Il Leviatano - anno II - n. 14 - 22 aprile 1980

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EDITORIALE Per battere la DC lJopo LA FORMAZIONE DEL GOVERNO E la presentazione del programma in parlamento, ci sembra di dover confennare il giudizio formulato nella fase in cui si delineava la soluzione tripartita: il dato più negativo del secondo ministero Cossiga è l'elemento di divisione, il rischio di rottura, che esso introduce nei rapporti tra i partiti dell'area laico-socialista. Una divisione e una rottura che, con gli attuali rapporti di forza, condanna questi partiti al ruolo di partiti «minori», subordinati alle scelte della Democrazia cristiana, la quale, alleandosi di volta in volta con questi o quelli, evita di compiere le scelte di fondo che la gravità della situazione del Paese richiede, perpetua la sua egemonia, si avvia alla conferma della propria forza elettorale. Qul!le credibile opposizione alla lunga marcia del PCI verso il governo del Paese offre un'area laica divisa in quattro partiti in polemica, spesso aspra, tra di loro, incapaci - nonostante il comune richiamo ai valori fondamentali della democrazia occidentale - di abbandonare beghe sottili e incomprensibili, agli occhi dell'elettorato a tutto dediti meno che a delineare nei programmi e ad attuare nella pratica quei comportamenti che prospettino l'uscita del Paese dalla crisi più che decennale che l'attanaglia? Non è facile prevedere che, in queste condizioni, l'elettorato anticomunista finirà in larga parte per sostenere ancora una volta la Democrazia cristiana, confermandone il ruolo di padrona dello Stato? E viceversa: quale credibile alternativa alla Democrazia cristiana offrono quattro partiti di dimensioni limitate, il cui ruolo subalterno sembra dimostrato dalla disponibilità ad accedere al governo senza significativi condizionamenti del partito dominante, oppure dalla loro incapacità a resistere al loro accantonamento quando questo sia ritenuto utile da Piccoli e soci? E non è da credere allora che l'elettorato stanco del malgoverno democristiano finisca per pensare che alla DC ci si oppone solo votando per il Partito comunista, che, per suo conto, stando all'opposizione, rafforza la sua presa alla sua sinistra, ma contemporaneamente moltiplica i segnali verso l'elettorato non comunista, accentuando abilmente la divergenza da Mosca e aprendosi alla rassicurante socialdemocrazia europea? 1 Democrazia cristiana e Partito comunista - dirlo è diventato ormai quasi un luogo comune - si sostengono a vicenda. In quale Paese democratico un partito di governo inefficiente, logoro, clientelare, spesso inquinato dalla corruzione, privo di una strategia e di una visione politica lungimirante, gravido della responsabilità di aver condotto lo Stato alla situazione di sfascio in cui si trova, continuerebbe a mietere consensi elettorali e a restare imperturbabile e inamovibile nella cittadella del potere? E che cosa spiega tutto questo se non il fatto che, di fronte al pericolo del prevalere del Partito comunista, l'elettorato, «turandosi il naso», sceglie il male minore? E viceversa: come mai il Partito comunista, costretto ad abbandonare i suoi miti, le sue tradizioni, ridotto a non poter più difendere il modello di società che ha auspicato per tutta la sua esistenza, obbligato perfino a rimettere in discussione i suoi fondamenti ideologici e ideali, i principi stessi sui quali è stato costituito, continua ad essere quel gigante che è, se non per il fatto di apparire l'unica,. corposa, reale forza di opposizione al malgoverno democristiano? DC e PCI non sono alleati naturali; sono, anzi, oppositori naturali. Ma l'uno e l'altro traggono giovamento dall'esistenza del proprio opposto. Chi ha votato democristiano continua a farlo, malgrado tutto. Chi ha votato comunista voterà comunista in mancanza di altre, credibili, alternative all'egemonia democristiana. Ma, se così stanno le cose, appare chiara, per un verso, la responsabilità dei partiti dell'area laico-socialista per il permanere della Democrazia cristiana in una situazione di monopolio del potere e per i benefici che trae il PCI dal monopolio dell'opposizione; e, per un altro verso, emerge la loro miopia nel non saper cogliere l'opportunità di poter giocare un ben diverso e significativo ruolo nella vita politica nazionale. Certo, la forza di grandi formazioni politiche come DC e PCI non può essere abbattuta d'un colpo; certo, un partito d'ispirazione cristiana avrebbe comunque, in Italia, un vasto seguito di opinione e di elettorato, una grande organizzazione, con profonde radici popolari, come il PCI, manterrebbe dimensioni imponenti per un lungo periodo; eppure chi può lZ APRILE /980

dubitare che il processo di maturazione democratica che nel dopoguerra ha pur conosciuto l'opinione pubblica, il legame culturale, economico, politico, che lega l'Italia all'Europa, il diffondersi dei valori e dei costumi delle società più sviluppate dell'Occidente non produrrebbero alla lunga comportamenti politici ed elettorali simili a quelli europei e americani solo che un punto di riferimento, un polo di aggregazione reale e credibile cominciasse a mostrarsi? E, d'altra parte, il delinearsi di una consistente aggregazione di questo tipo non spingerebbe la DC a quel rinnovamento che l'esercizio incontrastato del potere impedisce? E non sarebbe questo a determinare, finalmente, il compimento di quel processo di revisione che il PCI sempre preannuncia e mai porta fino in fondo? Di qui nasce l'esigenza, che il nostro giornale porta avanti fin dal primo numero, di avviare un processo di unità e insieme di rinnovamento della cultura politica dell'area laico-socialista. Di unità, nella ricerca dei punti di contatto, nella individuazione di programmi riformatori comuni ai partiti dell'area, anziché di puntigliosa sottolineatura di divergenze spesso pretestuose. Di rinnovamento, nell'aprirsi alla cultura liberaldemocratica e socialdemocratica dei Paesi più sviluppati, nel superamento del provincialismo di buona parte della nostra classe politica, incapace di cogliere la dimensione sovranazionale dei problemi del Paese e restia ad apprendere da chi ci ha preceduto le possibili soluzioni. l'area laico-socialista rende tutto questo pm difficile di quanto non potesse apparire qualche mese fa. Non solo rimangono nell'area divergenze profonde nella prospettiva strategica, ostilità a un ravvicinamento, pesanti condizionamenti quando non vero e proprio servilismo verso i partiti più forti; quand'anche tutto questo non vi fosse. ragioni, se non altro, di concorrenza elettorale tendono ad approfondire, anziché a colmare, i solchi che dividono l'area laico-socialista. Né riteniamo che il nostro appello unitario debba precluderci una critica severa nei confronti di chi esplicitamente alla prospettiva unitaria si oppone, come il segretario repubblicano, o un apprezzamento per chi invece a questa prospettiva sembra credere, come i segretari del PSDI e del PLI. Ma né l'esistenza