Linea d'ombra - anno II - n. 7 - dicembre 1984

66 di comprendere i diversi punti di vista, perché li affronti col maggior distacco interpretativo possibile, soprattutto nei confronti del suo personaggio. Ma come coniughi il distacco interpretativo col coinvolgimento emotivo di cui i tuoi attori sono portatori? Siamo arrivati ai due poli della questione: Brecht e Stanislavskij. Certo, secondo me lo spettatore non deve poter distinguere tra la personalità dell'attore e la parte che sta recitando. Ma ci deve essere sempre una certa distanza da questo personaggio - anzi, paradossalmente, quanto più c'è distanza tra attore e personaggio, tanto più esiste quella che io chiamo possibilità dialettica. Un attore deve essere conscio di questa distanza, e tuttavia calarsi completamente nello spirito della parte, senza svuotare le possibilità della sua performance presentando semplicemente dei "caratteri". In realtà io diffido della nozione di straniamento, secondo cui lo spettatore dovrebbe tener presente che l'attore sta dimostrando una parte, non la sta interpretando; per me è già abbastanza straniante il fatto che un attore salga sul palcoscenico e inizi a parlare. A mio parere gli attori del Berliner Ensemble mostrano troppo ciò che sanno, e la loro recitazione non è abbastanza intensa per poter sviluppare il gesto; finisce perfino per essere troppo "esteriore" per esprimere il testo. E lo spettatore non può esperire nulla. Nella mia versione de La madre, per esempio, io non volevo far provare solidarietà, anche se era questo l'intento di Brecht: il mio era invece quello di far vedere come può nascere un sentimento di solidarietà, di descrivere una problematica. Trovo, insomma, che l'idea di teatro di Brecht è sorpassata; quel suo discutere di straniamento, di illusione... Sono concetti da rivedere, riproporre ... Il principio dell'effetto di straniamento, per esempio, è giusto, era la reazione di Brecht all'empatia, ma, applicato sul lungo termine, è diventato una pratica inefficace, anzi una vera e propria trappola. Nel migliore dei casi risponde a un semplice effetto ornamentale; è un di più, un orpello; e proprio Brecht si era sempre scagliato contro tutti gli orpelli. È un autore stimolante ma non puoi prenderlo alla lettera, soprattutto quando parla in termini teorici; il giovane Brecht è per fortuna meno incline alle teorizzazioni, e nelle sue opere di quel periodo avverti una forza dirompente, una carica incredibile, in tutti i sensi; ma è una forza che Brecht costringerà presto negli schemi della sua teoria, teoria che si ridurrà a un complesso di leggi astratte. Questa è ancora una volta la dimostrazione che da una teoria non si può partire per far teatro. E per quanto riguarda Stanislavskij? Anch'egli va inquadrate nel periodo storico in cui ha agito e non semplicemente come portatore di un metodo, come si fa oggi con troppa faciloneria. Anche Stanislavskij ha espresso una sua reazione, nella fattispecie contro un atteggiamento esteriore, non esauriente, superficiale di far teatro. È vero, Stanislavskij suggerisce un modo per interpretare una parte nel modo più diretto possibile, ma la sua efficacia si ferma qui. Non è certo il cosiddetto metodo a portarti avanti nella ricerca teatrale. Io ho messo in scena la lezione di Stanislavskij realizzando, per esempio, un giardino vero sul palcoscenico - come feci ne/ villeggianti di Gorkij - o una casa intera - come ho fatto quest'anno ne Le tre sorelle di Cechov; oppure riproducendo i "termini di comunicazione'', i rapporti che contraddistinguono il gruppo con cui lavoro. Dirò di più: il mettere una casa in scena è per me anche un effetto di straniamento, perché il pubblico s'aspetterebbe di vedere una casa dipinta. A pensarci bene, molti miei effetti -troppo monumentali, secondo alcuni, nelle mie ultime messinscene - più che lavorare all'illusione sono antiillusionistici, demistificatori, direi. Se aderisco, cioè, al modulo naturalistico (aggettivo di cui tutti hanno paura, chissà perché) cerco di farlo in modo critico. E naturalistico è anche il modo in cui, umilmente, io e il mio gruppo ci "esponiamo" in ogni spettacolo, cosi, senza diaframma alcuno. Quasi ogni messinscena rappresenta la storia del nostro ensemble, la struttura di tutte le opere che affrontiamo riflette quella del nostro gruppo. È un modo per dimostrare che siamo consci delle nostre contraddizioni e della situazione che la società impone. In questo senso non evito mai l'aggancio al presente, che è chiaramente individuabile, infatti, anche nell'Orestea. Interrogando Eschilo abbiamo potuto interrogare noi stessi, scrutarci, riflessi attraverso l'opera che abbiamo messo in scena. Dopotutto, è soprattutto questo che intendo con "far teatro". Il teatro è l'unico mezzo che so usare per dire cose urgenti, essenziali. Si può dire che il teatro esiste per "necessità politica": la sua nascita risale al momento in cui l'uomo che voleva la pioggia ha improvvisato una danza per far sì che piovesse. Ed è solo il teatro che può esorcizzare un fenomeno come la morte. Come? Permettendo all'uomo di morire in scena, di realizzare un'azione solitamente impossibile. Ma il nostro compito, mio e dei miei attori, è esat.tamente quello di prefiggerci cose anche impossibili, per far sì che diventino reali. La tangibilità di un progetto teatrale richiede proprio il passaggio attraverso la fase di una sfida alla realizzazione, alla rappresentabilità - e alla società, perché oggi più che mai è controcorrente il solo fatto di far teatro.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==