COSTITUZIONE VEZIO CRISAFULLI Qualcosa da cambiare? ... E IMPRESSIONE DIFFUSA CHE, CON L'INOLtrarsi dell'autunno e il sopraggiungere dell'inverno, certi improvvisi bollori revisionistici che prima e subito dopo la campagna elettorale si erano manifestati anche in ambienti per l'innanzi refrattari ai problemi sollevati dalla crisi delle istituzioni abbiano subito un processo accelerato di raffreddamento. Tanto per cominciare, sempre più frequenti e insistenti si sono levate, infatti, dalle pagine di giornali e riviste, nel corso di dichiarazioni fatte a convegni e tavole rotonde dedicate all'argomento, le voci di giuristi e politologi (tra i quali anche qualche amico collaboratore di questo «Leviatano»), ad ammonire sulla astratta oziosità dei dibattiti di ingegneria costituzionale e dei relativi suggerimenti. Modificare la Costituzione, perché?, si è chiesto taluno, come se il perché non fosse stato spiegato mille volte e da non pochi anni ormai e il marasma in cui versano, quale più quale meno, le pubbliche istituzioni non saltasse agli occhi del più distratto osservatore. Prima di riformarla, bisogna attuarla integralmente, si è da molti osservato di rincalzo, con riferimento più o meno esplicito (e giustificatissimo) agli artt. 39 e 40 (disciplina dell'organizzazione sindacale e del diritto di sciopero), senza rendersi conto del circolo vizioso: perché per affrontare argomenti del genere ci vuole in primo luogo uno Stato che abbia ritrovato se stesso, con un parlamento deciso ad affermare sul serio la propria «centralità» di organo rappresentativo dell'intera collettività e la supremazia della legge e con governi che siano in grado di farla rispettare da tutti i cittadini, sindacalisti compresi. E a questi obiettivi tendono per l'appunto, pur nella loro varietà, le proposte di ritocchi, aggiustamenti e revisioni, del sistema e nel sistema, di cui si vorrebbe sbarazzarsi, magari con un gesto di fastidio. Legiferare in materia di sciopero e sindacati nelle condizioni attuali, di capitolazione dei pubblici poteri rispetto ad ogni sorta di pressioni esterne, sarebbe impresa disperata: non ci insegnano nulla recenti e recentissimi episodi, dalla vicenda degli «uominiradar» al rinvio delle elezioni scolastiche imposto da studenti in agitazione, agli inquietanti sviluppi del sindacato «unitario» di polizia? Conosco la replica: il problema è di volontà politica, di capacità o incapacità dei partiti, e non di istituzioni difettose da correggere o mutare: non bastano - è questo il ritornel!o - le riforme legislative o costituzionali a rendere governabile un Paese. Non bastano, certo; e chi scrive queste righe non ha mancato di rammentarlo in ogni occasione: la migliore delle costituzioni non vale a salvare un paese dalla insipienza e dalla debolezza della sua classe politica (con l'avvertenza che al riguardo le responsabilità sono sempre da spartire tra forze politiche di maggio16 ranza e di opposizione). Il che non toglie tuttavia che le forme istituzionali incidano a loro volta sull'esperienza reale, condizionando e costringendo entro certi binari i concreti comportamenti degli operatori politici attivi. Le stesse resistenze che oggi si oppongono, ad esempio, a modificare in senso maggioritario la legislazione elettorale non rivelano forse la consapevolezza dell'influenza che queste modifiche sicuramente avrebbero sugli schieramenti politici? I partiti minori, infatti, le respingono perché vi ravvisano un pericolo per la propria sopravvivenza; i comunisti, per motivi più complessi che si collegano al loro rifiuto della logica dell'alternanza, Ma la misura del «raffreddamento», ed anzi la precisa intenzione di chiudere il discorso sulle istituzioni, risultano soprattutto dalle discussioni svoltesi tra la metà dello scorso mese di ottobre e la metà di novembre, alla Camera e poi al Senato, traendo occasione dall'esame dei rispettivi bilanci interni. Ancora una volta, chiaramente, la classe politica, nella sua stragrande maggioranza, smentendo -anche per bocca di parlamentari socialisti!- le illusioni in un primo tempo suscitate dal noto articolo dell'on. Craxi sulla «Grande Riforma», hanno detto «no» a quasi tutti i disegni di ingegneria istituzionale, tranne che per quanto riguarda la non rieleggibilità del presidente delle Repubblica e la conseguente soppressione del semestre bianco ed all'infuori di una certa quale disposizione a ritocchi dei regolamenti parlamentari. Ma, almeno a giudicare dai resoconti sommari e fatte le debite eccezioni (che si contano sulle dita di una mano), con quale povertà di idee. con quale rozzezza di argomenti, con quale contorno di luoghi comuni! Nella vita non si finisce mai di imparare, e molte cose che francamente ignoravo, ho appreso dalla lettura di quei resoconti. Per esempio, che i congegni elettorali maggioritari sarebbero «di stampo autoritario» (mentre sino all'altro giorno avevo creduto che il regime britannico fosse di stampo autenticamente liberaldcmocratico); oppure, che la prospettiva dell'alternanza al governo della nazione costituirebbe «una fuga in avanti», o che una forma di governo presidenziale soffocherebbe il rigoglioso pluralismo sociale proprio del nostro Paese (mentre molti consideravano un caso addirittura da manuale di società civile pluralistica quello degli Stati Uniti); o che la posizione del Parlamento ne risulterebbe schiacciata «nella tenaglia del rapporto plebiscitario tra presidente e opinione pubblica» (mentre si credeva che in America il ruolo e il prestigio del Congresso non fossero inferiori, ma semmai un tantino superiori a quelli del nostro Parlamento, ed altresì ignoravamo che fosse antidemocratico quello stretto rapporto. di «responsabilità diffusa». potrebbe dirsi. che negli Stati Uniti intercorre tra presidente e pubblica opinione). Nessun motivo di sorpresa, invece. nei frequenti riferimenti all'antifascismo (anche se può lasciare perplessi l'affermazione che questo sia addirittura un' «ideologia»): trattandosi della Costituzione. il richiamo ai valori della Resistenza e dell'antifascismo era d'obbligo. Così da un alto seggio siamo stati ammoniti a non dimenticare mai il valore «storico» della Costituzione e ciò che essa ha significato nella vita del Paese: come se la bontà di un testo costituzionale sia da giudicare in base al momento storico in cui è stato formato, e non ai risultati cui la sua applicazione (per quanto. in alcuni settori, distorta) ha approdato. I I DICEMBRE 1979
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