di divergenze e di concorrenze, né la libertà della critica, che ci riserviamo, ci consigliano di abbandonare la prospettiva che ci siamo fissati: quella dell'unità. La formazione di un governo che divide Anzi, riteniamo che sia giunto il momento di fare un passo in avanti. Di superare gli appelli alla concordia attraverso un tentativo di verifica, nel concreto, su questioni politicamente significative e rilevanti, della possibilità di delineare un programma comune per l'area laicosocialista. A questo confronto invitiamo gli amici che ci hanno seguito finora, per questa discussione apriamo le pagine del «Leviatano» ai contributi di quanti vorranno partecipare, nella convinzione che ciò che unisce finirà per prevalere su ciò che divide. LETTERE «Il Leviatano» nel Palazzo Caro direttore. I seguiamo il Leviatano fin dalla sua prima comparsa è ci è sembrato opportuno, dopo questi suoi primi mesi di vita, valutarne insieme sviluppi e prospettive future. Anzitutto le critiche: l'elaborazione più propriamente teorica, condotta indubbiamente da autorevoli e significativi esponenti del pensiero liberaldemocratico, pare portarsi dietro un non so che di antico, di obsoleto, quasi dimenticando che liberali e socialdemocratici siRniJìcano 01uii la parte trainante dei paesi industrializzati, e non soltanto testi, documenti, · proposizioni politiche «togate•, che paiono appartenere più al passato remoto della storia che proiettate nel futuro dei nostri tempi. Certamente lo sviluppo del pensiero politico dall'Ottocento ad oggi va tenuto a fuoco e abbeverarsi costantemente alle fonti IL LEVIATANO dà vigore al/' intervento nella quotidianità. Oggi però la realtà politica e sociale, tanto interna ai singoli stati che sovranazionale si è sfaccettata. raggiungendo una complessità strutturale ignota alle analisi anche le più acute e illuminate del passato. Gli interpreti dei classici che calcano la scena politica odierna, i vari Ola/ Palme, Willy Brandi, Pierre Trudeau, sono costretti a recitare in cerro qual modo a soggetto sul canovaccio proposto loro dal costante divenire della situazione internazionale, spesso vivendo contraddizioni fra prassi e teoria, alla ricerca della battuta adeguata: nella realtà odierna liberal- e socia/democrazia, più. che rigida deduzione da astratti principi sono coerente estrapolazione, empiricamente condotta, di linee di pensiero. Nelle pagine del Leviatano questo continuo ricercare, così dinamico rispetto a una realtà come quella politica italiana, è raramente ospitato. Si indugia spesso.forse a causa del/' esiguità dello spazio, a considerare la dialettica politica come dialettica fra segreterie, concentrando l'attenzione nelle azioni e reazioni tattiche. senza scavllre oltre es.H~ per ri/e,;are linee strategiche generali. E inoltre non ci pare da sottovalutare il tentativo che la rivista dovrebbe intraprendere per individuare come e quando nasca di fatto fuori dal Palazzo la realtà politica e ideale, per quanto ci interessa la stessa effettiva possibilità di una ag- ,?reRat.ione laico-democratica convinta del valore del/' assunzione individua/e di re.<pon.whilitti. Ciò presuppone un addolcimento del tono da addetto ai lavori, del taglio specialistico, per allargare le tematiche affrontate e discusse. Se è vero, come si deduce dal contenuto della rivista, che è falsa e artificiosa la dicotomia tanto cara alla nuova sinistra fra pubblico e privato. la scarsa considerazione riservata ad argomemi quali la scienza, l'educazione (senza volontaristiche utopie di uomo nuovo). le sfere creative ed espressive de//"attività umana. la nuova morale (empirica) che emer!Je tumultuosamente fra tecnologia e sogno, e che il pesante coperchio di luoghi comuni, orchestrati o tollerati che siano, non riesce a comprimere. si,tnifìca la rinuncia a un intervento tanto pili fecondo in quanto meno monocorde. Alzando troppo il tiro ci si spara in testa. È naturalmente, ne siamo certi, una questione di spazio. Perché il Leviatano «è fatto per non avere paura». Silvia Pastini e altri, Genova 3

... ..-r .... ■ - ■ .. ..-r .... ■ ... ■ .. "' ... - ... ■ .. "' ... - ALFA/N/SSAN Protezionismo di corte vedute A PORTARE UN PO' DI CHIArezza, in questo italianissimo dibattito sull'opportunità o meno di concludere l'accordo fra Alfa e Nissan, è stato il commissario della CEE per la politica industriale, Etienne Davignon. Senza troppi giri di parole. Davignon ha affermato che la Commisione non ha alcuna intenzione di condurre una politica difensiva, protezionistica del settore auto a livello europeo. L'auto è un settore in sviluppo, non in declino, e lo stimolo della concorrenza dei produttori extraeuropei non può che giovare alla sua razionalizzazione. Davignon ha detto queste cose in occasione di una smentita ufficiale di voci circolate fra i maggiori produttori europei di automobili, voci secondo le quali la CEE avrebbe annunciato ai produttori italiani la sua disponibilità a una azione di difesa del settore, e dunque a «coprire• politicamente il veto all'accordo Alfa/ Nissan. Il fatto che a livello europeo la prospettiva dell'invasione giapponese venga vista con questa «serena aggressività• è importante per almeno due motivi. Primo, perché seguendo la via del protezionismo l'Italia sarebbe politicamente sola, in un settore, quello delle lotte commerciali, al cui tavolo delle trattative la fedina bisogna sempre averla pulita. Secondo, perché l'Italia sarebbe economicamente sola e il pericolo allontanato dalla porta si riaffaccerebbe alla finestra. La Nissan, infatti, come altre case americane e giapponesi, ha già concluso (in Spagna per il settore degli autocarri) o si appresta a concludere accordi simili a quello con l'Alfa Romeo in altri paesi membri della CEE, da dove le esportazioni verso l'Italia non potrebbero essere impedite (a meno ...... ~ ... .. ii .. "' .. che tanti paladini del libero scambio non scoprano, all'improvviso, che la comunità europea è una cosa da buttar via). · Dunque, teniamolo ben presente: che si concluda o no raccordo Alfa/Nissan, un'invasione di auto giapponesi, prima o poi, ci sarà comunque. Giustamente, perciò, la commissione incaricata dal ministro del bilancio di studiare le condizioni e le prospettive dell'industria automobilitistica italiana non ha accennato all'accordo in discussione, ma ha denunciato con molta chiarezza le ragioni di fondo del declino del settore in Italia. Alcune sono comuni ad altre industrie: caduta di produttività, scoordinato e carente intervento pubblico nella ricerca e nello sviluppo di nuovi modelli e nuove tecnologie. Altre riguardano in particolar modo il settore auto: errori nella politica di prodotto, che hanno condotto alla attuale carenza di modelli nuovi e competitivi con quelli della concorrenza (auto a basso consumo, da produrre in quantità enormi in tutto il mondo e da vendere a prezzi stracciati, ma che per essere pensate, progettate e realizzate richiedono anni di lavoro e centinaia di miliardi di investimenti); alti costi dei componenti, che all'estero vengono prodotti su larghissima scala per imprese diverse da poche aziende. Ora, tutti questi problemi non si risolvono mettendo l'industria italiana «in mutua• e proteggen22 APRILE 1980

