Il Leviatano - anno I - n. 2 - 13 novembre 1979

EDITORIALE Ma Pannella non muore IL CONGRESSO DI GENOVA HA DIMOstrato che il Partito radicale, in realtà, non esiste. È un giudizio drastico, ce ne rendiamo conto. Pure, crediamo, non infondato. E cercheremo di dimostrare che vi sono ragionevoli argomentazioni che autorizzano questa conclusione. C'è da premettere che il fatto che solo oggi ci si accorga sulla grande stampa di una realtà quanto meno confusa all'interno del PR e si avanzino gravi dubbi sulla sua democrazia interna deriva dall'accresciuto interesse verso i radicali seguìto al cospicuo risultato elettorale che Pannella e compagni hanno conseguito lo scorso giugno. Si può anche, con ragione, aggiungere che proprio quel successo è all'origine dell'attuale drammatizzazione dei contrasti, soprattutto per la consistente entità che, sulla base di quel risultato, ha raggiunto il finanziamento pubblico al partito. E però, a chi abbia seguito con attenzione negli anni passati la vicenda radicale, non dovrebbe essere sfuggito che le premesse di quanto è accaduto a Genova erano tutte nella passata gestione, e ancor più nella stessa normativa interna che da vari anni il Partito radicale si è dato. Perché diciamo che il Partito radicale non esiste? Basterebbero i dati. Gli iscritti al partito sono circa tremila, divisi in cosiddetti «partiti regionali», con una media quindi di circa centocinquanta iscritti per regione. Se dividiamo il risultato elettorale per il numero degli iscritti, risulta un militante ogni 430 voti, mentre - per fare un confronto - v'è un iscritto ogni sette voti al PCI e uno quattordici alla DC. I voti che ottiene il Partito radicale, in altre parole, non sono dovuti a una propaganda capillare, a un'azione di persuasione costante e prolungata dei militanti tra gli elettori, ma provengono - come giustamente dice Pannella - dalla risonanza delle campagne nazionali del partito, dall'immagine generale che una parte dell'elettorato si è fatta del suo gruppo dirigente o forse solo di Pannella personalmente. In altre parole, l'esistenza o la non esistenza della base del partito, dei tremila iscritti, ha poca o nulla rilevanza sul risultato elettorale conseguito o conseguibile. Ne deriva che il gruppo dirigente, e soprattutto il gruppo parlamentare e Pannella stesso, guardano con una certa insofferenza al condizionamento di una base ritenuta pressoché inutile: come dimostra la sostanziale indifferenza per il dibattito congressuale - testimoniata dalla parIL LEVIATANO tenza per Parigi di Pannella e dei suoi fedeli - e, a volte, un vero e proprio ostentato disprezzo (l'opposizione interna, per Pannella, è composta di «lanciatori di merda»). Che il Partito radicale non esista, quindi, non siamo noi a dirlo, ma lo stesso Pannella. E tanto egli ne è convinto che, da qualche anno, ha fatto codificare nello Statuto del partito la sua. irrilevanza e incompetenza. Lo Statuto del Partito radicale, come è noto, stabilisce la reciproca indipendenza e autonomia tra partito e gruppo parlamentare. Il gruppo non risponde al partito della propria attività. In linea di principio l'idea che il deputato, eletto dal popolo, al popolo e non al partito debba rispondere, ci sembra condivisibile. Ma perché questo principio possa avere pratica attuazione è necessario un meccanismo elettorale che faccia effettivamente dell'eletto un rappresentante diretto dei suoi elettori, come potrebbe essere per esempio un sistema elettorale con collegio uninominale. Questo non è però il caso del sistema elettorale italiano, in cui è in effetti il gruppo dirigente che, grazie all'organizzazione delle preferenze, presceglie, all'interno della lista per la quale andrà in parlamento. E infatti, nello stesso Partito radicale, era già noto l'elenco di coloro che sarebbero stati eletti ben prima del 3 giugno, con la sola incertezza per gli ultimi, la cui elezione dipendeva dal numero finale dei voti in lista. Per cui, anche, se non soprattutto, nel Partito radicale, le liste elettorali, anziché in rigoroso ordine alfabetico (o in ordine di sorte), erano capeggiate da vari capolista (a volte, come a Trieste, sgraditi alla base locale), cioè da coloro che il partito aveva designato per essere eletti. In mancanza di un meccanismo che consenta una effettiva verifica degli elettori sul deputato, un certo rapporto di disciplina nei confronti del partito, sia pure nei limiti della dignità dell'eletto, appare, per quanto imperfetto, più democratico che non l'assoluto arbitrio del deputato stesso. A maggior ragione quando, come nel caso dei radicali, i deputati, violando la lettera e lo spirito della legge per il finanziamento pubblico dei partiti (non dei gruppi parlamentari), si sono appropriati (come è avvenuto) e si appropriano, e hanno utilizzato a loro libera scelta, una cospicua somma di denaro, mentre, a loro dire, il partito veniva messo dal «regime» in 5

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