EDITORIALE Il <<nuovo»internazionalismo METÀ DOTTRINA METÀ CODICE PRAGMATICO, il «nuovo internazionalismo» appartiene alla gamma delle duttili formule con cui i comunisti definiscono la propria politica. Uno di quegli sperimentati virtuosismi che consentono di mettere d"accordo un po' tutti nell'ormai policentrico PCI, salvando le apparenze. Piace ai più secolari, ai disincantati fautori della sinistra europea, che vi vedono più che altro un'accorta diplomazia. Accende l'immaginazione di quegli eurocomunisti che non rinunciano al «miraggio» della transizione a un ordine solidale tra i popoli fondato sul diritto rivoluzionario delle masse all'autoaffermazione, sulla sparizione delle classi e sullo sviluppo di una superiore economia socialista. Non scontenta i filosovietici. Il nocciolo strategico è la ricomposizione del movimento operaio in Europa: un'assimilazione implicita, quindi, alle scelte occidentali del socialismo europeo. Ma il nuovo internazionalismo non sarebbe tale se non lasciasse esercitare al movimento operaio la sua «funzione storica», come dice Pajetta («Rinascita», 28 marzo) ufficializzando questa dottrina, «al di là delle frontiere del nostro continente». Abbraccia per principio tutti i movimenti antimperialisti, si rende garante della varietà delle strade che conducono al socialismo, riconosce come propria «componente» fondamentale la Cina. non è antisovietico. In esso deve realizzarsi «in modo concreto e nuovo•, conclude Pajetta, quell'internazionalisn:io proletario che ha «più volte fatto fallimento». Un passo avanti e due indietro. Se i comunisti credono di rinvigorire in questo modo quel che rimane dell'eurocomunismo, di quel progetto disatteso di autonomia, ingannano se stessi e danno prova di un singolare non-senso storico. Del comunismo internazionale sono in realtà crollate le basi. C'è voluto il fragore delle armi per strappare ai conflitti di interessi, statali ed egemonici, che hanno frantumato l'universo comunista, quel velo ideologico che ne era rimasto il sottile involucro. Ben modesta deve tuttavia esserne stata la portata liberatoria se il più accorto Partito comunista d'Occidente aggiorna la propria strategia con un nostalgico richiamo alle origini. Con spirito evangelico i comunisti italiani diffondono come una buona novella l"internazionalismo, mentre millenarie rivalità nazionalistiche corroborano l'antagonismo tra micro-sistemi dr potere totalitario e gerarchico, e richiamano l'URSS «ai_punti più gloriosi della propria tradizione ' (la Rrvoluzrone d'Ottobre)• perché abbandoni l'idea dr «esportare» la rivoluzione - termini che la TASS pot~ebbe sottoscrivere - mentre questa potenza si assicura sfere di influenza a bordo dei carri armati. Difficile, insomma. di questo internazionalismo vedere il nuovo. Alimenta le remore del PCI nel giu~izio sull' Unio~e so_vieticae ne costringe l'analisi dell assetto mondiale rn una specie di cosmologia IL LEVIATANO esoterica. •Esiste~ sono ancora parole di Pajetta - una crisi del capitalismo che noi consideriamo di decadimento, corrispondente alla crescita di una domanda di socialismo, ed esiste anche una crisi del mondo socialista che noi possiamo giudicare di crescita•. Tradotta in termini di relazioni internazionali è questa anche la sostanza di ciò che i comunisti intendono per «fine del bipolarismo• e da cui fanno discendere un inedito «protagonismo,; dell'Europa che dovrebbe essere il perno di una redistribuzione di potere e ricchezza e quindi di un nuovo «ordine» che consenta lo sviluppo indipendente del Terzo (e Quarto) mondo. Che cosa sarebbe. al di là delle proposizioni di pacifismo utopistico, quest'Europa anti-eurocentrica, antimperialistica, anticapitalistica, in questo senso ami-americana e quindi non sgradita ai sovietici? Che cosa sarebbe. al di là dell'enfasi filantropica una redistribuzione delle ricchezze che conta sulla crisi irreversibile dello sviluppo industriale in Occidente, come se di questo sviluppo l'Occidente potesse ad arbitrio decidere di fare a meno? Troppo peso per le sole esili spalle europee. mentre le grandi potenze si disputano •interessi vitali» non facilmente componbili. Le insufficienze di analisi e le contraddizioni del1'occidentalismo neutralistico del PCI si corroborano a vicenda: niente potrebbe apparire più sfasato rispetto ai fatti. Eppure ciò che ha condotto i comunisti italiani in giro per l'Europa. in Cina. ciò che non li ha fatti partecipare alla Conferenza di Parigi. è la corrente del sistema internazionale. il calcolo degli interessi nazionali e internazionali. la valutazione spregiudicata degli effettivi rapporti di forza. la percezione dei segnali di squilibrio; non certo eteree verità internazionalistiche. Sono noti i limiti di questa politica che si barcamena tra obiettivi incompatibili: che cerca una fisionomia autonoma al riparo di qualche formula ideologica di copertura. che si muove in un orbita antisovietica riservandosi il diritto di veto· per scelte politiche contrarie all"URSS. Ha ragione Vittorio Strada («li Mondo». 25 aprile): il dissenso del PCI dall'URSS rischia di diventare «persino intellettualmente ridicolo». se questo partito non riesce a «delineare un orizzonte generale coerente per un insieme di singole prese di posizione affinché l'autonomia non sia un fatto (... ) astrattamente culturale ma si misuri sulla capacità di interpretare la realtà». Se questa politica - la sola attualmente possibile - sia una fase della lenta trasformazione del PCI In un partito di tipo socialdemocratico occidentale o se sia uno «stabile ubi consistam» come di recente ha sostenuto Giuliano Amato. è una questione che decideranno i fatti. Vulnerabilissima questa politica rimane nel non riuscire a esprimere un disegno chiaro per l'avvenire del continente da cui l"eurocomunismo prende nome. Pialuisa Bianco J
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