dola finché non sia guarita. Quantomeno per un motivo molto semplice: che la Fiat si è ammalata non per i rigori della concorrenza, ma proprio per gli stravizi concessi dalla protezione dalla concorrenza giapponese a managers, sindacati e forze politiche che nella Fiat e intorno alla Fiat lavorano operano e decidono. La Fiat, tino a<lura, ha ottenuto che le importazioni di auto giapponesi in Italia non superassero le 2000 vetture alranno, ricorrendo alla clausola di salvaguardia prevista dall'articolo 115 del trattato istitutivo della CEE. OPERAI DELLA NISSAN Ciò ha permesso a tutti (a cominciare dal PCI, non solo alla Fiat) di rinviare per anni un problema che ora è drammaticamente alle porte. Per questo è lecito chiedersi: chi ci garantisce, chi garantisce, soprattutto, il consumatore costretto a comprare auto· più care di quelle disponibili su altri mercati, che il metodo dei piani di settore, delle «conferenze di produzione», dei mille favori ed esenzioni concessi a un'industria in nome della sua «centralità» sia la soluzione di un problema che questo stesso metodo ha contribuito a creare? IL LEVIATANO Punti di vista. si può dire. Oppure: «Potenza della Fiat», con le parole del suo amministratore delegato, Cesare Romiti che così laconicamente rispose a un giornalista dell'Espresso che qualche anno fa chiedeva chiarimenti sulla storia delle 2000 vetture ali 'anno. Comunque, potenza o meno della Fiat (o miopia di chi queste cose concesse per tanti anni) in tutta la faccenda dell'accordo Alfa/Nissan resta un aspetto sicuramente problematico, e importante per l'economia italiana. Si tratta dell'assetto proprietario dell'Alfa Romeo, della sua mai chiarita indipendenza dal potere politico, del suo operare sul mercato italiano, della «trasparenza» insomma della concorrenza che ora verrebbe a fare alla Fiat. Non avrebbe senso, infatti, far tanti discorsi sulla concorrenza quando poi uno dei partecipanti al gioco può permettersi di tutto. Non si può fare i liberisti a metà. Se l'Alfa e i suoi dirigenti hanno deciso di fare sul serio, dall'esterno bisogna cominciare a fare sul serio con l'Alfa. L·Alfa, insomma, deve assumersi totalmente i rischi di questajoint venture. deve essere costretta a trovarsi i capitali al prezzo e alle condizioni vigenti per tutti gli altri; il potere politico deve chiarire quali sono i limiti della sua ingerenza nelle scelte aziendali, perché questa non sia causa prima e giustificazione poi di cattivi risultati di gestione; i sindacati e i partiti devono permettere che il vantaggio nei costi ottenuto importando dal Giappone l'acciaio stampato con cui saranno fatte le scocche della Cherry possa essere raggiunto anche dalla Fiat, anche se ciò aggraverà la crisi di un altro settore italiano, quello siderurgico. Si traila di questioni solo apparentemente settoriali, che riguardano le regole del gioco e l'assetto istituzionale entro cui deve muoversi l'economia italiana. Un chiarimento su questo sarebbe molto più importante di tanti di- . scorsi su mercati, settori, produzioni destinati, nel giro di pochi mesi, a perdere interesse e utilità politica. Silvio Bencini ■.a..-r-.-...■ ... ii .. "' ... VALERIO ZANONE ' • o Llf!/LAB Il gioco perverso del bipartitismo QuANTO DURERÀ Il «COSSIga secondo»? Nessuno può dirlo, perché in realtà nella struttura e nella maggioranza di questo governo coabitano elementi contraddittori. C'è certamente la volontà di una parte della DC e di buona parte del PSI di farlo durare, ma negli stessi due partiti non sono da sottovalutare le forze che aspettano l'occasione buona per farlo cadere. Piccoli e Craxi lo considerano il loro capolavoro ai fini interni di partito, ma sanno benissimo che la navigazione non sarà tranquilla. Ci sono appuntamenti che neppure l'abilità manovriera di Cossiga potrà evitare. Ma lasciamo stare per un momento le fasi contingenti della situazione politica e cerchiamo invece di dare uno sguardo oltre il ponte del «Cossiga secondo». Indubbiamente la situazione italiana è così intricata, e per 5

■.a..-rlllf9.a■ _ ■.a..-rlllf9.u■ ... ■ lliiiii..... - .... lliiiii ..... PIETRO LONGO giunta priva di grandi protagonisti su cui poter costruire delle ipotesi, ch'è assai difficile azzardare previsioni o disegnare scenari. Quando tutto vacilla e mancano solidi punti di riferimento bisognerebbe essere profeti per indovinare il futuro. Ma su una cosa forse si può scommettere: l'uscita dei socialdemocratici e dei liberali dalla maggioranza è uno di quei fatti politici che avranno un peso non irrilevante nel prossimo futuro. Non a caso Cossiga. Craxi e Piccoli. e forse un po' anche Spadolini. hanno cercato di non rompere tutti i rapporti con i liberali. Essi si rendono conto perfettamente che l'alleanza tra socialdemocratici e liberali può dar vita ad una opposizione consistente e pericolosa per i loro progetti. Da soli i socialdemocratici si troverebbero a svolgere il ruolo di vedove o di orfanelli. al massimo di coniugi traditi. Insieme con i liberali. al contrario. possono costituire una politica e forse dare corpo addirittura a quel disegno di alternativa liberaldemocratica che finora è sempre stato impos6 sibile per gli interessi divergenti dei laici. Una politica ben congegnata, con distribuzione oculata delle parti. pur mantenendo ognuno la propria identità e autonomia. può finalmente delineare una oppo izione di sicurezza democratica di cui c'è gran bisogno in questo paese allo sbando. Dal punto di vista della sicurezza democratica PSDI e PLI offrono solide garanzie. Se il PSDI ha da farsi perdonare un lungo sodalizio di potere (è dal 1947. dall'epoca della scissione di Palazzo Barberini. che la socialdemocrazia italiana non va all'opposizione). è pur vero che questo partito sta cercando di darsi una nuova immagine grazie alla grinta e all'attivismo del suo giovane segretario. Il PSDI. inoltre, è un partito dotato di quel minimo di strutture sufficienti per far sentire la sua presenza dentro le forze sociali. li PLI. povero invece di strutture. ha dalla sua il prestigio e la credibilità che gli vengono dalla tradizione e dalla lontananza dal potere e sottopotere. oltre che dal bagaglio culturale e dalla presenza di uomini ■.a..