r: un particolare tipo di società, non fossero per caso dipendenti dal vivere stesso dell'uomo in società; eppoi se, invece di aggravarsi per effetto di un particolare modo di industrializzare, non divenissero più accentuati in ragione stessa del processo di industrializzazione, comunque perseguito. Poiché è evidente che se questi fenomeni si presentassero, come in effetti si presentano, già molto prima che sorga l'industria, anzi da sempre, e seguitassero a verificarsi, come di questi tempi appunto accade anche all'interno di un sistema di Stati che abbiano abolito la proprietà privata dell'industria stessa non avrebbe alcun senso metterli con quest'ultima in una relazione di causa ed effetto. Quanto è accaduto dopo Marx sulla scena mondiale concorre con i risultati di tutte le scienze umane sviluppatesi nell'ultimo secolo nel farci ritenere che la socialità sia appunto impensabile senza rivalità, e la rivalità senza la possibilità permanente di degenerare in guerra guerreggiata. Questo, indipendentemente dal tipo di organizzazione economica, sociale e politica delle singole unità costituenti il tutto. Occorrerebbe, come da Hobbes in poi si è pensato, che la formazione sulla Terra di un'unica autorità dotata del monopolio assoluto dei mezzi di repressione ponesse termine per sempre all'anarchia internazionale, imponendo un'unica legge alle centinaia e centinaia di unità politiche attualmente autonome in cui l'umanità è suddivisa da sempre. Del resto, si vede male come una simile sistemazione dell'umanità potrebbe durare, ammesso anche che si riesca a pervenirvi per vie che non ci portino a rimpiangere lo stato di cose attuale, come sarebbe se l'unificazione politica del pianeta avvenisse ad opera di un nuovo Hitler. Perché le rivalità, ormai interne all'unica cosmopoli umana, ma spaventosamente accresciute ed esasperate dall'enormità stessa della posta - il dominio del pianeta - non portassero di nuovo fatalmente a molteplici e insanabili fratture lungo le linee delle differenza di razza, di religione, di ideologia, di sviluppo economico· e così via, occorrerebbe immaginare il sorgere di un pericolo \.:temo comune a tutta l'umanità, u capace perciò di fonderla davvero in un'unica «nazione•, quale potrebbe essere solo la minaccia d'invasione da parte di abitanti di altri mondi, così come la minaccia di invasione da parte di altri popoli si è rivelata finora il mezzo più efficace per mettere a tacere le rivalità interne, la guerra internazionale il sostituto più valido alla guerra civile permanente. Assai prima di Marx, l'aveva intuito genialmente Giacomo Leopardi, il quale nello Zibaldone non solo aveva criticato come stolta e nociva l'utopia della pace universale, ma aveva coraggiosamente sostenuto la funzione positiva della guerra. «La divisione in · popoli diversi e la nimistà tra popolo e popolo è piutosto utile che dannosa al genere umano, tenendo _lontana la molto più terribile e fiera guerra iniestina•. ARISTOTELE Quanto dire che pace e guerra, solidarietà e «nimistà» sono relativi, per cui nell'universo della socialità non si può avere in un punto o per certo aspetto l'una senza avere l'altra in un altro punto per un altro aspetto, così come nell'universo della fisicità non c'è quiet~ senza moto e viceversa. Ciò non significa ovviamente che il capitalismo, tanto come sistema economico quanto come modo di essere e di pensare non influisca sulla bellicosità interna e internazionale della specie. Vi influisce invece ovviamente in molteplici e contrastanti modi, come vi influiscono del resto il collettivismo economico e l'ideologia comunista. Non si tratta però di un'influenza a senso unico, tutta e solo negativa nel primo caso, tutta e solo positiva nel secondo, che ama fingerselo la mentalità semplicistica, animis~ ca e proiettiva, cioè prescientifica, anzi primitiva, dei marxisti. Per quanto attiene al capitalismo bisogna distinguere anzitutto tra il sistema vero e proprio, cioè la marxiana proprietà privata dei mezzi di produzione operante in un rapporto concorrenziale di mercato, e l'industrializzazione, che esso per la prima volta ha introdotto nel mondo. Del capitalismo, una volta dimostrata l'insussistenza delle ragioni inventate da Marx e dai marxisti per sostenere il contrario, non sapremmo davvero dire perché e come potrebbe avere un'influenza che non fosse, come è stata, di attenuazione dei fattori psicologici, economici e sociologici della bellicosità umana. Il possesso e il desiderio di possedere, come pure il consumismo, diffusi, sia pure in diversissima misura, a tutti i livelli di una società, non possono che renderla meno incline alla guerra. Basti per tutti il confronto tra la bellicosità, pressoché inesistente, del1'America supercapitalistica e consumistica e quella della Russia, oppure della Cina e del Vietnam comunisti e arretrati. Diverso il discorso per l'industrializzazione, senza la quale non può esservi ovviamente abbondanza e consumismo, ma che, essendo l'umanità rimasta al policentrismo dell'epoca preindustriale, comporta anche due effetti collaterali esplosivi: l'accrescimento vertiginoso della potenza militare e il restringimento astronomico delle dimensioni spaziali e temporali del globo. Di qui effettivamente un aumento proporzionale sia dei motivi di frizione e di guerra sia della distruttività dei conflitti. È evidente che questi effetti negativi hanno sopravanzato quelli positivi. Ecco perché l'epoca del capitalismo ha coinciso con un moltiplicarsi o aggravarsi dei conflitti. Tuttavia, poiché il marxismo vuole eliminare il capitalismo e la guerra, ma non certo l'industrializzazione, dovrebbe dimostrare che con il collettivismo è possibile diminuire e disattivare le scorie di bellicosità inerenti al processo stesso di produzione moderno, senza bloccarlo. Vedremo in un prossimo articolo che è vero semmai il contrario. Domenico Setulllbrilu J 8 APRILE 1980
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