Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

Else Marie Laukvik in Min Fars Hus (La casadel padre), 1972 (foto di Tony D'Urso). BibliotecaGino Bianco ne (o creatività) di base. Quanto previste e come valutate dai teatri? Sulla base di questa domanda si possono distinguere - e perfino dividere - i teatri. Nell'elenco di quei pochi importanti che si vanno a guardare e a godere con un'attesa o con un riscontro in più, perché "influenzano", toccano lo spettatore e il contesto sociale e culturale più in profondità, ovvero lasciano segni, nell'elenco degli spettacoli che costruiscono la storia del teatro contemporaneo; e anche nella "storia" nel suo senso superficiale e derivato - ma anche (guarda caso) suo etimo originario - di ''conoscenza'', di relazione, di rapporto, di quella storia cioè che si vive insieme al teatro in teatro, prima che sia registrata dai libri, c'è una divisione fra quelli che sopra o attraverso questo rapporto passano alto e altro e i teatri che dentro lo stesso rapporto si fermano, si compromettono (talvolta si perdono). Ci sono teatri che sono più motivati e intensi nello scambio, che gestiscono la loro stessa "influenza", che registrano su di sé i segni vicendevolmente prodotti. I nomi che abbiamo già fatto (Living Theatre, Dario Fo, Odin Teatret) appartengono a una storia in più, - una storia sociale del teatro, dove sociale e teatro sono entrambi sostantivi di un rapporto-. Di questa storia in Italia caratterizzano tre fasi diverse e successive. Non sono teatri che hanno lasciato influenze, sono teatri che hanno messo in movimento. Sono stati anche detti - ma forse senza questa precisazione - "teatri del movimento". Non si era poi sbagliato di tanto. Questa non è una premessa, forse nemmeno ·un punto di vista, anche se è un discorso da "spettatore"; è l'imposizione di un punto di partenza magari scomodo e fazioso, larivendicazione - perfino contro il ricordo - di una "storia" in comune per una conversazione/intervista con Eugenio Barba, fondatore e regista dell'Odin Teatret, a troppi o pochi anni di distanza. Proprio l'anno scorso l'Odin ha compiuto vent'anni. Siamo in tanti ad avere gli stessi vent'anni. C'è una stagione culturale che ha vent'anni. Che può voler dire averli passati insieme e dentro un "teatro"? Altri l'hanno attraversati con una maggior solitudine, con meno armi e meno solidità; hanno una storia sempre più individuale fatta di esperienze contraddittorie, con il rischio di ritrovarsi un bagaglio azzerato. Che significa essere riusciti a mantenere le stesse relazioni, la stessa struttura, la stessa coerenza? Quanta "vittoria" sta nella continuità di una scelta? E che importanza ha la continuità nel teatro? Eugenio Barba. Quando cerco di capire i motivi di tutte le mie scelte o del modo come i miei compagni dell'Odin Teatret e io ci siamo orientati durante questi venti anni, non posso ignorare l'inizio. È l'inizio che decide. Il primo giorno, leprime ore dell'apprendistato teatrale creano i riflessi condizionati che fanno identificare la professione con determinate qualità, con valori e obiettivi specifici. Nel 1964, le persone che poi diventeranno l'Odin Teatret non sono accettate come attori e registi nel mondo tradizionale del teatro. Sono persone messe fuori. "Trovarsi fuori" da un certo campo o da una certa linea significa essere costretti a muoversi in un'orbita parallela, o meglio costruirla questa orbita, dato che non esiste. Non è soltanto una situazione parallela, è anche la manifestazione di una polarità. Da un lato un teatro ortodosso la cui dottrina e pratica sono riconosciute in coro come arte. Dall'altro lato, il suo "doppio" o il suo complementare: un teatro eterodosso la cui dottrina e pratica sembrano rispondere ad altre vocazioni, "altre voci". La mia visione così convinta secondo la quale "lì dove c'è vita, c'è polarità", nasce anche da questa origine, dal fatto di trovarmi fuori e mai sentirmi né attratto né disgustato dal teatro ortodosso, tanto da volermene avvicinare o allontanare. Questi venti anni l'Odin Teatret li ha attraversati in maniera "parallela". Non ha mai cercato di mischiarsi con il mondo teatrale dell'arte e dell'originalità. Non per contestazione, per programma, per pplitica. Semplicemente perché il primo giorno non fu accettato, si "trovò fuori". Sapevamo sin dall'inizio che il teatro è una doppia socializzazione: come processo e come risultato. Nel processo, visioni e temperamenti individuali debbono incontrarsi, intrecciarsi, fondersi in un risultato unitario, socialmente e culturalmente riconoscibile. Il teatro è anche questo micro-laboratorio di collaborazione. Il teatro è questa relazione di elezione. Tu scegli o sei scelto da determinate persone e costruisci una rete di relazioni operative il cui risultato - lo spettacolo - crea un nuovo contesto di relazioni con lo spettatore. Il contesto diventa la dimensione politica del teatro. Qui risiede la continuità dell'Odin Teatret: l'accettazione, durante questi venti anni, dell'esperienza dell'inizio. Da questa situazione è derivata la mia costante diffidenza per lo "spirito del tempo", per i gerghi, le mode, le increspature alla superficie, le seduzioni passeggere, gli effimeri dibattiti e polemiche che non tendono né permettono di incidere in profondità. La nostra "vittoria" è una vittoria contro la paura di restare fuori, di essere ridicoli, di essere considerati sentimentali o fanatici, mistici o elitari. Bisogna accettare di fare solo quello che uno sa fare. Lasciare tracce profonde, forse nascondere messaggi. Scavare. Mettere delle mine sotterranee: il teatro è anche de37

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