-rlllf9.a■ - ... ■ lliiiii..... nuovi e validi accompagnati o vecchi protagonisti la cui rispettabilità è fuori discussione. Sta proprio qui, in questo auspicabile assemblaggio di energie, la possibilità di dar vita ad una fase diversa della politica italiana. Si tratta non tanto di inventare una politica, ma di darle una immagine ed una identità agli occhi dell'opinione pubblica alla ricerca disperata di un ancoraggio. Esistono vaste zone della società italiana da occupare e da aggregare. In questa operazone, tutt'altro che impossibile, la socialdemocrazia ha il compito di offrire garanzie di giustizia socia-. le. mentre ai liberali tocca la grande missione della difesa delle libertà individuali sempre più minacciate da una legislazione selvaggia e punitiva verso il risparmio e i dirigenti dei singoli. Quel «lib-lab• che i socialisti hanno soltanto strumentalizzato potrebbe tornare a rivivere proprio con questa nuova alleanza tra laici. La concezione politica alla base del «lib-lab• è giustissima - conciliare appunto, l'esigenza di giustizia sociale con le esigenze di libertà - ma bisogna saperla realizzare nei modi, nei tempi e con le forze che le occasioni offrono. C'è. infine, un'occasione che le forze liberaldemocratiche non debbono lasciarsi sfuggire ed è l'aggregazione dei ceti medi. vere vittime di una situazione politica scollata e nevrastenica. La fase storica italiana è caratterizzata da due elementi carichi di rischi: il terrorismo. frutto del malessere giovanile. e il malcontento dei ceti medi. Francamente non saprei dire quale dei due sia più pericoloso. Mi sento di dire. però. che le forze liberaldemocratiche hanno il dovere di non lasciare alle loro tensioni e alle loro inquietudini i ceti medi. Fu una colpa di cui si caricarono già nel 1919-22 i partiti democratici e gli stessi socialisti. lasciando che a catturare i ceti medi fosse il fascismo. Oltre tutto. c'è in quella direzione un grande spazio politico da conquistare per dare consistenza a quell'alternativa liberaldemocratica che può finalmente spezzare il gioco perverso del bipartitismo imperfetto in cui si stanno consumando le nostre istituzioni. Egidio Sterpa 22 APRILE 1980

EUROPA Inerzia e velleità È CERTAMENTE VERO, CO· me lascia intendere quel cortese gentiluomo di campagna che cor· risponde al nome di Giscard d'Estaing, che il presidente americano sia un personaggio oscillante, irrisoluto e forse incapace. Come altrettanto vero è che il suo furbastro procedere nella vicenda degli ostaggi sequestrati nell'am• basciata americana di Teheran puzzi di elettoralismo di basso livello. Non occorrono molte prove per dimostrarlo: basterebbe per questo ricordare che già nella prima settimana dell'incredibile gesto dei sedicenti studenti iraniani,dietro gli Stati Uniti vi era la quali totalità dell'opinione pubblica mondiale (compresi i governi dei Paesi comunisti), e che all'indomani del voto dell'assemblea delle Nazioni Unite dietro il loro buon diritto vi erano almeno quattro quinti degli Stati esistenti nel globo. Che il capo dello Stato più potente del mondo si sia lasciato sfuggire i vantaggi di questo quasi unanime consenso mondiale è cosa che ha dell'incredibile se non si fosse indotti a ritenere che il suo comportamento, oltre ad aspetti caratteriali, era ed è dettato dal procedere della battaglia per la nomination. Il fatto più grave però è che i Paesi europei si sono adagiati comodamente al riparo dell'inettitudine del presidente americano per ritenersi esentati da ogni iniziativa e da ogni responsabilità. Come se la vicenda non li toccasse direttamente, non soltanto perché l'inaudito sequestro di Teheran costituiva un precedente inaccettabile per qualsiasi Paese civile, ma anche per le implicazioni politiche che avrebbero in ogni caso coinvolto l'Europa. La miseria politica e morale dei governanti europei ha toccato in questi ultimi sei mesi il fondo e se oggi essi sono angosciati per l'aut aut del presidente americano, non hanno che da incolpare la loro abulia e IL LEVIATANO ~~ .. ~~ !!!!! .... • lliiii... la loro disunione. Già almeno il passo, o meglio balletto, dei 9 ambasciatori della CEE doveva essere compiuto in modo autonomo molti mesi fa e non sotto la spinta di Carter, il quale con le sue comprensibili rampogne ha convalidato la sprezzante accusa di sciacallaggio lanciato alcuni anni or sono dall'ex segretario del dipartimento di Stato, Kissinger, agli europei. E ciò dimostra, tutto sommato, che gli americani nutrono verso questa Europa tremebonda e succube l'unanime convinzione di essere soli a sopportare il peso della difesa occidentale e di non poter mai essere sicuri della solidarietà europea. Come e perché sorprendersi se essi di tanto in tanto manifestano vocazioni isolazioniste? Come e perché sorprendersi se essi tendono poi a risolvere bilateralmente il contenzioso con il blocco comunista? Come è perché sorprendersi se l'Europa non è riuscita, malgrado la sua prodigiosa rinascita, KHOMEINI di mettere in piedi una decente partnership? Queste sono le amare riflessioni che l'inerzia dimostrata dai Paesi europei induce a fare e non tanto come constatazione, ma quanto come base di discussione sui pericoli che li coinvolgono. Perché è evidente che se vi sarà un perdente nella vicenda della crisi irano-americana esso sarà l'Europa nel suo insieme; l'Europa in quanto apparenza di unità politica. Riflettiamo un istante. Al punto in cui sono le cose, la conclusione della crisi provocata dai coltissimi «studenti• iraniani non può avere che tre ipotesi di soluzione, delle quali l'ultima - che ci auguriamo non abbia a realizzarsi - sarebbe militare. Scartando quest'ultima non resta che la liberazione degli ostaggi immotivata, al pari della stessa follia del sequestro. o la mediazione. Appunto: chi può operare una mediazione? Non certamente 7

l'ONU già abbastanza emarginata dall'insuccesso dell'infelice visita di Waldheim a Teheran e dall'inutilità del voto dell'assemblea generale. Una mediazione vaticana esiste solo nelle menti provinciali e limitate di certi giornalisti italiani. Nel mondo arabomussulmano non esistono mediatori credibili; né è ragionevole dar credito alle fanfaronate del pittoresco Arafat. La CEE è stata già messa fuori gioco dalla sua abulia e dall'ormai velleitario balletto dei suoi ambasciatori di qualche giorno fa. Restringendo la rosa dei possibili mediatori non restano che l'URSS e la Francia. Una mediazione sovietica, seppur possibile, significherebbe per gli USA e tutto l'Occidente la perdita totale dell'Afghanistan e la sconfitta della politica di containment, abbozzata in questi ultimi tempi e che fino ad oggi, forse) ha una qualche possibilità di successo, se i russi riusciranno a tirarsi fuori dal ginepraio afghano. Resta, infine, la Francia di quel cortese gentiluomo di campagna che si chiama Giscard d'Estaing. Anche se è vero che il suo ambasciatore a Teheran si è recato da Bani Sadr insieme agli otto dei Paesi della CEE, egli si è affrettato ad assumere un atteggiamento defilato, di distacco che potrebbe consentirgli qualche margine di mediazione. Ma in ogni caso sarebbe una mediazione «dai colori B della Francia». Cioè un gesto in cui risalterebbe solo un ruolo puramente nazionale, e non europeo, di quel Paese autoconvinto di essere ancora una grande potenza. E comunque non esprimerebbe un atteggiamento unitario e solidale dell'Europa. · Se le cose andranno così, come a nostro parere è probabile, nessuno potrà salvare l'Europa dall'accusa di velleitarismo. Gianni Finocchiaro CUBA ... prima le donne e i bambini o «S1 È AVVIATA IN QUESTI ultimi giorni - scrive Tomas Maldonado sull"'Unità" del 13 aprile (il corrispondente dell'organo comunista dall'Avana, Nuccio Ciconte, per misteriosi motivi, ha cessato di "corrispondere" proprio in questi giorni cruciali)- una massiccia e ben concertata campagna di stampa (... ) sul problema dei rifugiati cubani nella ambasciata del Perù•. che merita «una attenta riflessione da parte del (... ) partito. La campagna di stampa tenderebbe a far credere che «una massa immensa di dissidenti ha invaso una ambasciata per chiedere di "fuggire" da Cuba, dove evidentemente era perseguitata». «Ma è credibile tutto questo?