensazione, se non di fallimento, di insufficienza e di incompletezza. Come se eludessero qualcosa di importante. E come se la presunzione che avevano i protagonisti di quegli anni - una presunzione in sé molto sciocca, cui una volta ha accennato, mi pare, Franco Fortini, - di vivere un momento romanzesco, più che storico, celasse una verità profonda: perché nel '77 oltre a condizioni materiali, equilibri politici, posizioni sociali, erano in gioco sentimenti, emozioni, stati d'animo, visioni del mondo (o loro brandelli) probabilmente più che in altri precedenti movimenti. E solo un romanzo sembrava in grado di avvicinare questo nucleo incandescente ma opaco. Quello che mi ha interessato di più, della letteratura nata intorno al '77, era soprattutto questo: l'impressione che in quei libri (penso alle prime opere di Pino Corrias, Enrico Palandri, Claudio Piersanti, Piervittorio Tondelli) qualcosa di quella zona inesprimibile apparisse più visibile, riuscisse a riscattarsi dal silenzio e dall'angoscia. Nella loro natura di presentarsi non come "i romanzi del '77" ma dei racconti intorno a vicende e turbamenti propri di quel clima, ho sentito quei libri come un arricchimento di quello che coi saggi e le analisi si cercava di dire; come un risarcimento di quello che coi saggi non si riusciva a dire. Questo per spiegare l'impazienza con cui ho atteso la pubblicazione del romanzo di Nanni Balestrini (Gli invisibili, Bompiani, p. 280, L. 20.000). Ma anche per avvertire che la mia delusione può derivare proprio da quella impazienza e da un sovraccarico di attese. Situazione nociva per il lettore e letale per il critico, credo. Se dunque provo a dire qualcosa su questo libro è con l'imbarazzante sensazione di non essere, per così dire, la persona adatta. Non ho distacco da quell'epoca. Pensavo che dieci anni fossero tanti e che tutto quello che si è frapposto - che ciascuno di noi ha frapposto - tra il '77 e oggi fosse una buona BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONI:. garanzia. Invece certe reazioni - comprese quelle connesse con la lettura di questo libro - mi fanno capire che non è così; come se tra il '77 e oggi non fosse passato abbastanza tempo. Nulla trovo di più triste - ma triste davvero, e per tutti - della sequela di interviste rilasciate in questi mesi da Luciano Lama: tante interviste tutte uguali, e tante parole del tutto simili a quelle con cui, dieci anni fa, giustificò la sua scriteriata impresa all'Università di Roma. Nemmeno l'ombra di un ripensamento, di un'autocritica. Eppure alle spalle abbiamo anche tante sconfitte del movimento sindacale; una crisi di rappresentatività che quel venerdì di dieci anni fa violentemente annunciava. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per molti protagonisti di quella stagione. E dunque leggo - e non proverò a nasconderlo - il romanzo di Nanni Balestrini all'interno della rete di ricostruzioni, interpretazioni e analisi pubblicate nell'occasione. Del resto, il fatto che Gli invisibili appaia a dieci anni di distanza dal '77 non è ovviamente un caso; e la risultanza credo assolva dal peccato critico di non isolare troppo il libro ma anzi di leggerlo in controluce ai vari interventi apparsi in questi mesi. Comprese le recensioni che il romanzo ha avuto. Il tema del libro è ormai noto. Nanni Balestrini ha raccontato la storia di un ragazzo degli anni Settanta secondo un percorso tipico: dalle lotte nella scuola e contro il lavoro nero in un paese di un hinterland settentrionale alle prime esperienze politiche, ai dintorni della lotta armata, alle carceri speciali. Fino a un happy end rivelato dall'intenso lavoro extratestuale dello scrittore: in una delle interviste devo aver letto che il giovane di cui Balestrini ha narrato le vicende lavora oggi alla Rai o nella pubblicità. Meno male: la storia "vera" non finisce dunque nell'angoscia del carcere, dove si ferma il romanzo. Nelle interviste, Balestrini ha anche svelato a metà il nome del protagonista. Che d'ora in poi chiameremo dunque Sergio B. Dalla lotta contro i decreti delegati alla rivolta di Trani, Gli invisibili racconta una storia lunga qualche anno, ed è giusto così. Perché la prima cosa da ricordare del '77, è che non fu tanto un'esplosione che rivelava una trasformazione compiuta o annunciava un fenomeno che stava per avvenire. Una delle difficoltà a interpretare - e raccontare - il '77 è che esso rappresentò la manifestazione diseguale, parziale e tutt'altro che limpida di trasformazioni ancora in corso, esternate a metà del loro sviluppo, nel loro momento di massima ambiguità. E infatti si può legittimamente dire che dal '77 nacquero - o uscirono amplificati - fenomeni come il terrorismo, il riflusso, la depoliticizzazione - e anche, che so, la letteratura giovanile e l'imprenditorialità diffusa. Ma dentro il '77 tutte queste cose così precisamente delimitate e definite non c'erano ancora, o c'erano tutte insieme intrecciate, fino a essere indistinguibili, in ogni gruppo di persone - e perfino in ogni singolo partecipante al movimento. Nel '77 convivevano passioni obsolete, in via d'estinzione, e fenomeni non ancora maturi. Se si può dire che il '68 fu una consegl!enza della scolarizzazione di massa - e il '69 dell'industrializzazione -, e che da questa stagione derivarono lotte sociali, politicizzazione, successi elettorali della sinistra - e anche lo statuto dei lavoratori, il voto ai diciottenni e la legge 180 - lo stesso ragionamento non si può fare, non si riesce a fare rispetto al '77. Dove tutto
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