Il Leviatano - anno I - n. 6 - 11 dicembre 1979

SOCIETA E STATO o LUCIANO ALBANESE L'aggressività del tiranno L POLITICA INTERNAZIONALE È TORNAla violentemente alla ribalta: guerra tra Vietnam e Cambogia, tensione tra Cina e Unione Sovietica, questione dei missili, sono i principali problemi che negli ultimi tempi hanno agitato - e continuano ad agitare - la scena mondiale. Sarebbe vano nascondersi che questi avvenimenti trovano la sinistra - tanto l'ala liberaldemocratica che quella socialista e comunista - completamente disarmata. Non avendo mai posto il problema della guerra al centro della propria attenzione, e limitandosi tutt'al più ad esorcizzarla relegandola nel passato dell'umanità (sulla scia di Benjamin Constant), ovvero assegnandole fini extrapolitici (è il caso di Marx), oggi la sinistra si rivela impotente a fronteggiare questa «recrudescenza del politico». Naturalmente, il modo più semplice di risolvere il problema sarebbe quello di non considerarlo tale, accettando fatalisticamente la guerra come un «dato» insuperabile. È la via dello storicismo tedesco contemporaneo: «La politica di potenza delle nazioni - dice Raymond Aron - la cui espressione normale e l'effetto inevitabile e naturale sono le guerre, non è per Weber un avanzo di epoche passate o una negazione dello sforzo culturale degli uomini, ma una fra le numerose forme crudeli della lotta per l'esistenza». Se non si accetta questo punto dì vista, bisogna riconoscere, tuttavia, che gli strumenti, teorici e pratici, che dovrebbero consentirci di superare la guerra, sono vecchi e inadeguati. Questo è il caso, particolarmente, della «teoria dell'imperialismo», secondo la quale solo la fine del capitalismo e l'avvento del comunismo avrebbero potuto portare la pace. Oggi, l'esplosione della guerra tra paesi non capitalistici, come il Vietnam e la Cambogia, la Russia e la Cina, ha «falsificato» la teoria di Lenin. Secondo Marx, la concentrazione del capitale comportava l'abbattimento delle barriere nazionali, la creazione di un mercato mondiale e l'unificazione-anche se ancora «in negativo», mediante l'instaurazione di un rapporto di sfruttamento - dei popoli. Ma questo significa che mentre per Marx il capitalismo, progredendo, abbatteva i nazionalismi, per Lenin li. rinfocolava, perché se ne serviva come strumento per la realizzazione del controllo dei 11 MAXWEBER mercati. Più in generale, nel passaggio da Marx a Lenin, si inverte il rapporto tra politica ed economia: in Lenin, infatti, l'economia deve essere riportata sotto il controllo della politica, laddove in Marx è la politica che deve essere riportata sotto il controllo dell'economia. Questo equivale a dire, in ultima analisi, che nel passaggio da Marx a Lenin si inverte il rapporto Stato-società civile: in Marx lo Stato si risolve nella società civile, in Lenin la società civile si risolve nello Stato. È accaduto così che la «separazione» liberale tra Stato e società civile - che tanto Marx che Lenin sentivano come una «contraddizione» - si sia sanata in un modo che è l'esatto contrario di quello auspicato da Marx: non già tramite l'assorbimento del primo nella seconda, ma tramite l'assorbimento della seconda nel primo. Tale, infatti, è l'aspetto dei paesi dell'Est dopo la rivoluzione d'ottobre. L'assetto politico delle società moderne può essere descritto come caratterizzato dalla divisione del potere economico dal potere politico ad Ovest, e dalla concentrazione del potere economico nel potere politico ad Est. Ora, si può osservare empiricamente, negli Stati, una relazione tra concentrazione del potere e tendenze aggressive, da un lato, e divisione del potere e tendenze pacifistiche, dall'altro; o meglio, si può I I DICEMBRE 1979

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