•, si chiede il Maldonado. No. Perché il governo cubano, «primo tra i paesi socialisti, riconosce il "pieno diritto ad emigrare per chiunque ottenga il visto di altri paesi e abbia compiuto il servizio militare•; e, inoltre, tale «liberalizzazione dell'espatrio non è un fatto nuovo, legato contingentemente alla protesta dei "rifugiati". In breve: il problema reale è dunque la concessione del visto da parte dei paesi stranieri, in primo luogo gli USA che, come si sa, hanno ferrei controlli sulla emigrazione». A sentire il collaboratore del1' «Unità», insomma, la protesta dei «dissidenti» sarebbe, nella sostanza, contro gli Stati Uniti. Infatti da Cuba, a parte qualche lungaggine, si è liberi di andarsese: ma il maledetto vicino Paese imperialista non offre il visto di ingresso. I «dissidenti•, allora, avrebbero pensato di forzare la mano a Carter occupando l'ambasciata peruviana. Cuba è innocente. Come stanno le cose? Se l'unica difficoltà è, come afferma Maldonado, per i cubani che vogliono andarsene quella di trovare un Paese disposto ad accoglierli e se gli Stati Uniti, per i loro biechi fini, rifiutano questa accoglienza, sarebbe anzitutto logico che il Partito comunista proponesse al governo italiano di accogliere, seguendo l'esempio della Repubblica federale tedesca, una propria quota di emigranti. Ciò che non solo il PCI non fa, ma il nostro governo, pilatescamente, non decide autonomamente, per non fare inutili sgarbi ai comunisti. Ma è vero, in ogni caso, che i cubani sono liberi di andarsene dove vogliono? Si noti anzitutto che per i cubani l'unico modo di viaggiare all'estero è quello di andarsene definitivamente, ammesso che ci riescano. Non è previsto il viaggio di andata e ritorno. Riferisce ancora Maldonado, correttamente, di aver «potuto personalmente verificare che gli alberghi di Cuba• sono «strapieni di visitatori•. 22 APRILE /980

I Si tratta, continua Maldonado, «di ex-cittadini cubani fuggiti negli USA dopo la rivoluzione (per lo più residenti a Miami)• che tornano «per visitare le famiglie dopo la riapertura delle frontiere». Non si chiede, il nostro, perché le frontiere siano state aperte in una sola direzione: e cioè perché i cubani di Cuba non possono andare a «visitare le famiglie• che risiedono negli Stati Uniti, ma solo i residenti negli USA possano «visitare le famiglie• sull'isola., - L'unico modo di uscire da Cuba è dunque quello di andarsene definitivamente. li che è possibile, sia pure a prezzo di «esasperanti lungaggini burocratiche». Tutto qui: basta avere pazienza. Non dice ai suoi lettori, il Maldonado, che le lungaggini burocratiche sono più o meno le seguenti: il malaugurato cubano che decide di chiedere il visto di espatrio non ha la garanzia che il visto gli sarà effettivamente concesso: dipende dalla «burocrazia•. Forse il visto arriverà, tra un anno, due, tre anni, forse mai. Nel frattempo egli è automaticamente iscritto nell'immateriale, ma reale, libro dei «gusanos•, ovvero «vermi•, come graziosamente li chiama il governo, traditori del socialismo, della rivoluzione, della patria. Per ciò stesso cesserà di avere un lavoro regolare e uno stipendio regolare, diventerà preda di tutte le possibile angherie di tutta la burocrazia del regime. All'Avana - ci spiegava «L'Unità• in un articolo precedente - alcuni prodotti di consumo vengono distribuiti tramite l'autorizzazione dei comitati d'impresa, vengono cioè dati ai lavoratori più fedeli al regime. Il povero «gusano», naturalmente, questi beni di consumo può tranquillamente scordarseli. Chi decide di emigrare cessa di essere un cittadino di serie A (ammesso che cittadini di serie A in un Paese totalitario ce ne siano), mangia quando può, può essere fermato, arrestato, deportato al lavoro coatto, maltrattato - lui e la sua famiglia - senza che nessuno alzi un dito per difenderlo. È vero, ha ragione Maldonato, non esiste una proibizione di emigrare (ma qualche anno fa è esistita: e il fatto che si sia arrivati a questa proibizione nonostante il costo che gli aspiranti emigranti IL LEVIATANO sono disposti a pagare dice molto sulla reale volontà di buona parte del popolo cubano): ma il prezzo per emigrare (forse: non c'è alcuna certezza, va sottolineato) è elevatissimo, in termini materiali, morali, di umiliazione, di degradazione umana e civile, e non tutti, naturalmente, se la sentono di affrontare questa trafila. Stando così le cose, si comprende come, nell'attimo in cui si delinea una possibilità di emigrare al «modico• prezzo di trascorrere qualche giorno nelle condizioni inumane in cui vivono i rifugiati del giardino dell'ambasciata del Perù, tutti quelli che fanno in tempo a raggiungere il suddetto giardino vi si precipitino. Che diecimila persone decidano di lasciare una capitale di due milioni di abitanti non è di per sé significativo. Ma che lo decidano da un momento all'altro, senza salutare parenti, lasciando le loro povere cose e case abbandonate, disposti a ficcarsi uno accato all'altro in un giardinetto pieno di vomiticcio e di escrementi. apre uno squarcio sui sentimenti reali del popolo dell'Avana. FIDEL E RAUL CASTRO ~~-- lliiiiiii.. ■ lliiiiiii"' ii Eppure, prosegue Maldonado, la rivoluzione cubana di cose ne ha realizzate: l'alfabetizzazione, la fine della disoccupazione, la diminuzione della mortalità infantile. Certo. E perché mai si dovrebbero negare i risultati positivi acquisiti? Dimentica però il collaboratore dell' •Unità» di chiedersi a quale prezzo questi risultati sono stati ottenuti. Non perché, da parte nostra, si voglia proporre una diversa scala di priorità, non che non si voglia anche ammettere che forse è giusto pagare i prezzi che sono stati pagati per ottenere i risultati che sono stati acquisiti. Ma chi è giudice se i risultati giustificano il prezzo che si è pagato? Non dovrebbe essere il popolo cubano a decidere la propria via, il proprio «modello di sviluppo•, quali obiettivi siano da perseguire, al costo di quali sacrifici? Ma al popolo cubano, come ai popoli di tutti i Paesi socialisti, questa scelta è preclusa. A Cuba decide il «leader maximo•, e decide per tutti. Ai cubani un solo modo di votare è lasciato: quello di cogliere l'occasione propizia per andarsene. 9

