assicurarsi l'egemonia sulla scena mondiale, né però accordarsi in una spartizione stabile e perenne. Un mondo di quattro miliardi e mezzo di esseri umani divisi in centinaia di popoli e Stati, in cui una minoranza gode di un relativo benessere e una stragrande maggioranza vive ancora nella miseria, in cui esistono forme di sostanziale schiavitù accanto a civiltà fondate sul lavoro libero, pervaso da ideologie e religioni medioevali accanto a isole di mentalità scientifica e liberale, un mondo di questo genere vedrà i suoi equilibri continuamente turbati, rimessi in discussione, capovolti: e ogni mutamento di regime, ogni rivolta nazionale, ogni rivoluzione sociale si traduce in un vantaggio per una parte e in uno svantaggio per l'altra, altera l'equilibrio raggiunto, richiede una nuova, difficile, ricomposizione. Altrettanto evidente è che, almeno per un lungo periodo, insanabile appare il conflitto tra Cina e URSS. Una frontiera controversa di più di seimila chilometri, territori vasti quanto un continente rivendicati dall'una e dall'altra parte, il timore russo del crescere d'un potente nemico che ne completi l'accerchiamento e quello cinese di vedere a propria volta consolidarsi un'Indocina filosovietica, l'aspirazione della Cina a un ruolo mondiale che rispetti il suo peso demografico e la sua vastità territoriale, tutto lascia ritenere che il conflitto tra le due maggiori potenze comuniste non sia componibile: e non è certo per caso che, pur avendo attraversato rivolgimenti interni di vaste proporzioni, dalla rivoluzione culturale, al predominio di Lin Biao, alla «banda dei quattro», al ritorno di Deng Xiaoping, alla demaoizzazione, la Cina ha mantenuto un unico punto fermo: l'ostilità nei riguardi dell'Unione Sovietica. USA e URSS hanno dunque interessi sostanzialmente opposti, anche se di volta in volta parzialmente componibili in un modus vivendi; URSS e Cina sono tra loro nelJe stesse condizioni; e si potrebbe aggiungere anche che, in uno sguardo più vasto, USA e Cina, nonostante il riavvicinamento delJ'ultimo decennio, restano anch'esse potenze i cui interessi divergono e la cui composizione parziale e relativa richiede le stesse tecniche e le stesse procedure «coesistenziali». In questo contesto il Partito comunista italiano, tanto per far riferimento agli avvenimenti degli ultimi giorni, contraddittoriamente annuncia la visita del suo segretario generale a Pechino, vota una mozione filo-atlantica, dichiara il proprio sostegno alla linea «tiepida» di Giscard e Schmidt, manifesta un permanente legame con l'URSS, dando ampie assicurazioni a Mosca che il viaggio di Berlinguer «non è diretto contro nessuno altro o altri partiti comunisti ed operai, sia in qualche modo inimichevole verso altro o altri paesi socialisti e movimenti di liberazione» e dividendosi nel voto al parlamento, con un buon terzo dei deputati su posizioni filo-sovietiche. IL LEVIATANO Certo, l'invito a Berlinguer - che testimonia anche di una più sapiente e aperta politica estera da parte della Cina, alla ricerca di interlocutori nelle ali meno ortodosse del campo avverso (si pensi anche ai timidi gesti di disponibilità nei confronti dei Paesi dell'est europeo, di cui ha riferito Jiri Pelikan in un'intervista sul numero 3/ 1980del Leviatano) -è un segno positivo, più importante di quanto non sia lo strumentale voto sulla mozione di politica estera proposta dal governo. l'anticamera di una effettiva autonomia che non potrebbe non essere sgradita a Mosca. (Stupisce che Eugenio Scalfari, tanto attento alle «svolte» immaginarie nella collocazione internazionale del PCI, questa volta non si sia accorto di niente). Un passo nella giusta direzione, dunque. Anche se ci sembra di poter predire - senza preconcetti - che difficilmente al primo passo seguiranno clamorosi sviluppi. Il PCI presuppone infatti, nell'andare a Pechino, che esista ancora, nonostante «diversità», «contrasti», «polemiche», una realtà chiamata «movimento operaio e rivoluzionario nel suo insieme», che a una rottura possa seguire una ricomposizione della famiglia comunista. Sembra cioè, paradossalmente per un partito in fama di pragmatismo, essere proprio il PCI a privilegiare la comunanza ideologica tra comunisti alla realtà dei conflitti nazionali e statuali. Ma se «contatti», «scambi di esperienze», «ricerca di convergenze» sono possibili, soprattutto con un partito come quello italiano apparentemente distaccato dagli aspetti più beceri ed aggressivi della politica del Cremlino, sembra difficile credere che, per stabilire un effettivo legame, i cinesi non chiedano al PCI una sostanziale rottura del rapporto privilegiato che ancora lo lega a Mosca. Una rottura che i comunisti italiani, da tanti anni, sembrano sempre voler finalmente compiere, ma dalla quale puntualmente finiscono per ritrarsi nei momenti cruciali. In realtà la sua storia, la composizione della sua classe dirigente, il sentimento della base, probabilmente anche un incombente ricatto di scissione teleguidata, rendono molto difficile, se non impossibile, un'effettiva autonomia del PCI da Mosca. Diplomazia accorta e abili escamotage non cambiano la realtà con cui il PCI deve fare i conti: il voto della settimana scorsa alla Camera è un drammatico avvertimento sui rischi cui il PCI andrebbe incontro se Berlinguer volesse fare il passo più lungo della gamba. j
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