38 STORIE/BONTEMPELLI QUASI D'AMORE Questa è una piccola avventura misteriosa e patetica, e quasi d'amore. Eppure nei tre giorni che Ginevra e io abbiamo passati a Dòrvesan non ci siamo nemmeno sognati di fare all'amore. (Forse ce lo siamo sognati, ma ognuno dei due sognava per proprio conto.) Abitavamo nello stesso albergo, passavamo insieme quasi tutte le nostre ore, pranzavamo allo stesso tavolino. La mattina del quarto giorno arrivò suo padre a prenderla; mi domandò: -È stata buona? -Ottima. - Le ha dato noia? -Affatto. E partirono. Non avevamo fatto all'amore, ma qualche cosa tra noi era accaduto. Perché il tavolino cui mangiavamo, nella sala a terreno dell'albergo, stava rifugiato entro il vano d'una finestra che dava su un piccolo giardino. E ogni sera chiudevamo i vetri di quella finestra, perché a quell'altezza le prime ore del vespero sono fredde anche d'estate. Di là dai vetri, in primo piano si vedevano sporgere chiome di cespugli, e poco oltre salire due ciuffi di geranio da certi vasi sopra un muretto: poi sùbito precipitava in giù e dilagava l'ombrosa distesa della valle e dei monti. Qua e là nelle lontananze qualche clivo s'accendeva di lumi, fino all'orizzonte e al cielo, che s'accendeva di stelle. Era accaduto questo. La terza sera, finito di pranzare, ci attardammo alquanto, uno di fronte all'altra, al nostro tavolino entro il vano della finestra. La sala dietro noi era vuota, e come abolita. E tutto il mondo era forse abolito così, s'era raccolto in noi a quel tavolino, e in quella finestra con i suoi panorami vicini e lontani. Ginevra tacque, guardò oltre i vetri chiusi. Guardai anch'io, e vidi qualche stella. Poi volsi il capo verso Ginevra. M'accorsi che Ginevra non guardava le stelle. La via del suo sguardo era più breve. Forse finiva ai gerani del muretto. Li guardai anch'io, non mi dissero nulla. Erano due ciuffi simmetrici. Tacevano immobili: il loro rosso era tinto di buio dall'ombra. Mi parvero ostili. Ripensandoci, non erano che inespressivi e indifferenti. Ma Ginevra non guardava neppure i gerani. Continuando a tenere gli sguardi al vetro, alzò una mano alla fronte e si accomodò una ciocca di capelli ch'era scesa troppo bassa; due o tre volte la affrontò, fin che quella si dette per vinta. Allora Ginevra le sorrise. E parlò: - Una donna trova uno specchio dappertutto. - Per fortuna - risposi (chi sa perché). Cercai di specchiarmi anch'io nel vetro, ch'era tutto appoggiato sulla gran massa d'ombra del giardino, della vallata, del mondo. - Guardi - le dissi - che effetto curioso! Oltre quel vetro, vedo tutta una scena: il muretto, i gerani, e il resto: tutto quello che c'è di là. Ma ci vedo anche un'altra scena: la mia immagine, la sua, quella della tovaglia bianca, della bottiglia, e BibliotecaGino Bianco del lume che le rischiara: tutto quello che c'è di qua. Sono più fievoli, ma precise: lei ha potuto servirsene da specchio. Due mondi, tutti e due immediatamente di là dal vetro. Occupano tutti e due lo stesso spazio. Ma - questo è il curioso - non si mescolano, non si urtano, non si sovrappongono, non si completano. Non si dànno né piacere né fastidio. Non si conoscono: servendosi dello stesso spazio, si ignorano a vicenda totalmente. Guardi. La tazza bianca è esattamente nello stesso punto di quella fronda di busso: eppure lei vede la fronda, e vede la tazza, ognuna in modo compiuto, senza rapporti, senza fusione. Ognuno di quei due mondi è opaco in sè, e trasparente rispetto all'altro. - Ebbene? - domanda Ginevra. Io rimasi sconcertato per un momento. - Potrebbe darsi... - riprendo. M'interruppi Subito: - Non importa. - Le sue solite fantasie - dice Ginevra. -Appunto. Ma il fenomeno la divertì. Cominciò a muovere una mano tenendola sollevata a mezz'aria al disopra del nostro tavolino, roteandola come un falchetto che volesse calare a rapir le briciole rimaste sulla tovaglia. Ma lei non guardava le briciole, guardava oltre il vetro. - Che fa? - domandai. - È divertentissimo. Cercavo di nascondere la mia mano (quella là) in mezzo ai gerani, ma davvero non si riesce. - Non muova così forte, così rischia di romperli, i gerani. Ginevra si mise a ridere. Io m'accorsi che nel bricco c'era ancora del caffè. Me lo versai, e lo bevvi, sebbene fosse diaccia. Poi aggrottai le ciglia come si fa ai bambini, e la ammonii: - Non rida: dico sul serio. Ginevra già non rideva più. Aveva cessato il giuoco. Posò la mano sulla tovaglia e mi guardò: - Davvero dice sul serio? - Quasi. Vogliamo fare un esperimento? - Che esperimento? - Guardi là. Ecco, veda: tengo l'immagine della mia mano proprio al disopra dei gerani. Non le fa l'effetto che, se la abbasso, arrivo a toccarli? Così: guardi, li tocco. Ma i gerani non si muovono. - Naturale. - È naturale, sì; ma io voglio fare una cosa soprannaturale. Voglio muoverli. -Come? - Così. Ci dev'essere, in quello spazio unico che alberga due mondi, ci dev'essere un punto, nello spazio e nel tempo, un punto, un angolo, un istante, nel quale i due mondi si urtano. Lo trovo. Mi volsi a lei. Anche lei ora guardava me, curiosa, spaurita. Io mi eccitai. M'alzai in piedi come un professionista; e Ginevra mi
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