o BUSINESS Il cappio tecnologico Fu LENIN AD AFFERMARE che sarebbe stato lo stesso sistema capitalistico, nella logica della economia di mercato, a fornire, o meglio a vendere, al blocco comunista la corda per impiccarlo. In toni non ceno autoironici, la battuta è stata rispolverata recentemente in una seduta del Senato degli Stati Uniti dedicata al problema, sempre più pressante, posto dalla vendita, diretta e indiretta, ai sovietici di tecnologia di produzione occidentale e giapponese. Non è una novità: in Unione Sovietica, pur in presenza di una ricerca matematico-scientifica che tiene il passo di quella occidentale, non si sono mai destinate risorse all'affinamento tecnologico. Mobilitare in tal senso l'apparato produttivo si rivela di fatto incompatibile con un sistema economico rigidamente centralizzato e una scelta economica più liberale avrebbe senz'altro indebolito l'efficacia del controllo politico che il panito comunista esercita capillarmente sulla società sovietica. Parve quindi sempre più facile, e più sicuro, ai dirigenti sovietici acquistare tecnologia dall'Occidente, evitando da un lato di incriminare la monolitica organizzazione sociale e produttiva nazionale e sfruttando dall'altro i crediti occidentali per alleggerire il peso sul settore civile, riservandosi così di concentrare sforzi e risorse sul potenziamento della loro macchina bellica. Questa almeno è la spiegazione corrente dell'arretratezza tecnologica sovietica. Sta di fatto che negli ultimi anni i sovietici stanno pagando il prezzo di questa politica. li gap tecnologico fra Oriente e Occidente si è man mano ampliato e oggi i paesi del blocco comunista dipendono in modo· massiccio dalle imponazioni di tecnologia occidentale per la modernizzazione del loro apparato 10 produttivo. Circa 1'80%del polietilene sovietico, il 75% dei fenilizzanti chimici, il 40% del cemento, il 70% delle automobili e degli autocarri sono prodotti da impianti occidentali. Dal 1967 le esportazioni occidentali verso l'area comunista sono decuplicate e i paesi occidentali e il Giappone hanno firmato più di 2500 accordi commerciali con paesi del blocco sovietico per la fornitura di prodotti tecnologicamente avanzati (50%), macchinari sofisticati e centinaia e centinaia di impianti industriali •chiavi in mano». L'URSS ha acquistato oggi all'estero beni strumentali per dieci miliardi di dollari l'anno, destinandoli soprattutto al potenziamento dei settori dell'industria che più pesantemente dipendono dalle tecnologie avanzate. Dagli Stati Uniti l'URSS importa soprattutto prodotti chimici, computer, semiconduttori, macchine contabili, parti di automobili, cuscinetti a sfere, impianti per la ricerca la trivellazione e il pompaggio di petrolio e gas combustibili; dalla Germania occidentale apparecchiature fotografiche e strumenti ottici, cronografi, sincronizzatori e congegni a tempo in genere, locomotive diesel e macchine per l'edilizia; dal Giappone impianti per la produzione di acciaio, per la trivellazione di pozzi petroliferi, timer, congegni per il controllo automatico dei processi produttivi, televisioni, computer. apparecchiature elettroniche, semiconduttori e microconduttori. E non è ceno un caso che faccia parte della routine delle trattative di acquisto l'esame accurato da pane di tecnici militari delle tecnologie occidentali richieste, per esplorarne il potenziale uso strategico. Più volte imponazioni sovietiche destinate sulla cana ad usi civili, sono state dirottate a fini militari. Valga ad esempio il caso dell'acquisto di apparecchiature elettroniche per la navigazione strumentale da varie ditte statunitensi e giapponesi e che anziché essere destinate ad usi civili aiutano ora l'aviazione e la marina militare sovietica nell'individuazione dei sommergibili americani; o quello dei componenti elettronici di produzione giapponese convertiti per consentire la guida dei missili tramite i computer. O, ancora, il caso dei colossali impianti per la produzione di automezzi pesanti realizzati a Zii e nei pressi del fiume Kama con lo . acquisto di oltre 130 brevetti meccanici ed elettronici statunitensi e di informatica giapponese per più di tre miliardi di dollari. Destinata in sede di accordi al mercato interno la produzione si è però ben presto diversificata a comprendere mezzi d'assalto anfibi, lanciamissili, automezzi militari: gli stessi che corrono ora per le strade d'Afghanistan. Ma anche il problema di controllare le esponazioni dall'Occidente verso i paesi del blocco comunista non è affatto nuovo. Pur semisegreto e operante nell'ombra pressoché totale, fin dal 1949 esiste a tale scopo un'emanazione informale della NATO, il COCOM, un comitato di coordinamento cui aderisce anche il Giappone. All'indomani dell'invasione sovietica dell' Afghanistan, l'amministrazione Caner si affrettò a richiedere per un aggiornamento la lista dei prodotti «strategici» soggetti prima della esportazione verso l'area comunista alla preventiva approvazione del COCOM, e della quale la stessa amministrazione e i suoi alleati industrializzati avevano appena concluso Ja revisione triennale ordinaria. Ma gli Stati Uniti sono impotenti, per loro stessa ammissione, a frenare il flusso di tecnologia verso il blocco sovietico senza un convinto appoggio dei loro alleati. Sta di fatto che proprio dagli alleati industrializzati degli Stati Uniti tale flusso si è mantenuto costante spesso a spese delle industrie statunitensi che si sono visti offrire gli stessi lucrosissimi affari solo per scontrarsi con il veto governativo. Che citare Lenin cada a proposito lo dimostra ampiamente il fatto che in ogni occasione le autorità sovietiche non dimenticano di sottolineare quanto l'interscambio con i paesi del loro blocco, ottanta miliardi di dollari l'anno, sia estremamente conveniente alle economie dell'Europa occidentale. b.g. 22 APRILE /98()

I VERDI 0 Il partito delle caverne UNo sPEITRo DI AGGIRA per l'Europa: questa volta è verde, il colore dei gruppi ecologisti che stanno rivoluzionando il panorama politico in Svezia, in Germania, in Inghilterra, in Francia e che cominciano ora a darsi qualche forma di organizzazione anche in Italia. Proprio l'esperienza tedesca, peraltro, dimostra che il verde degli ecologisti non è privo di sfumature spesso contraddittorie. All'ultimo congresso di Saarbrucken sono esplose clamorosamente le contraddizioni degli ecologisti. Così. una frattura insanabile si è creata fra chi desidera mantenere il carattere «verde» e chi vuol fare del movimento ecologista un nuovo strumento per scardinare il sistema industriale e capitalistico. Per il momento, questa linea ha prevalso con una chiarezza che dovrebbe far meditare chi si illude di poter cavalcare disinvoltamente la tigre della battaglia ambientale, e crede magari che per farlo, basti dimenticarsi di parlare dell'energia. Dietro il successo dei verdi, infatti, non c'è affatto solo l'impegno ecologico o come si dice da noi, per la «qualità della vita». O, se c'è, esso è espresso con una tale confusione di idee e di obiettivi da renderlo uno slogan come tanti altri, un'etichetta che può nascondere qualsiasi prodotto. Già la svolta