Il Leviatano - anno I - n. 1 - 4 novembre 1979

via, non soltanto perché si sostengono a vicenda con la loro stessa ostilità, ma anche perché i tentativi di raggruppamento, benché molto frequenti, restano - fino ad oggi almeno - vani; tali divisioni politiche, incapaci di formulare alternative reali, ripetono le stesse vuote idee generali. Per di più, non si ha nemmeno il diritto di parlare sotto forma di rimprovero, visto che i rimproveri, in tali condizioni, non sono giustificabili se non nel quadro di proposte migliorative. Tuttavia, la sensazione di essersi smarriti in un «cui de sac» intellettuale, sembra universale, eccetto che per i fanatici attaccati a formule scadute. Le grandi perturbazioni politiche, le rivoluzioni e le guerre civili nel terzo mondo, ci interessano soprattutto per il significato degli avvenimenti nei conflitti internazionali, e non per i loro simbolismi ideologici. Se tale significato si chiama Islam o socialismo scientifico (o i due allo stesso tempo) o democrazia o liberazione semplicemente, che importa? Sono i segni delle alleanze politiche che contano, anche se persino in questi casi la distanza tra le etichette ideologiche e le forze in gioco mostra a che punto le realtà sociali mancano di mezzi per esprimersi. Si parla spesso della «crisi» delle istituzioni parlamentari e delle loro insufficienze: senza dubbio c'è del vero in queste critiche. Tuttavia, non avendo avuto le istituzioni parlamentari, fino ad oggi, come alternativa se non istituzioni dittatoriali, tali critiche o restano sterili - nel caso in cui non propongono altre forme atte a garantire alla società le stesse libertà civili e la stessa protezione di diritti - oppure rinforzano semplicemente il sogno totalitario. I movimenti democratici nei regimi dispotici - comunisti, non comunisti o anticomunisti - hanno una posizione, da questo punto di vista, molto più facile e anche molto comoda: essi possono esprimere le loro rivendicazioni in modo non equivoco; se dicono «vogliamo le elezioni, l'abolizione della censura, la libertà di parola, la libertà di organizzazione a scopi politici o sindacali, le garanzie legali contro la polizia ecc.», tutti sanno di che si tratta e non c'è dubbio sul contenuto di tali rivendicazioni. Ma se si proclama che bisogna «abolire l'alienazione» o «instaurare la giustizia sociale», allora si manipolano delle parole il cui uso consiste principalmente nel canalizzare un impreciso sentimento di insoddisfazione e di frustrazione per un inconfessato obiettivo politico. Ma dove si trova questa Alienazione crudele che un nobile Bruto potrebbe stanare e pugnalare? Eppure, quando ci si sforza di tradurre queste parole - potentissime perché senza chiaro contenuto - in proposizioni ben definite e concrete, ci si trova improvvisamente di fronte all'immensità di problemi complessi e interdipendenti che non si sa da che parte abbordare. Quasi tutti sanno che non esiste nessuna chiave universale per risolvere quelle difficoltà mondiali che affrontiamo in maniera inefficace; 18 tutti sanno che la vecchia idea liberale, secondo la quale tutto si accomoderà se ognuno si occupa liberamente dei propri affari, non può essere presa sul serio; che l'ideale degli anarchici o dei gauchistes - l'autonomia o l'autogestione delle unità produttive - anche se fosse realizzabile non porterebbe che all'economia della concorrenza illimitata del secolo passato con tutti i suoi effetti nefasti: le ineguaglianze estreme, le crisi, i fallimenti in massa, la disoccupazione, la miseria; tutti sanno che l'opposto ideale di uno Stato che nazionalizzi tutto e al quale sono affidate tutte le responsabilità non si può realizzare che sotto forma della schiavitù totalitaria. Mettendo da parte gli ideali, non ci restano allora che compromessi, più o meno goffi, tra le due incompatibili esigenze che hanno la loro origine dal nostro desiderio di avere la sicurezza totale e allo stesso tempo lo spazio illimitato dell'espressione individuale. Ed è precisamente ciò che non otterremo mai insieme. L'ondata totalitaria Sul fatto che si senta la necessità sempre più urgente di soluzioni globali e che i pericoli più gravi non si lasciano scartare o attenuare se non su scala mondiale, siamo tutti d'accordo, ed è inutile enumerarne le evidenti ragioni. Che molte soluzioni possano essere efficacemente applicate nell'arco di tempo che ci resta prima di quella o quell'altra apocalisse promessa dai saggi, questo pare estremamente improbabile. Non passa una settimana senza che si leggano sui giornali lugubri profezie annunciate dai personaggi più competenti sull'argomento: o questa sarà la nuova era glaciale, e non potremo farci niente, oppure al contrario, l'aumento della temperatura causato dall'uomo provocherà un diluvio lento ma inesorabile; si è predetto che soffocheremo ora a causa dell'inquinamento dell'aria, ora a causa della deforestazione del bacino dell'Amazzonia; una volta è la sovrappopolazione, un'altra volta è l'espansione del deserto che ci decimerà per farne. Anche senza contare la guerra totale, i possibili scenari di una catastrofe universale sono numerosissimi e la schiacciante maggioranza della gente colta, senza parlare degli altri, non ha i mezzi per verificarne le probabilità o di pesarne gli argomenti. Viviamo dopotutto in un'epoca in cui si crede che la scienza può salvarci o trascinarci all'estinzione, e allo stesso tempo ci rendiamo conto della nostra impotenza nel controllarla. Ci basti pensare che oggi bisogna essere un fisico professionista per capire la definizione internazionale obbligatoria di ciò che è un «metro». Nei paesi democratici la popolazione è spesso incoraggiata a prendere nei referendum decisioni i cui effetti costituiscono argomento di violenti disaccordi tra le persone più competenti e non è sorprendente che le decisioni prese effettivamente provengano poi da motivi che non 4 NOVEMBRE 1979

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