dal precedente congresso dei verdi tedeschi, svoltosi appena pochi mesi fa a Karlsruhe, è evidente: allora, i lavori si erano conclusi con una idilliaca mozione in cui i verdi si dichiaravano «per una evoluzione in cui siano evitate le rivoluzioni, le guerre e le distruzioni del futuro»; adesso, la linea oltranzista ha prevalso e la mozione finale parla di obiettivi assai più precisi, come lo scioglimento di tutte le alleanze militari, di incoraggiamento ai movimenti di liberazione del terzo mondo, di «inve:;tiIL LEVIATANO menti diretti e controllati da gruppi autoamministrati». Puntualmente, in Italia, ha fatto eco sul «Manifesto» il vice direttore de «La nuova ecologia» che ha chiarito che «i gruppi dei verdi ... non rappresentano che la parte emergente di un fermento più profondo che scuote tutte le società a capitalismo maturo, in maniera diversa ma sempre radicale». La caratterizzazione ideologica dunque è netta. Nella battaglia dei verdi, infatti, l'impegno per l'ambiente non conta più di tanto. Il carattere che prevale con più nettezza, infatti, è la logica anti-industriale che promette pulizia delle acque e della società, solo a prezzo della fine dello sviluppo industriale. Non a caso, la battaglia ecologica di questi gruppi si collega con i toni più collerici di quella antinucleare che rifiuta «il nucleare• (ma anche il carbone e, spesso, la stessa opzione idroelettrica) non spiegando poi come si possa ugualmente garantire il progresso e lo sviluppo. A meno che non vi si voglia rinunciare. Non è ancora un caso se, in tutto il dibattito sollevato dalle battaglie ecologiste, per affrontare il problema secondo una logica meno «piagnona», vendicativa, komeinista non si sia mai pensato di ricorrere. o di cominciare a discutere. di sistemi di tutela dell'ambiente basati sulla diffusione di «diritti di proprietà» ovvero che scaricano su chi inquina - e secondo quanto inquina - e non sulla società il prezzo dell'inquinamento: sistema che, senza mortificare lo sviluppo, responsabilizzerebbe l'individuo consentirebbero un più diffuso controllo sociale dell'inquinamento e graduerebbero il costo in proporzione al danno effettivamente causato. Infine, l'esperienza tedesca e lo spostamento dei voti da un partito all'altro, dimostra che dietro il successo dei verdi c'è la sempre maggiore sfiducia nei confronti della politica tradizionale: così, per molti, un voto ai verdi è un voto contro la crescente burocratizzazione della società. Per questo, la lezione in Italia dovrebbe essere attentamente meditata: da noi, lo scontento nei confronti dei partiti può essere ancora sprezzantemente liquidato come «corrosive polemiche» del «qualunquismo nazionale», per usare recenti espressioni di Granelli; ma resta il fatto che, dal Melone ad oggi, il fenomeno del pullulare delle liste locali e delle manifestazioni di disaffezione dell'elettorato è tutt'altro che diminuito. Per colorarsi di verde ai partiti non basta acchiappare farfalle il loro impegno ecologico dovrebbe consistere soprattutto nel cominciare a far pulizia in casa propria, quanto meno, ad approntare i mezzi che consentano di vedere chiaro dentro i partiti e la «morale» pubblica. A questo punto, non mancherebbe probabilmente la credibilità per spiegare agli elettori che cosa davvero significhi la scelta «verde» e quali opzioni imponga. Scelte del tutto legittime. naturalmente. ma che, dai laici, vorremmo che i cittadini assumessero conoscendone il prezzo e le conseguenze. Salvatore Ca""bba Il

MAZINGA La qualità del legno I V OCATUS ATQUE NON VOCAtus deus aderii, aveva scolpito sul frontone della sua casa sul lago Cari Gustav Jung. Il che, tradotto alla buona, potrebbe anche stare a significare che, lo vogliamo o no, c'è sempre un Dio che ci protegge. Ne ho fatto esperienza recentemente io, in un caso in qualche modo personale ma che può forse interessare ad altri. Figuratevi un poco. Dopo la recen- ~e presa di distanza del PCI dall'Unione Sovietica, e dopo certi atteggiamenti e del Partito Socialista e del Partito Radicale che mi avevano lasciato perplesso, di fronte alla necessità di un partito serio, deciso, non compromesso con scandali, tangenti, sottogoverni, pasticciacci belli e brutti, mi era saltato il ghiribizzo che avrei potuto anche votare per i comunisti nelle prossime amministrative. Intendiamoci: siamo seri. Non che fossi proprio deciso, ma, insomma, era un pensierino che turbinava nel mio piccolo e infantile cervello giocherellone e che pur non avendo ancora una precisa consistenza, da un pocodi tempo non se ne voleva andare. Per fortuna, come dicevo, c'è un Dio che protegge anche chi non lo merita o, comunque, non lo vuole. Così, ecco che salta fuori la faccenda di Goldrake, Mazinga e soci. Goldrake, Mazinga? Che cosa c'entrano con le regionali, con i voti, con i comunisti? C'entrano, c'entrano. E vi spiegherò anche perché. Purché voi siate disposti a seguire i miei contorcimenti irrazionali, ma non per questo meno degni di esser presi in considerazione. lo ho sempre camminato seguendo l'intuito, l'inconscio, la pancia, e, anche se ho commesso tanti sbagli mi son sempre trovato bene. Comunque cercherò di convincere anche voi, che preferite far ft.!nzionare le cellule grige (co11 CULTURA I me diceva il vecchio Poirot) del vostro cervello. Incominciamo dunque da capo e facciamo un passo indietro. Chi siano Goldrake e Mazinga, immagino lo sappiate tutti. Sono quegli strani uomini-robot, muniti di doppio maglio perforante, asce spaziali, raggi delta, raggi protonici e altri simili deliziosi «componenti• che le multinazionali giapponesi dei nuovissimi cartoni animati hanno mandato a invadere Stati Uniti ed Europa attraverso centinaia di canali televisivi pubblici e privati. Chiunque abbia un bambino in casa (o anche solo come coinquilino) non può fare a meno di saper tutto su loro. Le urla che provengono dai televisori oltrepassano anche le più massicce pareti, e, a esse, fanno eco quelle dei ragazzini che ne fanno l'imitazione. Questi cartoni animati hanno il pregio di essere tutti eguali, di essere particolarmente cretini, di essere popolati da personaggi particolarmente maldestri e rincoglioniti. Questi robot, eroici difensori dell'umanità contro i «mostri spaziali•, sono beceri rincitrulliti, che inciampano nella propria ombra, che vincono le loro-battaglie solo quando il regista ha deciso di dar loro una mano pietosa e che perfino i teleragazzi più fanatici stimano per quello che valgono. Certo, i negozi di giocattoli fanno affari d'oro vedendo esemplari in plastica di questi buffi mostricciattoli,certo non c'è bambino che non lanci contro il suo amico o rivale il suo «doppio maglio perforante» o la sua «ascia spaziale•, ma via! anche il più grullo dei nostri figli, non si sogna neppure di prendere tutto questo troppo sul serio. Ci volevano i comunisti (vedete che prima o poi la faccenda si spiegava?!) per farlo. Infatti proprio da una città comunista, una delle città più rosse d'Italia, Imola, è partita una lettera sottoscritta da ben seicento firme in cui si chiede al ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni (da cui dipende la RAI-TV), a quello della Pubblica Istruzione (che non si capisce bene che cosa potrebbe fare) e alla Commissione Parlamentare di vigilanza sull'Ente radiotelevisivo, in cui si chiede di intervenire per la difesa della saIute psichica e mentale dei nostri amati ragazzi. «Davanti a certi programmi per l'infanzia - cito direttamente dai giornali e, in particolare da Repubblica - colpisce un uso della scienza e della tecnica, della stessa fantascienza legata alla guerra; strumenti sempre più moderni al servizio di una società dominata da lotte feudali e nelle mani di un uomo che regredisce, dominato da bassi istinti di avidità e di dominio•. Simili amenità sono nate nel «consiglio di interclasse» delle elementari Sante Zennaro di Imola, ma hanno avuto l'approvazione incondizionata del sindaco comunista («sono perfettamente d'accordo come sindaco e come padre», ha dichiarato con rara assenza di senso dell'umorismo), di collettivi, di operai singoli e organizzati. La crociata è partita dai ceti popolari, dai lavoratori in lotta per un avvenire migliore. In particolare, appunto, dai comunisti. Ora a questo punto vorrei fare alcune modeste considerazioni. Primo. Quando ero bambino io non esisteva, ahimé, la televisione. Non dico ahimé perché ri;J 22 APRILE /98()

~anga un'infanzia senza simili delizie, ma perché questo è indice della mia età, che comunque non rivelerò neppure sotto la minaccia delle armi. Esisteva un giornaletto .chiamato L'avventuroso con le avventure di Gordon, di Dale Arden, del perfido imperatore fyfing della principessa Aura e del principe Batin: c'erano gli uomini-falco cattivi e gli uomini-leone buoni e insomma, anche là c'era la società feudale. Ma, prima ancora leggevo i libri di Salgàri, con i perfidi thugs che strozzavano e uccidevano i loro nemici con i lazi muniti di robuste palle metalliche che sfondavano il cranio al malcapitato. C'erano i dayaki tagliatori di teste (quisiquilie) e i kriss malesi (di cui ero riuscito a farmi costruire un magnifico esemplare in legno che portavo trionfalmente infilato nella cintura). Per non parlare delle avventure nel selvaggio West con gli indiani che scotennavano i «cani visi pallidi» e le efferate sevizie che bianchi e pellerossa si riservavano reciproca!Jlente. D' accordo. La televisione è più persuasiva. «Rumori assordanti, colori accesissimi, gesti meccanici, psicologìa ripetitiva e insistente» cito sempre dal divertito articolo di Repubblica. «Tutto studiato apposta», dice una psicologa con l'aria scandalizzata di chi non sa che tutto in questo mondo è studiato apposta, dal concerto numero ventuno per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart al discorso beneaugurante di Papa Woytila o del presidente Cossiga. Ma non è che noi, allora, ci facessimo influenzare dai «nostri eroi meno di quanto i ragazzi di oggi si lasciano influenzare dai loro. Al contrario. Oggi c'è una maggiore ironìa, un certo distacco. Noi, invece, proprio perché leggevamo invece di vedere, ci immedesivamo sul serio, e se oggi si grida doppio maglio perforante, con ben maggior convinzione gridavamo il nostro «muori, fellone!». Ma lasciamo perdere il passato e la mia infanzia ormai lontana e torniamo al presente. Proprio all'inizio di questo anno scolastico, la figlia bellissima e assai perspicace (anni otto) di una mia carissima amica ha attraversato un periodo in cui aveva paura di tutto e di nulla. Non riusciva a stare sola in una stanza neppure l: pieno giorno. Questo periodo è IL LEVIATANO passato presto per fortuna, e, adesso, non se ne ricorda neppure più. Ma allora la mamma le chiese: «Come mai hai tanta paura? Saranno tutti quei filmacci che vedi in televisione!». Ricordo ancora con un misto di paura e di divertimento lo sguardo sbalordito con cui la ragazzina si volse a rispondere. «Ma nooo! - esclamò indignata e, vi assicuro, in piena buona fede -; non ~ono i film che mi mettono paura. E il telegiornale!». Dedico questa risposta ai comunisti (sindaco in testa) di Imola, al collettivo interclasse delle elementari Sante Zennaro e a tutti i firmatari della lettera. Amici miei. Non vi è venuto in mente che «l'uso della scienza e della tecnica» che si fa nella vita quotidiana è ben più grave, pericoloso, e deleterio anche per la psicologia dei nostri figli, che le pacchianate rutilanti di Goldrake e compagni? Perché non scrivete lettere per essere documentati. Sui pericoli reali delle centrali nucleari o sulla possibilità reale (e non fumettistica) di creare superuomini attraverso interventi di chirurgia genetica, cose già possibili oggi, qui e adesso? Perché non chiedete che cosa fanno quelli che preparano virus invincibili per la guerra (vera e non fantascientifica) batteriologica? Perché non chiedete come è finita l'inchiesta su Seveso e non vi informate sulla possibilità che av7 vengano, nel nostro Paese, Dio ci scampi, altri simili incidenti. Perché non vi occupate di quello che avviene negli stabilimenti di Porto Marghera dove le disgrazie sono sempre un pericolo costante? Perché non vi preoccupate di rendere in qualche modo ifnost:-\ mondo più vivibile, in modo che il telegiornale faccia da antidoto a Goldrake e non viceversa? E, infine, se proprio Goldrake vi dà tanto fastidio, perché non fate quello che avrebbero fatto i nostri genitori: non spegnete il televisore o non cambiate canale? Lasciate che il ministro delle Poste si occupi di fare arrivare in tempo le nostre lettere (cosa che è più fantascientifica di tutti i cartoni animati giapponesi), che il ministro della Pubblica Istruzione cerchi di far funzionare la nostra scuola (ammesso che tale denominazione possa ancora essere usata) e smettete di essere più stoltamente moralist1aei ·catiolici ortodossi. Se volete saperlo, è per questo, soprattutto per questo, che non vi voto. Ma come? - direte voi - con tanti così gravi problemi, tu ti attacchi proprio a Goldrake?! Appunto. Perché l'episodio, pur nella sua insignificanza, mostra in voi una mentalità contorta e, appunto, moralistica, che mi fa paura. Gente che scrive lettere ai ministri per Goldrake, è capacissima, domani, di scrivere al comitato di condominio per denunciare il fatto che ricevo ragazze sole dopo le dieci di sera. Si fa per dire, ma mica tanto... Mio padre buonanima, diceva sempre: «È la qualità del legno, quello che conta». Ed è proprio per la qualità del legno delle vostre capocce che non vi voterò neppure questa volta, amici e compagni comunisti. Con tutta la tristezza del caso. In attesa dei vostndoppi magli perforanti vi invio cordiali saluti. Vostro affezionatissimo Franco Valobra Abbonatevi al «Leviatano» Abbonamento annuo: L. 20.000 Abbonamento semestrale: L. 11.000 Sconto speciale per chi risiede nelle città e nei paesi dove «Il Leviatano» non arriva in edicola: abbonamento annuo a sole L. 14.000. :J 13

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